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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2024

Echi

Non solo grant. Un ventaglio di strumenti a sostegno dell’impresa sociale

Marco Gerevini


Premessa

Le riflessioni contenute in questo articolo sono il frutto delle mie esperienze dirette maturate nell’ambito dell’housing sociale con Fondazione Housing Sociale e dell’impact investing con Fondazione Social Venture Giordano Dell'Amore e, come tali, non hanno la pretesa di avere valore generale. Sono solo il mio punto di vista.

Fondazione Housing Sociale è stata costituita nel 2004 da Fondazione Cariplo. Alla costituzione hanno partecipato anche Regione Lombardia e ANCI Lombardia, a rimarcare la natura di partnership pubblico – privata del progetto. La missione della Fondazione è sperimentare soluzioni innovative per la strutturazione, il finanziamento, la realizzazione e la gestione di iniziative di edilizia sociale economicamente sostenibili. FHS è oggi un punto di riferimento per la promozione del settore, la facilitazione dei progetti e il presidio della loro qualità: dalla definizione del progetto urbano, alla realizzazione del progetto sociale, alla predisposizione del piano finanziario immobiliare e dei servizi. Fondazione Social Venture Giordano Dell'Amore nasce nel 2017 come braccio strategico e operativo di Fondazione Cariplo nell’ambito degli investimenti a impatto sociale ed è dedicata alla promozione della cultura dell’impact investing in Italia e in Europa. Una missione che si traduce operativamente in un’attività integrata di divulgazione, capacity building, advisory e investimento rivolta a iniziative imprenditoriali che sviluppano modelli di attività a impatto sociale, ambientale o culturale.

Contesto

Secondo gli ultimi dati ISTAT disponibili, sono oltre 380.000 le istituzioni non profit italiane, con circa 870.000 dipendenti. Da un punto di vista numerico, oltre l’80% è rappresentato da associazioni, mentre le cooperative sociali impiegano circa il 50% degli occupati, pur rappresentando solo il 4% del numero complessivo di enti. Un universo vastissimo, con enti molto diversi tra loro dal punto di vista giuridico, della missione, del settore di riferimento, del modello di attività, della struttura organizzativa, etc.

Se proviamo, però, a focalizzare l’attenzione su come questi enti finanziano la propria attività, è importante fare subito una distinzione. Il terzo settore è composto da due grandi gruppi di soggetti: da una parte gli enti che per loro missione e per la natura delle loro attività spesso non sono in grado di costruire un modello di attività economicamente sostenibile, come associazioni, organizzazioni di volontariato, enti religiosi, onlus, etc. e, dall’altra, soggetti di natura più imprenditoriale, come cooperative e imprese sociali, che riescono spesso a sviluppare modelli di attività economicamente sostenibili. Gli enti che appartengono al primo gruppo utilizzano principalmente donazioni, quote associative o contributi pubblici per finanziare le proprie attività, mentre gli enti che appartengono al secondo gruppo, al terzo settore “imprenditoriale”, si sostengono spesso con l’autofinanziamento, derivante principalmente dalla vendita di beni o servizi, e possono anche accedere a una più ampia gamma di strumenti finanziari, tradizionalmente utilizzati anche dai soggetti for profit: finanziamenti bancari, strumenti di capitale e strumenti ibridi. Sempre con riferimento a questo secondo gruppo di enti, nel corso degli ultimi anni, il terzo settore e il mondo della finanza, un po' per necessità e un po’ per interesse, hanno iniziato a conoscersi e frequentarsi con sempre minori pregiudizi e inibizioni.

A questo punto, è utile fare un breve passo indietro su come terzo settore e secondo settore, le imprese for profit, nel corso degli ultimi decenni, abbiano iniziato ad avvicinarsi e i confini tra loro sempre più a sfumarsi.

Lo spazio condiviso tra non profit e for profit

Storicamente, l’obiettivo dell’utilizzo del capitale da parte degli investitori tradizionali è sempre stato molto distante da quello della filantropia. In particolare, con riferimento agli obiettivi di rendimento finanziario, i due mondi hanno operato, fino agli anni Sessanta del secolo scorso, su versanti opposti: da un lato, la finanza tradizionale, alla ricerca della massimizzazione dei rendimenti finanziari - senza valutarne i possibili impatti ambientali o sociali – e, dall’altro, la filantropia, impegnata a ottenere il massimo beneficio sociale o ambientale dall’utilizzo delle proprie risorse a fondo perduto.

Gradualmente, nel corso degli ultimi decenni, hanno iniziato a delinearsi alcuni approcci agli investimenti che si collocano a un livello intermedio tra i due estremi. Sul versante della finanza tradizionale è emersa la pratica degli investimenti socialmente responsabili (“SRI”), ovvero di un approccio finanziario che ha iniziato a considerare, oltre alle valutazioni di rischio e rendimento, anche le ricadute sociali e ambientali degli investimenti. Sul versante della filantropia, in una prima fase su iniziativa della statunitense Ford Foundation, nacquero negli anni Sessanta del XX secolo i cosiddetti “program related investments”, che integravano l'uso di strumenti di erogazione liberale con prestiti a basso interesse per finanziare programmi di riqualificazione urbana e di edilizia abitativa accessibile (c.d. housing sociale).

Durante i decenni successivi, simili programmi iniziarono ad attrarre una molteplicità di investitori in tutto il mondo, che, di fatto, sono stati i precursori dei moderni investitori a impatto. Tra la fine degli anni Novanta e l'inizio degli anni Duemila, alcuni investitori for profit hanno iniziato a ricercare attivamente opportunità di investimento selezionate sulla base di considerazioni sociali o ambientali, sia per rispondere alle sensibilità delle nuove generazioni, sia alle nuove esigenze del mercato. Iniziarono, così, a svilupparsi i cosiddetti investimenti “sostenibili”. Dall'intersezione tra i program related investments, ideati nel mondo della filantropia, e gli investimenti sostenibili, sorti nel mondo profit, è nato il concetto di “investimento a impatto”. Rispetto agli investitori socialmente responsabili o sostenibili, quelli a impatto si collocano a un livello ulteriore, in virtù dell’esplicita volontà di allocare attivamente capitali in imprese o progetti che perseguano intenzionalmente l'obiettivo primario di generare valore sociale, ambientale o culturale.

Oggi possiamo affermare che esiste un terreno comune, popolato da imprese for profit responsabili e da imprese sociali con modelli economicamente sostenibili, dove il secondo settore “evoluto” incontra il terzo settore imprenditoriale. Del resto, allargando ulteriormente il punto di osservazione del fenomeno, è visibilmente in atto una tendenza all’attenuazione delle tradizionali demarcazioni tra modelli profit e non profit, come tra Stato, settore privato e società civile nei modelli d’intervento e nelle forme di finanziamento. Si stanno infatti sempre più diffondendo approcci ibridi, nei quali il termine “profit” non è più una discriminante. Il vero riferimento è il beneficio generato. Un valore, al tempo stesso, economico, finanziario, sociale e ambientale, la cui distribuzione avviene tra tutti i portatori di interesse: investitori, dipendenti, clienti, fornitori, cittadini, comunità coinvolte, etc. In questo nuovo terreno comune si stanno sempre più ritrovando soggetti anche assai diversi tra loro, provenienti da mondi ed esperienze talvolta molto distanti per definizione e gestione del valore generato: enti pubblici, investitori istituzionali, investitori privati, aziende, banche, asset manager, venture capitalist, fondazioni, family office, fondi pensione ed enti del terzo settore. Questa progressiva contaminazione sta favorendo la sperimentazione di nuovi strumenti e nuove soluzioni.

Housing sociale e impact investing

Un esempio su tutti è il settore dell’housing sociale italiano, un settore tradizionalmente presidiato dalle cooperative, con un modello di successo molto consolidato, ma con difficoltà nell’attrarre risorse aggiuntive da parte di investitori istituzionali. Verso la fine degli anni Novanta, il mondo delle fondazioni, con Fondazione Cariplo in testa, ha iniziato a studiare un nuovo modello di intervento che fosse in grado di ampliare l’offerta di alloggi sociali già presente sul mercato e di suscitare l’interesse di nuovi investitori. Al termine del periodo di studio e in seguito al successo delle prime sperimentazioni, nel 2009, venne creato un sistema integrato di fondi immobiliari “etici” in grado di realizzare interventi di housing sociale su tutto il territorio nazionale, con 3 miliardi di euro raccolti tra investitori istituzionali. Il programma è stato disegnato con l’obiettivo di incrementare l’offerta abitativa dedicata alle categorie di popolazione con un reddito incompatibile con l’edilizia popolare, ma non in grado di soddisfare le proprie esigenze abitative sul mercato tradizionale. Il programma, oggi gestito da CDP Real Asset SGR SpA, ha l’obiettivo di realizzare 20.000 alloggi sociali e 7.000 posti letto per studenti in tutta Italia ed è uno dei programmi di impact investing di maggiori dimensioni a livello internazionale.

Questo esempio testimonia come si possa portare innovazione anche in settori con modelli di attività tradizionali e consolidati. Nel caso dell’housing sociale, sono state le fondazioni di origine bancaria a rivestire un ruolo fondamentale nella sperimentazione di un nuovo modello di intervento, promuovendo progetti emblematici e di elevata qualità sociale, con l’obiettivo di divulgarne i contenuti e le modalità di attuazione. Anche nell’ambito della finanza “a impatto” le fondazioni di origine bancaria stanno svolgendo un ruolo fondamentale. Per loro, infatti, la proposta dell’impact investing è molto interessante. Non è da considerare come un’alternativa, una sostituzione rispetto al grant: è piuttosto un’opportunità complementare, che può agire come un moltiplicatore dell’impatto delle donazioni e può “far risparmiare” grant nei casi in cui i modelli di attività dei beneficiari abbiano le caratteristiche di sostenibilità per poter ricevere un investimento, permettendo inoltre, una volta rientrati dall’investimento stesso, di poter riutilizzare le risorse per sostenere ulteriori iniziative.

È anche importante sottolineare che, in certe situazioni, utilizzare l’investimento in alternativa al grant può essere più efficace per l’accompagnamento dei beneficiari e la loro responsabilizzazione. In altri casi, grant e impact investing possono anche essere visti come complementari dal punto di vista temporale, con il grant che interviene nella fase iniziale, più rischiosa, dello sviluppo di un’iniziativa e l’investimento a impatto che subentra in un secondo tempo, anche con meccanismi di ibridazione con il grant stesso.

Gli strumenti finanziari a disposizione del terzo settore

La presenza consolidata di strumenti di finanza “tradizionale” a disposizione dell’economia sociale in Italia e la più giovane evoluzione del mercato dell’impact investing permettono agli enti di terzo settore di poter accedere a un’ampia gamma di strumenti finanziari potenzialmente disponibili sul mercato. Tuttavia, se guardiamo alle modalità di finanziamento degli enti del terzo settore “imprenditoriale”, alla luce dei dati presentati dall’Osservatorio su Finanza e Terzo Settore di Aiccon e Intesa Sanpaolo nel novembre 2023, risulta evidente che autofinanziamento e finanziamento bancario siano ancora di gran lunga le fonti più utilizzate, in termini di volumi. Essi rappresentano infatti circa l’80% delle fonti di copertura per gli investimenti nel periodo 2019-2022. In realtà, come dicevamo, sul mercato l’offerta di strumenti finanziari a sostegno dello sviluppo degli enti è molto più ricca.

Se guardiamo agli strumenti di debito, possiamo considerare le forme più consolidate di credito tradizionale e mutualistico e il microcredito accanto a strumenti più innovativi, anche se nella prima fase di sviluppo, come il prestito peer-to-peer e il lending crowdfunding. Se guardiamo invece agli strumenti di capitale, equity, mezzanino, convertibili e convertendi sono forniti da vari investitori, come fondi di venture philanthropy, social impact funds, piattaforme di equity crowdfunding e business angels. Tra le soluzioni più innovative, sono da citare anche gli strumenti “payment by result”, ovvero di “pagamento al risultato”: in sostanza l’ente pubblico responsabile di un servizio non corrisponde un pagamento per i servizi, ma si impegna a pagare un corrispettivo qualora l’esito dell’intervento risulti positivo; questi ultimi di grande potenziale, ma la cui applicazione ha molte implicazioni con contorni non ancora nitidi e molti quesiti sulla loro reale capacità di generare i benefici attesi. Si segnala, a questo proposito questo interessante articolo https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/social-impact-bond-payment-by-results-e-imprese-sociali. Oltre, naturalmente, al tradizionale grant, il caro vecchio contributo a fondo perduto.

Nella nostra esperienza, il terzo settore che sviluppa modelli di attività economicamente sostenibili continua a vedere nei contributi a fondo perduto, pubblici o privati, e nelle varie forme di credito bancario le migliori modalità di finanziamento delle proprie attività da parte di terzi. Questo anche perché, come abbiamo spesso riscontrato, esiste da parte degli enti, una certa ritrosia nell’accogliere un investitore di capitale che entra nei processi decisionali e ne condiziona la governance. In questi casi, la presenza dell’investitore è vissuta più come ingerenza che come valore aggiunto. Ma per le fondazioni il grant è una risorsa molto preziosa, da erogare con grande attenzione. La domanda è enormemente superiore all’offerta, in particolare in questi ultimi anni in cui le risorse pubbliche si sono ridotte in modo sostanziale. Per questo motivo, alcune fondazioni hanno iniziato a sperimentare strumenti ibridi, come l’impact grant o il recoverable grant.

L’impact grant è stato sperimentato per la prima volta da Fondazione Social Venture Giordano Dell'Amore nel 2022 con l’investimento nella Cooperativa Sociale Vesti Solidale, che ha come missione l’inserimento lavorativo di persone con diverse tipologie di svantaggio (disabilità fisica e psichica, alcooldipendenza, tossicodipendenza e carcerati) e in condizioni di fragilità economica. L’investimento è avvenuto nella forma di un aumento di capitale da €300.000 che contribuisce a finanziare la Cooperativa, impegnata nella costruzione del nuovo impianto in grado di riciclare fino a 15.000 tonnellate all’anno di indumenti usati. L’investimento è stato realizzato mediante la sottoscrizione di azioni come socio finanziatore. In particolare, con €200.000 in azioni di finanziamento standard e €100.000 in azioni di finanziamento “auto-estinguibili” il cui importo, al raggiungimento di alcune condizioni concordate (numero di soggetti in condizioni di svantaggio assunti, tonnellate di indumenti trattati e margine di contribuzione dell’impianto) sarà destinato a riserva indivisibile e non distribuibile della Cooperativa, trasformandosi quindi, di fatto, in un contributo a fondo perduto. Nel caso in cui la Cooperativa non raggiunga gli obiettivi concordati, queste azioni perderanno la caratteristica di estinguibilità, mantenendo le prerogative delle azioni di finanziamento standard. Lo strumento è oggi nella sua fase sperimentale e non si è ancora concluso il primo periodo di verifica del raggiungimento degli obiettivi di impatto. Al momento, la fondazione ha già adottato lo stesso strumento in altri tre investimenti, una Srl e due cooperative, tutti ancora nella prima fase di sperimentazione.

L’impact grant è uno strumento finanziario ibrido innovativo che si colloca a cavallo tra grant ed equity, creando un «ponte» tra risorse filantropiche e di investimento, e che permette di trasformare una quota parte dell’investimento in grant, in caso di raggiungimento di obiettivi di impatto sociale pre-concordati. L’obiettivo è incentivare il raggiungimento degli obiettivi di impatto e, al tempo stesso, rafforzare il capitale del beneficiario, con evidenti vantaggi sul suo profilo di rischio e sulla sua capacità di accedere ad altre forme di finanziamento e di attrarre nuovi investitori e finanziatori. È importante sottolineare che, nell’impostazione di FSVGDA, l‘impact grant è abbinato a una porzione di aumento di capitale tradizionale e, quindi, permette all’investitore di entrare nella governance del beneficiario, di accompagnarne lo sviluppo e di poter influire sulle scelte strategiche di fondo. In ogni caso, anche qualora fosse strutturato solo come impact grant, l’effetto sarebbe il medesimo almeno fino al momento della verifica delle condizioni di estinzione delle azioni auto-estinguibili.

Un altro esempio di struttura ibrida è costituito dal recoverable grant, forma mista fra donazione e investimento utilizzata in alcune operazioni, ad esempio, da Fondazione Opes. Il “recoverable grant” è assimilabile ad una donazione che può essere recuperata se si verificano certe condizioni o come un prestito a tasso 0%. Se il capitale impiegato non è recuperato, la donazione diventa a fondo perduto o il prestito diventa inesigibile, senza le conseguenze di un debito non pagato. Se invece il capitale viene recuperato, in parte o completamente, potrà essere riutilizzato come un revolving fund a beneficio di altri enti o restituito, a seconda degli accordi.

Altri esempi di strutture finanziarie costruite per permettere agli enti di terzo settore, in questo caso nell’accezione più ampia, di accedere a risorse finanziarie a condizioni agevolate sono l’iniziativa “Sostegno al Terzo settore”, realizzata dai partner Fondazione Cariplo, Fondazione Peppino Vismara, Intesa Sanpaolo, CSVnet Lombardia, Fondazione ONC, Cooperfidi Italia e Fondazione Social Venture Giordano Dell'Amore, e l’iniziativa “Futuro aggiunto”, appena annunciata da Fondazione Compagnia di Sanpaolo con i partner Intesa Sanpaolo, Cooperfidi Italia e Fondazione Social Venture Giordano Dell'Amore. Entrambe le strutture si basano su un sistema di strumenti di garanzia e di copertura costi a beneficio degli enti di terzo settore.

Come attrarre nuovo capitale per supportare gli enti?

Sono numerosi gli enti del terzo settore in condizione di perdurante fragilità economica; le risorse a fondo perduto su cui hanno fatto storicamente affidamento sono sempre più ridotte e sono spesso legate alla copertura di costi sostenuti per la realizzazione di progetti specifici. Per quanto sia innegabile che il grant resti la risorsa di finanziamento di gran lunga preferita - in quanto denaro senza costo, a fondo perduto - è importante che tali enti, quando possibile, si aprano a nuove forme di finanziamento e investimento, abbracciando una cultura organizzativa il più possibile imprenditoriale, orientata alla sostenibilità di medio-lungo periodo. Come agire davanti a un simile scenario? 

Innanzitutto, a nostro giudizio, è necessario cercare di attrarre nuove risorse di capitale sul mercato, svolgendo tre azioni fondamentali:

  • la prima è continuare a rafforzare la domanda, attraverso un’attività di capacity building che permetta un accompagnamento agli enti nel percorso di crescita e un ampliamento delle loro competenze imprenditoriali e manageriali;
  • la seconda è cercare di ridurre il livello di rischio degli investimenti. Soggetti pubblici ed enti filantropici potrebbero intervenire con meccanismi di garanzia o strumenti ibridi che possano assorbirne una parte;
  • la terza è misurare rigorosamente l’impatto generato dalle iniziative: un’azione fondamentale per “qualificare” il rendimento finanziario e così compensare, insieme alla riduzione di rischio, il minor rendimento, spesso inevitabile per proteggere la prestazione sociale. In tal senso, è necessario preservare l’integrità dell’impact investing - rispetto ai più diffusi approcci di tipo ESG - e la sua connotazione distintiva: perseguire intenzionalmente – non incidentalmente – obiettivi di impatto specifici, definiti ex-ante, attraverso modelli di valutazione, stima e monitoraggio.

È poi importante continuare a sviluppare strumenti finanziari adatti alle esigenze dei soggetti che operano nell’ambito dell’economia sociale. Innanzitutto, in termini di rendimento finanziario. Gli investitori che sostengono l’economia sociale ma, anche il secondo settore “evoluto”, “responsabile”, a mio giudizio, devono avere il coraggio di capovolgere la logica del successo di un’operazione: il successo non si dovrebbe misurare con il moltiplicatore del valore o del rendimento di un investimento considerato per sua natura “a impatto”, ma con il moltiplicatore dell’impatto generato, avendo raggiunto il rendimento obiettivo. Non è misura di successo, cioè, avere realizzato 3x l’investimento in un modello di attività impatto, ma aver generato 3x l’impatto inizialmente previsto, raggiungendo il rendimento finanziario prefissato. Inoltre, è importante considerare che gli enti del terzo settore hanno limitazioni normative nella dimensione del rendimento finanziario conseguibile dagli investitori. È quindi difficile immaginare investitori disponibili a impiegare i propri capitali in un settore spesso complesso, ad alto rischio e, in più, con una remunerazione del capitale limitata. Per ovviare a questo problema, dal punto di vista dell’investitore, le soluzioni possono essere due: combinare strumenti di capitale, a rendimento ridotto, con strumenti di debito a tassi più elevati, affinché il rendimento ponderato complessivo sia soddisfacente. Tuttavia, questa soluzione incrementa anche il costo delle risorse raccolte dai beneficiari. L’alternativa è quella di costruire un portafogliodiversificato, in cui il rendimento di una parte degli investimenti sostiene, “sussidia” il minor rendimento della restante parte. Una combinazione di investimenti di questo tipo potrebbe, ad esempio, essere realizzata da un investitore che investa sia in soggetti appartenenti al secondo settore “evoluto”, con rendimento senza vincoli normativi, sia al terzo settore “imprenditoriale”, che potrebbe quindi beneficiare di un costo del capitale più ridotto. In questo modo si potrebbe mantenere anche un certo livello di coerenza nella strategia di investimento.

La seconda grandezza da considerare è la durata dell’investimento. A mio giudizio, è necessario dare più tempo dei tradizionali 3-5 anni per la valorizzazione dell’investimento (cd “exit”) delle iniziative che si sviluppano nell’ambito dell’economia sociale. I modelli di attività sono spesso fragili e necessitano di tempi lunghi per trovare il giusto assetto ed equilibrio. La necessità degli investitori di realizzare l’investimento dopo pochi anni può costringere l’ente a “forzare” certe scelte per rendersi appetibile a un compratore, a favore del rendimento finanziario, ma a discapito dell’impatto sociale generato. Sarebbe quindi opportuno considerare orizzonti temporali più lunghi, di almeno 10-15 anni, per avere la possibilità, solo se necessario, di dare più tempo alle iniziative di crescere e consolidarsi. Ma il tempo è una variabile finanziaria rilevante per gli investitori e quindi, anche qui, è necessario studiare strumenti flessibili che permettano la possibilità di un’exit anche nel lungo periodo.

La terza grandezza è il legame dell’investimento con la dimensione dell’impatto generato. È necessario definire ex-ante gli obiettivi di impatto di un’iniziativa affinché gli investitori possano decidere se e quanto investire in essa. Al tempo stesso, è importante mantenere una certa flessibilità per poter ridefinire gli obiettivi in caso di eventuale cambiamento, ad esempio del modello di attività o delle condizioni di mercato. La presenza nella governance del beneficiario è cruciale anche per poter mantenere questa capacità di intervento. Gli investitori sono spesso specializzati in settori o ambiti di investimento. Se un’iniziativa si focalizza su un certo settore, una certa categoria di beneficiari o un certo territorio potrà attrarre con maggiore facilità investitori interessati a generare un effetto positivo in quell’ambito, purché concordato ex-ante, monitorato nel tempo e calcolato ex-post, anche rinunciando a una parte del rendimento. In questo senso, l’impact investing rappresenta indubbiamente un approccio nuovo, volto a favorire una capillare mobilitazione “dal basso” di risorse verso settori e forme d’impresa virtuosi che ricercano il raggiungimento di un impatto sociale positivo per tutti i portatori di interesse.

Per concludere, ritengo che lo sforzo da compiere per agevolare un avvicinamento tra il terzo settore e la finanza a impatto sia duplice: da un lato, è necessario affiancare ai programmi di investimento l’offerta di robusti strumenti di capacity building per gli imprenditori sociali, mutuando il modello di accompagnamento imprenditoriale dedicato alle start-up; dall’altro, è cruciale sperimentare nuove soluzioni e individuare nuovi standard per contribuire a indirizzare gli investitori verso una profonda evoluzione culturale che permetta loro di considerare le caratteristiche e le esigenze specifiche delle iniziative a impatto e di non considerare il rendimento finanziario come unico parametro di riferimento nel misurare il successo di un investimento.

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