Una delle cause principali dell’insuccesso del D.Lgs. 155/2006 è stata sicuramente, oltre al divieto di distribuire gli utili ai soci nell’impresa sociale societaria, anche la mancata concessione di agevolazioni fiscali. L’art. 18 del D.Lgs. 112/2017, che ci accingiamo a esaminare in questo articolo, si pone l’obiettivo di colmare questa lacuna. La tecnica legislativa adottata è quella della detassazione degli utili e avanzi di gestione, già da tempo sperimentata con le cooperative a mutualità prevalente.
Keywords: impresa sociale, riforma del terzo settore, codice del terzo settore, fiscalità
DOI: 10.7425/IS.2021.02.02
L’impresa sociale, a prescindere dalle disposizioni speciali che la riguardano e dalle forme giuridiche assunte (ente o società), è fiscalmente inquadrabile nell’ambito degli enti commerciali (art. 73, c. 1, lett. b del DPR 917/86 e analogamente, art. 4 del DPR 633/72).
Ciò significa che, se anche l’ente è costituito in una delle forme previste dal Libro Primo del Codice Civile, sarà ad esso applicabile l’art. 81 del TUIR: “Il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali di cui alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 73, da qualsiasi fonte provenga è considerato reddito di impresa ed è determinato secondo le disposizioni di questa sezione”.[1]
In altri termini, anche per gli enti non lucrativi non sarà più applicabile l’art. 143 del TUIR relativo alla definizione del reddito complessivo degli enti non commerciali per categoria di reddito.
I primi due commi dell’art. 18 prevedono un regime di sostanziale detassazione degli utili e degli avanzi di gestione.
Analogamente a quanto previsto per le cooperative sociali[2] (Legge n. 381/1991) e per i consorzi tra piccole e medie imprese (Legge n. 240/1981), gli utili o gli avanzi di gestione conseguiti nelle attività di interesse generale e attività diverse non costituiscono redditi imponibili qualora siano destinati:
È possibile, tuttavia, utilizzare le riserve a copertura delle perdite, senza che ciò comporti la decadenza del regime fiscale in esame. In questo caso, onde evitare manovre elusive, la distribuzione degli utili sarà preclusa fino alla ricostituzione delle stesse riserve.
La norma è da ricollegarsi da una parte all’art. 3, c. 1 del D.Lgs. 112/2017 che vincola l’impresa sociale a destinare gli utili e avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio, e, dall’altra all’ultimo comma dello stesso art. 18, che, potendosi ravvisare un trattamento di favore (aiuti di Stato), ha ritenuto di subordinare l’efficacia all’autorizzazione della Commissione Europea.[3]
Questo è un punto particolarmente delicato perché ha, in pratica, sinora, bloccato la concreta attuazione della nuova impresa sociale, anche se il suo superamento dovrebbe essere agevole se appena si considera l’orientamento della Corte di giustizia europea in merito alle agevolazioni alle società cooperative.[4]
La Corte di Giustizia Europea (sentenza 8 settembre 2011, cause riunite C-78T80/08), pur riconoscendo che in generale le agevolazioni fiscali alle cooperative hanno natura di aiuti di Stato, esclude però che siano aiuti vietati e perciò incompatibili con il diritto dal momento che la diversità tra società cooperative e società con scopo di lucro legittima e rende legittimo un trattamento differenziato e più favorevole delle prime rispetto alle seconde.[5]
Ora, non vi è dubbio che “le imprese sociali, come le società cooperative, presentano tratti differenziali rispetto alle società con scopo di lucro, che ne giustificano un trattamento tributario differente da quello ordinario”.[6]
Ritornando al nostro argomento, si noti che scompare, dopo le modifiche di cui al D.Lgs. 26 luglio 2018, n. 95, la condizione dell’oggettivo utilizzo delle riserve, nel termine di 2 anni dal conseguimento degli utili, originariamente prevista dal D.Lgs. n. 112/2017.
Inoltre, a differenza di quanto previsto originariamente, dopo l’emanazione del decreto correttivo, allo scopo di impedire qualsiasi forma anche indiretta di distribuzione utili, sono, invece, considerati imponibili gli utili o gli avanzi di gestione con destinazioni diverse da quelle sopra indicate, distribuiti sotto qualsiasi forma ai soci, anche qualora ciò avvenga sotto forma di aumento gratuito di capitale nei limiti delle variazioni ISTAT.
Analogamente a quanto già previsto per le società cooperative (art. 21, comma 10, Legge n. 449/1997), il comma 2 dell’art. 18, come modificato dal Decreto correttivo, stabilisce che non concorrono a formare il reddito imponibile delle imprese sociali le variazioni di cui sopra, onde evitare che le imposte dovute in conseguenza delle variazioni fiscali possano costituire a loro volta un elemento imponibile (c.d. imposta da imposta).[7] La disposizione di cui al periodo precedente è applicabile solo se determina un utile o un maggiore utile da destinare a incremento del patrimonio, ai sensi dell’art. 3, comma 1 del D.Lgs. n. 112/2017.[8]
L’art. 18, comma 1 prevede, come si è detto, la non imponibilità ai fini IRES delle somme mandate a riserva indivisibile, e destinate allo svolgimento delle attività statutarie o ad incremento del patrimonio.
Viceversa, l’Agenzia delle Entrate (risposta ad interpello n. 243/2020) ritiene che “ai sensi del menzionato art. 18 del D.Lgs. n. 112/2017, esclusivamente l’utile e l’avanzo di gestione derivanti dallo svolgimento dell’attività statutaria destinati ad incremento del patrimonio dell’impresa sociale sulla base del menzionato art. 3 (del D.Lgs. n. 112/2017), non concorrono alla formazione del reddito di periodo”. Pertanto, secondo l’Agenzia, le plusvalenze realizzate per la vendita di terreni, non potendo essere ricondotte di per sé allo svolgimento dell’attività statutaria dell’impresa sociale, concorrono alla determinazione del reddito, secondo le ordinarie modalità di imposizione, applicabili alla tipologia di soggetto fiscale che rappresentano. Nel caso di specie – conclude l’Agenzia – occorre fare riferimento alle ordinarie modalità di cui all’art. 86 del TUIR, il quale, come è noto, prevede la imponibilità delle plusvalenze dei beni relativi all’impresa, se sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso (art. 86, comma 1, lett. a).
Non sembra, però, essere questa l’interpretazione che deriva dal tenore letterale della norma agevolativa citata sopra, la quale richiede che gli utili/avanzi di gestione vengano destinati allo svolgimento dell’attività statutaria, di cui all’art. 2, non che siano provenienti dall’esercizio di tali attività. La norma, quindi, non entra nel merito di come si sia formato l’utile: se, cioè, esso sia composto solo da proventi derivanti dalla gestione ordinaria, o anche da quelli provenienti della gestione straordinaria, ma che, tuttavia, entrano nella gestione dell’impresa. In effetti, l’art. 18 del D.Lgs. n. 112/2017 prevede, tra l’altro, (vedi art. 1, comma 1), che non concorrono alla formazione del reddito imponibile dell’impresa sociale le somme destinate ad apposite riserve, ai sensi dell’art. 3, commi 1 e 2, e cioè, allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio. Come si vede, l’art. 18 è strettamente collegato all’art. 3, concernente il divieto di distribuzione, sia diretta che indiretta di utili, ed è caratterizzato dalla non imponibilità degli utili e avanzi di gestione effettivamente reinvestiti nell’attività di impresa di interesse generale.
Conviene sottolineare che la norma in esame ricalca, nella sostanza, il contenuto dell’art. 12 della Legge n. 904/1977 per le società cooperative, la quale prevede l’esclusione totale dal reddito imponibile per tutte le somme devolute alle riserve indivisibili a condizione che sia esclusa la possibilità di distribuirle tra i soci sotto qualsiasi forma, sia durante la vita dell’ente, sia all’atto del suo scioglimento. Si noti che, per le cooperative, non si è mai entrati nel merito dei proventi da tassare separatamente. Per esse era pacifico che il calcolo del reddito di impresa passava attraverso l’accantonamento dell’utile a riserva indivisibile e la ripresa a tassazione (in più o in meno) delle variazioni di cui all’art. 83 del TUIR.
In conclusione, appare, quantomeno restrittiva, la presa di posizione dell’Agenzia delle Entrate richiamata sopra, atteso che la ratio della norma agevolativa è quella di impedire che gli utili vengano distribuiti ai soci, al di fuori delle previsioni di cui all’art. 3, comma 3 del D.Lgs. n. 112/2017. È appena il caso di aggiungere che nella esenzione di cui all’art. 18 rientrano, alle condizioni ivi previste, i proventi di tutte le attività legittimamente svolte, e non solo le attività di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 112/2017 (attività di interesse generale). La relazione illustrativa al Decreto n. 112/2017 sottolinea che della detassazione di cui all’art. 18 del Decreto possono beneficiare anche i proventi relativi alle attività diverse e secondarie, sempreché siano effettivamente reinvestiti nell’attività istituzionale di interesse generale.[9]
I commi 3 e 4 dell’art. 18 riconoscono un regime di detraibilità e deducibilità per gli investimenti effettuati nell’equity dell’impresa sociale.
Si tratta di misure agevolative volte a favorire gli investimenti di capitale (Legge n. 106/2016) nelle imprese sociali agendo sugli incentivi a favore di chi investe. La disciplina viene allineata a quella già sperimentata delle start-up innovative e delle PMI innovative.
1. Detrazione IRPEF pari al 30% della somma investita nel capitale sociale di una società, incluse società cooperative, che abbiano:
L’agevolazione fiscale è subordinata al rispetto di alcune limitazioni:
2. Deduzione IRES del reddito pari al 30% della somma investita nel capitale sociale di una o più società, incluse società cooperative:
Anche in questo caso vi sono alcune condizioni da rispettare:
Tabella 1. Incentivi sugli investimenti.
Persone fisiche |
Società |
Detrazione del 30% |
Deduzione del 30% |
Investimento massimo: euro 1.000.000 |
Investimento massimo: euro 1.800.000 |
Vincolo: mantenimento partecipazione per 5 anni |
Vincolo: mantenimento partecipazione per 5 anni |
Il comma 5 dell’art. 18, allo scopo di non creare disparità di trattamento tra le imprese sociali costituite in forma societaria e quelle costituite in forma non societaria, prevede l’estensione delle misure previste per le società agli atti di dotazione e i contributi di qualsiasi natura, posti in essere successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 112/2017, in favore di fondazioni che abbiano acquisito la qualifica di impresa sociale da non più di 5 anni, indipendentemente dalla data di costituzione.
Analoga misura non si applica, invece, alle imprese sociali costituite in forma di associazione in considerazione della maggior facilità con cui tali enti possono acquisire per trasformazione la forma societaria qualora intendano avvalersi di capitale di rischio ed usufruire delle agevolazioni del D.Lgs. n. 112/2017.[10]
Gli enti del Terzo settore, come evidenziato dalla sentenza n. 131 del 2020 della Corte Costituzionale, possono ricondursi ad un ambito di organizzazione delle “libertà sociali” non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle forme di solidarietà che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale, normativamente prefigurata dal Costituente”.
Sulla base di tali principi, la Riforma prevede forme di vantaggio per ciò che concerne la imposizione sui redditi a quelle particolari imprese del Terzo settore che sono le imprese sociali (art. 18 del D.Lgs. 112/2017), mediante la detassazione degli utili mandati a riserva indivisibile.
Appare giustificato un diverso trattamento ai fini IRES rispetto agli altri enti e società in quanto l’impresa sociale propone un modello organizzativo che delinea una forma di impresa privata diversa dalle altre società. Pertanto, l’agevolazione di cui sopra non risulta selettiva, e, quindi, non riconducibile all’interno della fattispecie di aiuti di stato, vietate ai sensi dell’art. 107 TFUE.
Se così stanno le cose, non si capisce, da una parte, il procrastinarsi dell’autorizzazione della Commissione Europea (che, a quanto risulta, sembrerebbe non essere ancora stata richiesta), che ha l’effetto di scoraggiare da parte dei soggetti interessati la scelta dell’impresa sociale; e, dall’altra, la presenza, all’interno della riforma, di alcune norme che, di fatto, per taluni enti, si rivelano ostative rispetto a tale scelta.
Ci si intende riferire, ad esempio, all’art. 89, c. 7, lett. b) del D.Lgs. 117/2017, il quale modificando l’art. 10, c. 1 del DPR 633/72, stabilisce che le esenzioni previste per le prestazioni di cui ai n. 15, 19, 20 e 27 ter dalla norma citata attualmente riferite alle Onlus, allorché la Riforma sarà pienamente operativa, si applicheranno agli ETS non commerciali.
In tale contesto, le Onlus, che non assumono la qualifica di ETS non commerciale, perché non ne hanno la convenienza o i requisiti, e che, in base al loro modello organizzativo, optano per la qualificazione come impresa sociale, non potranno più godere della esenzione in relazione alle operazioni richiamate, e in base alla normativa vigente. Trattandosi di prestazioni di servizi, relativi a assistenza sanitaria, socioassistenziale e sociosanitaria, si dovranno assoggettare tali operazioni ad aliquota ordinaria del 22%.
Inoltre, la natura dell’ETS, quale ente commerciale o non commerciale, viene determinata (vedi art. 79, c. 5 del D.Lgs. 117/2017) in base al principio di prevalenza tra entrate non commerciali e entrate commerciali. Tale rapporto potrebbe variare di anno in anno, in base ai fattori che compongono tali parametri, e, conseguentemente, potrebbero variare gli adempimenti e gli obblighi legati al passaggio da un regime di esenzione a un regime di imponibilità ai fini IVA. A questo punto, la ulteriore domanda che ci si potrebbe porre è la seguente: con la perdita della qualifica di Onlus, nel momento in cui queste vengono abrogate (art. 102, c. 2 del D.Lgs. 102, c. 2 del D.Lgs. 117/2017), l’esenzione può, comunque, continuare ad essere goduta anche in regime di impresa (sociale), allorché (vedi ad es. art. 10, n. 20 o 27 ter) sussistano i presupposti indicati dalla norma stessa?
La nostra risposta è positiva, ma sarebbe quanto mai utile un chiarimento dell’Amministrazione finanziaria.
Per quanto riguarda la questione generale, sollevata precedentemente, si segnala che il problema era stato avvertito durante il percorso di conversione del decreto correttivo (D.Lgs. n. 105/2018) al D.Lgs. n. 117/2017. Lo schema di decreto, elaborato dal Governo, proponeva di aggiungere all’art. 89, c. 7, del CTS, la lett. c), prevedendo quanto segue: all’art. 10, comma 1, ai numeri 19, 20 e 27 ter, la parola “Onlus” è sostituita dalle seguenti: “enti del Terzo settore, escluse le cooperative sociali, nonché le imprese sociali costituite in forma di società”.[11]
Il Consiglio di Stato (parere n. 1432/2018 del 30 maggio 2018) ha sollevato rilievi di carattere formale. È stato, a quel punto, ripristinato il testo originario.
È da valutare se non valga la pena riprendere in esame la questione.
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