Sostienici! Rivista-Impresa-Sociale-Logo-Mini
Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
impresa-sociale-2-2021-tirocinio-e-tutoraggio-tra-evoluzione-e-involuzione-delle-politiche-attive-del-lavoro

Editoriale

La riforma del Terzo settore tra unità e differenziazione

Luca Gori, Gianfranco Marocchi

Lavoro

Impresa sociale e lavoro

Redazione

Tirocinio e tutoraggio

Piera Lepore

Gestione delle risorse umane in agricoltura sociale

Francesca Vaccari, Silvia Sacchetti, Andrea Signoretti

Coprogrammazione

Coprogrammazione, banco di prova per l’amministrazione condivisa

Redazione

La co-programmazione ex articolo 55

Andrea Bongini, Pina Immacolata Di Rago, Salvatore Semeraro, Umberto Zandrini

La coprogrammazione a Caluso

Gianfranco Marocchi

Recensioni

Cooperative da riscoprire. Recensione

Simone Poledrini

Numero 2 / 2021

Lavoro

Tirocinio e tutoraggio, tra evoluzione e involuzione delle politiche attive del lavoro

Piera Lepore

Abstract

In questo contributo si intende ripercorrere le pratiche di affiancamento e sostegno alle forme di inserimento di lavoratori svantaggiati e fragili presso imprese, nell’ambito di percorsi formativi o di avvicinamento al lavoro, da un certo punto identificate giuridicamente come tirocini; si cercherà quindi di mostrare come, a partire dagli anni Ottanta, si sia diffusa la consapevolezza prima rispetto al fatto che un’esperienza para-lavorativa fosse centrale nel recupero di dignità e di autonomia della persona e poi, negli anni Novanta, che potesse rappresentare un passaggio in grado di favorire l’accesso all’occupazione per le persone fragili. In entrambi i casi, si conveniva sul fatto che tali auspicabili esiti richiedessero, soprattutto nei casi di persone con fragilità, di affiancare l’esperienza nelle imprese con un insieme di azioni, spesso identificate come “tutoraggio” o con altre denominazioni, ma in ogni caso consistenti in un’azione di supporto sia alla persona (individuazione e rafforzamento delle competenze, azioni sulla motivazione, ecc.), sia all’azienda in cui viene intrapreso l’inserimento. Si intende inoltre evidenziare come, con riferimento alla situazione territoriale torinese e piemontese cui si riferiscono alcune delle evidenze presentate, ma ragionevolmente anche in altri contesti territoriali, si sia passati da una fase di attenzione e investimento su tali azioni ad un’altra – tuttora in corso, sebbene emergano talvolta positivi elementi di controtendenza – in cui è diminuita l’attenzione al lavoro sulla persona e al lavoro di rete tra servizi, privilegiando invece un’interpretazione burocratico-rendicontativa del lavoro di affiancamento all’inserimento, con conseguenze negative sull’efficacia dei percorsi di inserimento.

Keywords: tirocinio, tutoraggio, inserimento lavorativo, politiche attive del lavoro, cooperative sociali

DOI: 10.7425/IS.2021.02.04

L’autrice desidera ringraziare il prof. Andrea Signoretti per i preziosi suggerimenti e le indicazioni bibliografiche.

 

Introduzione

Questo articolo intende soffermarsi, avvalendosi dei racconti di operatori dell'inserimento lavorativo e analizzando le pratiche di affiancamento e sostegno alle forme di inserimento di lavoratori svantaggiati e fragili presso imprese, sulla nascita e lo sviluppo di percorsi formativi o di avvicinamento al lavoro, identificati da un certo punto giuridicamente come tirocini e sulla loro successiva evoluzione sino ai giorni nostri. Si evidenzierà come dagli anni Ottanta si sia diffusa la consapevolezza circa il valore delle esperienze di inserimento in attività produttive (quella che oggi identificheremmo come “tirocinio”) nel recupero della dignità e dell'autonomia della persona e poi, negli anni Novanta, circa l’efficacia di tali pratiche per favorire l’accesso all’occupazione per le persone fragili. Si argomenterà inoltre come in entrambe le fasi sopra richiamate si sia convenuto sul fatto che tali auspicabili esiti richiedano, soprattutto nei casi di persone con fragilità, di affiancare l’esperienza nelle imprese con un insieme di azioni, spesso identificate come “tutoraggio” o con altre denominazioni, consistenti in un’azione di supporto rivolta sia alla persona (individuazione e rafforzamento delle competenze, azioni sulla motivazione, ecc.), sia all’azienda in cui viene intrapreso l’inserimento. Tali azioni sono oggi nella maggior parte dei casi realizzate da parte di Agenzie per il Lavoro nate all’interno del Terzo settore – generalmente cooperative sociali di tipo A o consorzi di cooperative sociali – che mirano a favorire la collocazione di lavoratori con fragilità in imprese (tra cui le cooperative sociali di inserimento lavorativo, vista la loro specifica vocazione; ma anche in imprese ordinarie) promuovendo appunto tirocini, adeguatamente sostenuti da percorsi di accompagnamento, formazione e tutoraggio del lavoratore fragile, al fine di favorirne l’assunzione e un successivo impiego duraturo.

Si intende inoltre evidenziare come, quantomeno con riferimento alla situazione territoriale torinese e piemontese cui si riferiscono una parte delle evidenze cui si fa riferimento nell’articolo, ma ragionevolmente anche in altre aree territoriali, ad una fase di attenzione e investimento sulle azioni di sostegno e affiancamento al tirocinio ne sia seguita un’altra – tuttora in corso sebbene emergano talvolta positivi elementi di controtendenza – in cui è diminuita l’attenzione al lavoro sulla persona e al lavoro di rete tra servizi, privilegiando invece un’interpretazione burocratico-rendicontativa del lavoro di affiancamento all’inserimento, con conseguenze negative sull’efficacia dei percorsi di inserimento.

Nel delimitare questo ambito di indagine, si è scelto di considerare solo in termini indiretti o analogici altre forme importanti di inserimento di lavoratori deboli e svantaggiati, in primo luogo l’azione delle cooperative sociali di tipo B, che sono qui citate solo in quanto soggetti possibili destinatari di inserimenti in tirocinio, sia finalizzati a valutare una possibile successiva assunzione, sia ad offrire contesti di crescita alle persone inserite in vista di ulteriori futuri inserimenti.

Nel primo paragrafo si ripercorrerà la nascita e il primo sviluppo, inizialmente operato senza specifiche normative di riferimento, di quelli che poi sarebbero stati denominati appunto tirocini e che includevano il supporto e l’affiancamento della persona inserita. Nel secondo paragrafo si richiameranno i passaggi che, nel corso degli anni Novanta, hanno portato all’inquadramento normativo dei tirocini e del tutoraggio. Nel terzo paragrafo si evidenzierà come tali strumenti, in coincidenza con la crisi economica di fine anni Dieci, siano stati sottoposti ad azioni di razionalizzazione e burocratizzazione che li hanno depotenziati. Tali tesi saranno sostenute basandosi anche su materiale di ricerca originale, costituito dalle interviste degli operatori dell’inserimento lavorativo ed educatori. Nelle conclusioni si cercherà di trarre elementi di riflessione rispetto alle policy, individuando le debolezze dell’attuale forma prevalente di realizzazione delle attività di tutoraggio e auspicando di conseguenza una loro diversa organizzazione.

Le interviste

 

L’analisi qui condotta si avvale di alcune interviste che ricostruiscono la nascita dei primi progetti di inserimento lavorativo in Città di Torino. In particolare sono stati intervistati due operatori sociali, con esperienze diverse sul campo: PDN, educatore assunto nei primi anni Ottanta dal Comune di Torino, per seguire il reinserimento sociale di minori a rischio di dispersione scolastica e di marginalizzazione e devianza, e GP, operatrice prima all’interno delle comunità di recupero terapeutico per soggetti della psichiatria negli anni Novanta e poi assunta dal Consorzio Sociale Abele Lavoro per seguire i primi progetti di tirocinio, negli anni 2000, all’interno delle cooperative sociali di tipo B con soggetti svantaggiati della 381/91.

 

Tali interviste sono state condotte partendo da una domanda aperta agli operatori: “racconta com’erano i primi progetti di inserimento lavorativo che hai seguito”, e via via altre domande per sottolineare gli aspetti rilevanti per la nostra analisi: il rapporto con i soggetti da avviare al lavoro, come nasce il tutoraggio e come si operava nei primi progetti di tirocinio, il rapporto con la rete dei servizi invianti e con gli enti finanziatori, come è cambiato il tuo lavoro negli anni fino ad oggi.
Il racconto degli operatori, seguendo questa traccia di domande, è stato un flusso su cui poi l’intervistatrice ha estratto frasi e temi rilevanti per l’analisi e l’interpretazione qui riportata.

 

I due operatori intervistati, educatori professionali torinesi “storici”, con alle spalle diversi decenni di attività nell’inserimento lavorativo di soggetti fragili, ci hanno aiutato ad organizzare l’analisi storica e raccontare l’evoluzione dello strumento tirocinio e tutoraggio, oggetto di studio. Entrambi hanno visto la nascita dei primi progetti di inclusione sociale. Una di loro, GP, collabora con le cooperative e il Consorzio Sociale Abele Lavoro tutt’ora e ha potuto raccontarci in che modo siano cambiate le azioni e le politiche attive del lavoro negli anni, dai Novanta ad oggi.

 

Partire dal racconto degli operatori dell’inserimento lavorativo, delle storie delle persone che si è provato ad inserire al lavoro è risultato utile per comprendere il senso dei progetti di politica attiva del lavoro, integrando le informazioni relativi ai numeri della partecipazione a tali progetti e agli esiti dei programmi finanziati in termini di assunzioni.

 

La nascita di tirocini e tutoraggi tra lavoro ed emancipazione sociale

La convinzione che fosse utile, al fine di favorire l’inserimento lavorativo di persone fragili, un periodo di tirocinio formativo in cui la persona sviluppa meta-competenze, prende familiarità con il lavoro e i suoi ritmi, apprende on the job, nasce e si sviluppa, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, con l’idea che, affinché tali effetti positivi possano realizzarsi, tale periodo di tirocinio debba essere sostenuto dall’azione un operatore che supporta la persona inserita e l’azienda. Tale azione, denominata in modo diverso, ma da un certo punto in avanti identificata come “tutoraggio” ha rappresentato l’azione cardine per la buona riuscita di un inserimento lavorativo; nacque nella prassi sperimentale dei percorsi socio-lavorativi per persone in carico ai servizi sociali e quindi fu di ispirazione per i futuri tirocini rivolti ad una pluralità di figure in cerca di lavoro, anche non specificamente provenienti da forme di disagio conclamato.

Pratiche di questo tipo sono documentate in letteratura sin dagli anni Settanta grazie all’opera del gruppo di Genova in cui operava Enrico Montobbio che, dando vita al primo SIL (Servizio Inserimento Lavorativo) rivolto a persone con disabilità, previde la figura dell’“operatore della mediazione al lavoro”, grazie alla cui azione si è tentato, spesso con successo, di avviare persone prima seguite presso laboratori protetti a forme di impiego. Accanto al positivo esito occupazionale, tali pratiche misero in mostra come fosse possibile suscitare crescite cognitive e nella personalità delle persone inserite. Tali sperimentazioni si estesero anche ad altri contesti e, con riferimento al territorio torinese qui approfondito, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, anche nel quadro dei grandi cambiamenti che portarono alla riforma sanitaria e alla legge Basaglia, si avviarono le prime sperimentazioni di inserimenti presso imprese realizzati da istituti, comunità, laboratori e in generale da servizi rivolti a pazienti psichiatrici, tossicodipendenti, disabili. In molti casi le finalità erano principalmente terapeutiche, riabilitative o di prevenzione e non si puntava quindi necessariamente ad una assunzione al termine del periodo presso l’impresa. Erano anni di grandi sperimentazioni, inquadrati in ambiti socioassistenziali o sanitari: ad esempio alcuni progetti di “borse di formazione lavoro” rivolti a minori a Torino furono organizzati dall’Assessorato all’Assistenza e ai Servizi sociali. Dalle testimonianze emerge chiaramente come le “borse lavoro”, termine con cui si denominavano tali inserimenti presso un’impresa di persone fragili (cui veniva appunto corrisposta una modesta indennità, la “borsa lavoro” appunto) fossero intese come pienamente integrate in un percorso di intervento sociale e spesso non mirassero esplicitamente all’assunzione, ma piuttosto a sviluppare, grazie all’esperienza in azienda, un progetto di tipo educativo:

Nel 1982 ero un educatore del Comune di Torino e partecipai alla sperimentazione delle prime “borse di formazione lavoro” rivolte ad adolescenti (15/17enni) a rischio di marginalità e devianza che percepivano un contributo economico (la “borsa”, appunto) legato alla presenza. Erano minori in comunità alloggio o in famiglia, ma tutti seguiti dai servizi sociali per le più diverse (e gravi) problematiche personali e familiari. Credo sia importante ricordare come quegli interventi fossero concepiti e gestiti essenzialmente come “pezzi” e strumenti di un progetto educativo e socioassistenziale e il loro scopo non mirava all’assunzione. (P.D.N.)

Tali sperimentazioni erano molto più legate a logiche sociali che a finalità lavorative sia nei presupposti che con riferimento agli attori coinvolti, che erano principalmente inseriti nel settore socioassistenziale; gli uffici del lavoro – al tempo, pre riforma della legge 469/1997 – ancora di competenza comunale, erano marginalmente interessati, più che altro per rassicurare le aziende rispetto alla regolarità delle procedure di inserimento. In ogni caso, nella seconda metà degli anni Ottanta, si giunge ad una prima regolamentazione a livello comunale di questi strumenti, sempre inquadrati come appendici dell’azione dei servizi sociali.

Noi educatori, cercavamo l’azienda (per lo più artigiani) disponibile ad inserire la ragazza o il ragazzo e facevamo da “tutor” per tutto il percorso. Ma tutto ciò avveniva in strettissimo rapporto con l’assistente sociale e altri servizi (NPI, comunità etc.), ma senza alcun contatto con gli “Uffici di collocamento” e con un marginale coinvolgimento dello stesso Assessorato al lavoro comunale. L’Ispettorato al lavoro si limitava ad una specie di “visto” sull’informativa del Comune e solo nel 1987 una deliberazione comunale normò (ma sempre nel quadro dei servizi sociali) le “borse di formazione al lavoro” Si era assai lontani da un orizzonte e una strutturazione da Politiche attive del lavoro. (P.D.N.)

La valenza del lavoro, in tali percorsi, è parte di uno sforzo di integrazione per persone che sino a poco tempo prima erano state inserite in trattamenti degradanti e segreganti; il “tutor”, che aveva generalmente un profilo professionale di tipo educativo – sebbene all’epoca scarsamente formalizzato – utilizzava attività formative e di avvicinamento al lavoro presso imprese e attività ergoterapiche per educare gradualmente all’autonomia, facendo leva sulle potenzialità residue delle persone inserite. In questo ambito anche il limitato (e piuttosto “informale”, come si evince dalle testimonianze dei protagonisti dell’epoca) riconoscimento economico della “borsa” aveva in primo luogo un significato educativo, per guidare la persona verso prospettive di possibile, futura, parziale autonomia.

G.C. dopo moltissimi anni nel Padiglione 5 di Grugliasco aveva perso anche l’abitudine a vestirsi; lo portammo a Villa Mainero mezzo nudo, e di fare colazione vestito proprio non ne aveva nessuna intenzione, di sicuro non lo si poteva portare a fare un giro in centro solo con un lenzuolo addosso. Ma prima della segregazione nel Padiglione 5, G.C. era stato una “persona” e insieme a suo padre coltivava un orto… L’orto è stato la chiave di volta per entrare in relazione con G.C. Obbligatoriamente ha dovuto coprirsi per ripararsi dal sole e dalle zanzare. [Era previsto un] … “riconoscimento economico” del suo impegno in qualità di contadino/operaio agricolo: all’epoca un pacchetto di sigarette e duemila lire in contanti, che gli consegnavamo settimanalmente, senza cedolino, senza assicurazione, senza Progetto Formativo. Nasceva per me la prima forma di tirocinio. Le persone in comunità psichiatrica svolgevano piccoli lavori in cucina, in lavanderia, nel grande giardino della Comunità. L’obiettivo era riappropriarsi delle loro minime capacità di impegno, a fronte di un minimo riconoscimento economico. Tornare a fare piccoli lavori manuali era terapeutico. All’inizio aiutavo io G.C. a lavarsi, tenersi gli abiti addosso e sopportare la routine quotidiana della Comunità, ma non era questo favorire la sua autonomia. Per G.C. l’attività nell’orto e avere un riconoscimento economico è stato l’unico strumento per entrare in relazione e recuperare le sue capacità di cura del sé e delle regole sociali. La letteratura la chiama “ergoterapia, terapia occupazionale”: mi riapproprio della mia vita con il lavoro e la routine quotidiana che esso scandisce.” Una parola demonizzata negli anni ’90, ma che ai giorni nostri potrebbe essere riabilitata. (G.P.)

Il cenno dell’intervistato alla “demonizzazione dell’ergoterapia all’inizio degli anni Novanta” indica come verso la fine del decennio successivo, le strategie di intervento fossero destinate ad evolversi ulteriormente. Se le attività para-lavorative avevano rappresentato un indubbio passo avanti rispetto a pratiche di cura che tendevano alla separazione e alla segregazione, negli anni Novanta appaiono a loro volta connotate da un approccio eccessivamente assistenziale nella misura in cui non apparivano finalizzate all’effettivo ingresso della persona nel mondo del lavoro, ma solo alla sua crescita personale, entro però un panorama in cui la persona inserita permaneva “utente di un servizio” e non persona alla conquista di una propria autonomia anche economica. 

Il tirocinio e il tutoraggio come strumenti di politica attiva del lavoro

Negli anni Novanta si afferma infatti la convinzione che il reinserimento sociale non possa prescindere dalla capacità e dall’autonomia economica della persona e quindi dall’idea del lavoro. Se le prime sperimentazioni avevano come finalità il recupero sociale, si afferma da quel momento in avanti l’idea di sviluppare una “politica attiva del lavoro” che cambia il pensiero e l’azione all’interno del sistema dei progetti di inserimento lavorativo.

Nell’ambito delle dipendenze, i primi finanziamenti nazionali che riconobbero il lavoro sperimentale di comunità e cooperative di solidarietà nell’ambito dell’inserimento lavorativo delle persone seguite dai SER.T (regolamentati nel flusso e nelle modalità di utilizzo dal DPR 309/90) favorirono il consolidamento degli inserimenti lavorativi in realtà cooperative e strutturano la relazione tra servizi segnalanti (i SER.T appunto) e operatori della comunità.

Ma soprattutto negli anni Novanta si diffuse una maggiore consapevolezza del dirompente sviluppo delle cooperative di inserimento lavorativo, che rappresentarono una possibilità di uscita dai percorsi protetti e dai modelli assistenzialistici, favorendo l’autonomia della persona. Anche se la vicenda della cooperazione sociale non è, di per sé, oggetto di questo articolo, ci aiuta a comprendere lo spostamento, nel corso degli anni Novanta, del tirocinio da strumento di una politica sociale inclusiva a strumento di politica del lavoro.

Torino, come altri luoghi nel nostro Paese, fu tra le città dove si sperimentò con maggiore convinzione, già a partire dagli anni Ottanta, l’inserimento lavorativo come strumento di emancipazione delle persone prima internate negli ospedali psichiatrici. La Legge 381/1991 insieme disciplinò e promosse l’operato delle cooperative sociali che “… hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini…”, individuando l’inserimento lavorativo come una delle due attività che caratterizzano queste cooperative e prevedendo strumenti di grande importanza come la fiscalizzazione degli oneri sociali per le persone svantaggiate e la possibilità per le pubbliche amministrazioni di convenzionarsi con le cooperative di inserimento lavorativo affidando commesse in cui sono inserite al lavoro le persone svantaggiate.

A Torino, la nascita delle prime cooperative sociali di tipo B, fu l’occasione per sperimentare i primi inserimenti di lavoratori svantaggiati (dipendenze, psichiatria e carcere) e soprattutto per strutturare e riconoscere un modello di inserimento regolare per le persone. Dalla Comunità psichiatrica passai a lavorare all’interno di queste realtà. Le persone venivano segnalate direttamente dai servizi sociosanitari alla cooperativa, che si occupava direttamente dell’inserimento e della tenuta della persona, interfacciandosi direttamente con i Servizi Sociali e all’occorrenza con l’educatore della Comunità. (G.P.)

A partire dalla metà degli anni Novanta, Torino diventa inoltre una delle città che maggiormente sviluppano l’inserimento lavorativo tramite convenzionamenti tra la pubblica amministrazione e le cooperative sociali, in particolare nei settori del verde, delle pulizie e della raccolta differenziata dei rifiuti, approvando tra l’altro atti amministrativi che saranno a lungo tempo considerati all’avanguardia a livello nazionale. Il tema dell’inserimento lavorativo in cooperativa sociale esula dagli interessi diretti di questo articolo; tuttavia è utile richiamare alcuni elementi di tale pratica perché contribuiranno ad influenzare in modo decisivo anche i modelli di intervento basati su tirocinio e tutoraggio.

Nel modello di inserimento realizzato dalle cooperative sociali, sia la responsabilità di gestione della produzione, sia l’accoglienza del lavoratore svantaggiato, è in capo alla cooperativa e, nella pratica, in particolare al caposquadra o figura equivalente che gestisce la quotidianità del flusso produttivo. Da qui si evinse l’importanza di orientare e selezionare i lavoratori svantaggiati, perché non sempre bisogno di lavorare significava “essere pronti a lavorare”. L’esperienza della cooperazione sociale di tipo B rappresenta in generale un caso di successo, ma la insufficiente attenzione all’aspetto della gestione e dell’affiancamento dell’inserimento fa in alcuni casi emergere le conseguenze di percorsi male organizzati:

Si cominciava ad inserire in questi contesti persone che uscivano da percorsi di dipendenza da sostanze, dal carcere o dai servizi psichiatrici. Inizialmente fu il caos, l’inserimento di una persona svantaggiata, non più abituata al ritmo lavorativo e alle regole del lavoro, fu disfunzionale per la produzione: se il lavoro era pulire una classe scolastica entro la giornata, e all’orario di inizio turno non si presentavano i soci svantaggiati, quel lavoro nella migliore delle ipotesi veniva fatto male, nella peggiore delle ipotesi la classe non veniva pulita, oppure veniva pulita a fatica dal caposquadra… Le pulizie le facevamo noi operatori e i colleghi svantaggiati facevano più assenze che presenze (e certe volte era quasi un sollievo se non si presentavano per la paura di come si presentavano: in pieno delirio psichico, in crisi di astinenza…) (G.P.)

Diventava evidente l’importanza di costruire squadre di lavoro eterogenee, composte da personale svantaggiato e non, per il buon andamento della produzione insieme al rispetto della vocazione sociale: il 30% di personale svantaggiato da inserire in cooperativa (L. 381/91) doveva equilibrarsi con il resto dell’organizzazione. Servivano poi figure aziendali dedicate all’inserimento lavorativo e al buon andamento del progetto di inclusione sociale. Da qui partì l’idea di avvalersi di figure “mediatrici” in cooperativa, che seguissero il percorso di inserimento lavorativo, e che potessero supervisionare la sua riuscita, con un’azione “triangolare”, tra persona, organizzazione e servizi invianti. Li chiamarono “monitori”, in alcune delle prime sperimentazioni di inserimenti, oggi li denominiamo “operatori dell’inserimento lavorativo” o con altri termini equivalenti: le cooperative affidavano a professionisti da loro assunti (psicologi, educatori, assistenti sociali assunti dalla cooperativa stessa) il delicato lavoro di mediazione, per curare gli interessi delle parti coinvolte. Nascevano così i tutor interni alla cooperativa, dedicati all’inserimento dei nuovi lavoratori svantaggiati.

La diffusione di questo tipo di figure nelle cooperative sociali è molto diversa a seconda delle situazioni locali e delle singole cooperative. Sicuramente vi sono alcuni casi (ne è un esempio: Luterotti, Scalvini, 1993) in cui è chiaro il tentativo di intendere il percorso di inserimento lavorativo in termini altamente strutturati e quindi con operatori che affiancano la persona inserita, valutano l’andamento dell’inserimento e i suoi progressi attraverso apposite tabelle, incontrano i servizi sociali redigendo verbali ecc. Sicuramente in molte cooperative sociali si assiste ad una funzione di “tutoraggio interno” molto ben organizzata, in altri questa funzione sfuma o per la difficoltà di trovare dai margini delle attività di impresa risorse economiche adeguate a sostenerla, o per resistenze culturali che portano talune cooperative a considerare la persona inserita già di per sé – in quanto socio lavoratore – in posizione paritaria rispetto agli altri e dunque non come destinataria di specifiche azioni di inserimento.

In questo panorama assume una rilevanza specifica l’esperienza trentina. L’Agenzia del Lavoro di Trento promosse infatti un’azione sperimentale (“Progetto 11”) a sostegno delle cooperative di tipo B che portò alla costruzione di un modello organizzativo e di processo di inserimento lavorativo incardinato sul “tutor interno”, il cui costo era parzialmente finanziato attraverso i fondi del progetto, che si occupava anche di sostenerne la formazione. È bene evidenziare che tale figura anche oggi non è definita a livello normativo e può quindi essere inquadrata solo a partire da sperimentazioni locali come quella trentina o da altre iniziative specifiche di imprese o gruppi di imprese. Analogamente a quanto emerso dall’analisi delle interviste degli operatori torinesi, anche in Trentino in quegli anni, “la riflessione aveva portato all’individuazione di un modello organizzativo in cui si riconosceva a chi lavorava a fianco del lavoratore svantaggiato, l’urgenza di possedere oltre a competenze professionali anche capacità formative, di addestramento al lavoro. Che non potevano essere lasciate alla spontaneità personale o alle caratteristiche individuali. Spesso le cooperative sceglievano lavoratori abili sul piano professionale (operai, giardinieri…), ma poco competenti nelle skills relazionali intese come capacità di seguire e formare i lavoratori svantaggiati…” (tratto dalle lezioni di Maria Carla Acler, storica formatrice del corso, 2016).

Da qui una prima riflessione tra le cooperative del Consorzio Con.Solida, il principale soggetto della cooperazione sociale trentina, portò all’idea di strutturare un corso di formazione per tutor dell’inserimento lavorativo interno alle cooperative sociali, per integrare le capacità professionali e relazionali. Attraverso la creazione del corso per i Tutor, nella pratica si favorì e sostenne il ruolo del tutor in cooperativa: “il Tutor è un educatore, un punto di riferimento per il lavoratore svantaggiato al quale trasmette competenze lavorative e relazionali, dà regole e fa crescere la capacità di assumersi responsabilità… Ha dei requisiti di leadership in quanto sa tenere insieme tre aspetti: la responsabilità del proprio ruolo, l’essere collega di lavoro, il saper ascoltare e rispettare il lavoratore svantaggiato come persona… deve cioè facilitare il raggiungimento di un duplice obiettivo: la formazione al lavoro e un inserimento positivo. È quindi la figura centrale in una cooperativa di tipo B perché si trova nella congiunzione tra la commessa di lavoro e l’inserimento lavorativo” (Acler, 2016). Ricerche svolte in quegli anni (Marocchi, 1999) dimostrarono l’efficacia del modello e il vantaggio che esso comportava anche in termini economici, essendo il pur molto consistente investimento iniziale – le misure trentine prevedevano contributi decrescenti al costo del lavoro delle persone svantaggiate, contributi per i tutor, contributi per le imprese che assumevano le persone inserite a fine percorso che comportavano oneri ulteriori rispetto alle normative nazionali – ampiamente compensato dai risultati positivi conseguiti grazie a tale modello di inserimento. Anche in anni recenti non sono mancate le conferme circa il fatto che (Villotti P. et. al., 2017; Villotti P. et. al., 2018, con riferimento all’inserimento di persone con problemi di salute mentale; Chiaf, 2013) imprese con modelli organizzativi specifici che introducono fattori di attenzione nei confronti delle persone (presenza di tutor e supervisori, flessibilità, formazione) ottengono esiti positivi in termini di tenuta occupazionale di persone generalmente ritenute troppo fragili per essere inserite nei cicli produttivi.

In sostanza, l’esperienza cooperativa da una parte dimostrava che, in certe condizioni, anche persone svantaggiate potevano inserirsi a pieno titolo entro il ciclo produttivo, essere assunti come lavoratori guadagnando il proprio stipendio e quindi l’autonomia economica; dall’altra contribuiva a pensare anche percorsi diversi, come quelli qui affrontati basati sul tirocinio e il tutoraggio esterno, alla luce di queste esperienze e a mutuare taluni elementi dei modelli di inserimento sperimentati dalle cooperative sociali – le pratiche di affiancamento on the job, il lavoro di rete, la più stringente finalizzazione all’occupazione – anche in altri ambiti.

Per la verità, in quegli anni, in cui la cooperazione di inserimento lavorativo si stava affermando marcando la diversità con i fenomeni precedenti, questi due tipi di percorsi, quello basato sul tirocinio e l’assunzione diretta come lavoratore svantaggiato in cooperative di tipo B, furono visti e concettualizzati come alternativi; Felice Scalvini, in un importante articolo sul numero 21 di Impresa Sociale di aprile/maggio 1995 (Scalvini, 1995), rivendicava l’alterità e la specificità dell’inserimento lavorativo in cooperativa B che, abbassando le barriere di ingresso nel mercato del lavoro, consentiva al percorso di inserimento di svolgersi con le necessarie gradualità, ma riconoscendo sin dall’inizio alla persona il più dignitoso status di lavoratore, con i benefici che ne derivano in termini di autonomia e autostima; ciò al contrario del tirocinio, che faceva permanere la persona in condizione di utente assistito.

In questa sede non interessa approfondire la discussione di questi aspetti, ma evidenziare come ciò contribuì a stimolare il tirocinio verso una configurazione maggiormente orientata a finalità occupazionali; poi, nella pratica, soprattutto nell’ultimo decennio, con la restrizione dei margini operativi nelle cooperative B e la conseguente minore disponibilità di risorse per il lavoro di affiancamento, le cooperative sono diventate tra i soggetti maggiormente attivi, oltre che nell’inserimento lavorativo con diretta assunzione della persona svantaggiata, anche nell’ospitare tirocini, spesso preliminari all’inizio del percorso di inserimento che sfocia spesso poi, in caso di esito positivo, in assunzione.

Accanto alla più esplicita finalizzazione all’esito lavorativo, l’altro aspetto rilevante di quegli anni, frutto anche della ampia libertà di sperimentazione da parte degli operatori sociali, fu una più diffusa e innovativa pratica di lavoro di rete, con il coinvolgimento, nei progetti di inserimenti, di operatori e servizi sociosanitari pubblici, di cooperative di tipo A, dove eventualmente la persona era stata inserita, e di altri soggetti del territorio. Le storie delle persone dovevano essere conosciute e riconosciute da tutti gli attori della rete che seguivano la persona nel suo reinserimento sociale.

La regolamentazione dei tirocini e la nascita del tutoraggio

Anche a seguito degli orientamenti e raccomandazioni dell’Unione Europea, che investì in maniera significativa per favorire l’occupazione nei paesi membri, a sostegno delle categorie svantaggiate (ampliate rispetto a quelle indicate nella Legge 381/1991), in Italia, si avviarono sostanziali modifiche del mercato del lavoro e degli strumenti tesi a favorire l’occupazione, che sfociarono nel 1997 nel “Pacchetto Treu”, introducendo importanti novità che regolamentarono, e di fatto istituirono, lo strumento del tirocinio per tutte le persone in cerca di occupazione, dunque per tutti i disoccupati.

Gli stage o tirocini di formazione e orientamento rappresentano ormai da tempo il modo più immediato e anche più frequente per raggiungere un’impresa e quindi il mercato del lavoro. Fino al 1997, tuttavia, data dell’introduzione dell’art.18 della Legge 196, meglio nota come Legge Treu, mancava una normativa coerente ed esaustiva al riguardo. Con il Decreto n.142, varato dal Ministero del Lavoro il 25 marzo 1998, è stata poi data attuazione all’art.18 della Legge 196/97 con l’introduzione di alcune importanti specificazioni, quali:

  • l’estensione della platea dei soggetti promotori anche agli enti privati senza fini di lucro;
  • gli oneri burocratici a carico dei soggetti promotori;
  • l’inserimento tra gli utenti anche dei disoccupati e degli inoccupati;
  • l’inserimento delle Agenzie per la promozione dell’impiego come soggetti promotori per facilitare l’ingresso in azienda di chi non ha lavoro.


La regolamentazione e l’istituzione del tirocinio, novità nell’ambito dei canali giuridici di ingresso nel mercato del lavoro per tutti, svantaggiati e lavoratori disoccupati, dal 1997 in avanti, riconosce e crea il ruolo del tutor di progetto formativo, che è esterno all’azienda, in quanto dipendente del soggetto promotore, ossia dell’Agenzia del lavoro. Da qui in poi l’azione del tutor e il tutoraggio, entrano nelle aziende, come momenti riconosciuti da un progetto formativo approvato dagli enti istituzionali: Centri per l’Impiego e Regioni. Il tirocinio, dunque, è la formula utilizzata da qui in avanti, per inserire persone nuove nelle aziende, che necessitino di formazione on the job.

La successiva modifica normativa rilevante fu il d.lgs. 276/2003; a seguito di tale norma, la possibilità di individuare aziende ospitanti, collocare le persone da inserire favorendo il contatto con l’azienda più adatta, assicurare il tutoraggio, furono azioni sempre più spesso realizzate da Agenzie per il lavoro, riconosciute come enti di mediazione e promotrici dei percorsi di politiche attive del lavoro. Le Agenzie per il lavoro sono enti privati, che hanno avuto l’autorizzazione del Ministero del Lavoro per l’azione di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, e sono accreditati dalla Regione per erogare servizi di consulenza e supporto a tutti i disoccupati. L’aver introdotto tali enti intermedi tra persona e azienda, sgravò dunque le imprese (comprese, talvolta, le cooperative sociali), dell’onere di dover prendersi la responsabilità dell’intero percorso di inserimento dei nuovi lavoratori.

Dalla fine degli anni Novanta, il tirocinio cominciò ad essere proposto dalle Agenzie per il lavoro alle aziende, come strumento per formare “sul campo” nuovi possibili lavoratori da inserire in azienda. In quella fase, si registrava un crescente interesse per le politiche attive del lavoro sia da parte degli studiosi, sia da parte dei decisori, con conseguente disponibilità di risorse per supportare i progetti di inserimento lavorativo; e, soprattutto con riferimento ai progetti rivolti alle fasce più deboli del mercato del lavoro, inizia ad affermarsi il ruolo delle Agenzie per il lavoro nate nell’ambito del Terzo settore, incaricate dai centri per l’impiego, da altre pubbliche amministrazioni e da enti filantropici di realizzare progetti di inserimento di lavoratori difficilmente collocabili con le pratiche di matching tipiche delle Agenzie per il lavoro ordinarie.

Il tirocinio diventò quindi strumento sempre più diffuso per inserire giovani privi di esperienza professionale e soggetti fragili sul mercato del lavoro. Dal 2013, con la Legge Fornero, il tirocinio viene esteso anche ai disoccupati adulti.

Ma cosa sono il tirocinio e l’attività di tutoraggio?

Il tirocinio è un tempo di formazione e lavoro che la persona esperisce in azienda, svolgendo la mansione professionale descritta nel progetto formativo, siglato tra le parti: l’Agenzia del lavoro (ente promotore che ha favorito il “matching” tra persona e azienda, nell’ambito di una regolamentazione definita da ciascuna Regione), l’azienda (che diventa, dal 1997, esclusivamente l’ente ospitante) e la persona da formare. Tale tirocinio è normato dalle Regioni per quanto riguarda la durata massima di tempo, il compenso minimo da erogare al tirocinante, le fasce di popolazione che possono accedere ai benefici di specifici progetti di politica attiva del lavoro.

Il tutoraggio è l’azione periodica che compie il tutor, guida e supervisore del buon andamento del progetto formativo. Il tutoraggio è anche quella azione che interviene tutte le volte che ci sono delle difficoltà di varia natura. Il tutor accompagna il tirocinante all’inserimento in azienda, media nella relazione tra azienda ospitante e tirocinante. Nel caso di soggetti svantaggiati, il tutor media anche con la rete dei servizi sociali.

Il senso del tutoraggio sta tutto dentro alla relazione positiva che il tutor avvia nel momento della “presa in carico”, nel gergo tecnico degli addetti ai lavoratori, ossia dal momento in cui i servizi sociali e/o sociosanitari, segnalano e di fatto affidano al tutor di una specifica Agenzia per il lavoro di terzo settore, la persona per un progetto di inserimento lavorativo.

Il tutoraggio ha almeno tre tappe fondamentali:

  • il momento dell’avvio con la firma delle parti coinvolte, del Progetto Formativo: esso sancisce le regole, i diritti/doveri del tirocinante, le attività da svolgere, la durata e l’importo dell’indennità mensile (se finanziato dal Progetto o a carico dell’azienda ospitante);
  • a verifica “di metà percorso”, dove si condivide il percorso già fatto, analizzando se gli obiettivi prefissati all’inizio, siano stati raggiunti o meno;
  • l’incontro finale, dove si fa un bilancio dei mesi trascorsi e si valutano eventuali spazi per l’assunzione in azienda.

Il tutor organizza anche eventuali altri incontri qualora lo si ritenga necessario. Il tutor che accompagna un tirocinante svantaggiato in un percorso di tirocinio di inclusione sociale (vedi, con riferimento al Piemonte, la DGR 42-7397 del 07/04/2014) si raccorda sempre con il Servizio di riferimento per la persona (CSM, SER.D, UEPE, Servizio sociale).

Tenere insieme le istanze del tirocinante, dell’azienda e del servizio è compito del tutor. Spesso conciliare le istanze di questi attori non è semplice anche se tutti perseguono il benessere della persona, soprattutto nei casi di svantaggio più significativo. Ad esempio può accadere che il Servizio segnali una persona per un tirocinio “perché ha bisogno di lavorare”; ma non sempre a ciò corrisponde una effettiva possibilità di conseguire e soprattutto di mantenere un lavoro (per utilizzare una formula sintetica, “il mondo del lavoro necessita di competenze e non di bisogni”); può accadere, ad esempio, che la persona segnalata sia ancora in cura presso un SER.D. o che sia sottoposto a misure restrittive e quindi abbia degli impegni presso il suo servizio (orari fissi per ritirare il metadone, obblighi di rientro perché in misura alternativa, obblighi per vedere il figlio in affidamento ad un’altra famiglia in orari stabiliti da un giudice…). Il compito del tutor è mediare l’esigenza espressa con tali circostanze e relazionarsi con il servizio inviante per favorire un percorso di tirocinio che aiuti la persona a conciliare la vita privata piuttosto impegnativa, ed un luogo dove frequentare il tirocinio in modo efficace.

Un tirocinio attivato in un luogo non idoneo, con un tutoraggio non ben organizzato, rischia di far perdere tempo all’azienda ospitante che non ne comprende l’opportunità e di far vivere l’ennesimo fallimento alla persona.

Il tutoraggio è un processo che tende a “capacitare” le persone di quelle competenze trasversali, di quel senso di adeguatezza sul lavoro, che spesso son più importanti delle competenze tecnico-professionali. Il tutor non è esperto su ogni singola professione, ma ha la sensibilità e l’esperienza per sostenere gli aspetti positivi di ogni singolo individuo. Importante che tali figure abbiano competenze e capacità estese: i tutor devono infatti favorire tre aspetti dello sviluppo di capacità durante il percorso di tirocinio:

  • favorire la crescita professionale e l’aumento di competenze tecniche attraverso il tutoraggio in azienda, monitorando i progressi sulla mansione assegnata con il progetto formativo individuale e condivisa con l’azienda;
  • favorire il parallelo proseguimento del percorso riabilitativo terapeutico con il raccordo del servizio sociosanitario;
  • favorire la crescita delle competenze trasversali, fondamentali al reinserimento socio-lavorativo.

Tali percorsi si possono svolgere in ogni azienda, anche se, con riferimento all’esperienza torinese, almeno in una prima fase, le cooperative sociali hanno rappresentato il bacino più ampio e accogliente per i tirocini:

I primi progetti di tirocinio con borsa lavoro per persone in carico ai SERT, servizi per le Tossicodipendenze, erano prevalentemente pensati per inserire i tirocinanti all’interno delle cooperative sociali del Consorzio. Le persone venivano segnalate a noi tutor del Consorzio dai SERT: i servizi per le tossicodipendenze avevano le risorse economiche per affidare a realtà di terzo settore, il compito di orientare e promuovere il miglior inserimento lavorativo possibile per le persone segnalate. La cooperativa sociale, sgravata dal compito di seguire e inserire i nuovi tirocinanti, era il luogo più accogliente per sperimentare e comprendere la tenuta sul lavoro: ritmi produttivi da rispettare, puntualità, aderenza alle regole, integrazione nel gruppo di lavoro. Il tutor monitorava l’andamento del tirocinio con cadenza regolare, attraverso momenti di mediazione tra cooperativa, persona e servizi. Nasceva il tutoraggio come strumento cardine di raccordo e integrazione. Le vite delle persone un tempo incasinate dalle dipendenze, iniziavano a regolarizzarsi grazie all’esperienza del lavoro.

Soprattutto negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, questa naturale tendenza “accogliente” delle cooperative sociali si combinava con significativi spazi di assunzione, favoriti anche dalle pratiche di convenzionamento con le pubbliche amministrazioni e le persone svantaggiate, se guidate bene dal proprio tutor (spesso due tutor in collaborazione tra loro, quello interno operativo all’azienda, e quello esterno a supervisione del percorso formativo), riuscivano spesso ad ottenere la stabilizzazione con contratti a tempo indeterminato. Va inoltre ricordato che, accanto alla fiscalizzazione degli oneri sociali nei casi di svantaggio riconosciuto dalla legge 381/1991, le cooperative potevano godere di ulteriori incentivazioni; ad esempio, in Piemonte in quella fase beneficiavano di altre significative agevolazioni (Legge Regionale 14 giugno 1993 n. 28, che premiavano l’assunzione a tempo indeterminato di personale svantaggiato, e che costituiva di fatto una “dote” a disposizione del tirocinante).

Il tutoraggio era dunque di fatto inserito all’interno del sistema creato dalle relazioni e dalle normative del periodo e rappresentava uno strumento utile a curare gli interessi di tutte le parti coinvolte; ed era un’azione adeguatamente valorizzata, dal momento che il tutor aveva la disponibilità di risorse per assicurare un anno o più di lavoro nel monitoraggio e supporto del tirocinante, accompagnandolo fino alla piena stabilizzazione. Il tutoraggio corposo in termini di ore e qualità, il monitoraggio di lungo periodo, anche successivo all’assunzione, il diffondersi del lavoro di rete, il mercato del lavoro non ancora così precario e la fase di rafforzamento delle cooperative sociali che ospitavano una quota significativa di tirocini, l’inizio dell’interesse per questo strumento anche da parte delle imprese for profit, concorsero a favorire l’inserimento e la successiva assunzione di numeri consistenti di lavoratori svantaggiati.

Ancora, soprattutto a partire dall’istituzione formale dei tirocini con la legge 196/1997, nelle cooperative sociali si struttura in alcuni casi un modello basato sullo sdoppiamento delle figure che curano il percorso di inserimento lavorativo delle persone svantaggiate inserite. Da una parte una figura interna alle cooperative – ma non normata da normative specifiche, se non in esperienze locali come quella trentina citata – che si occupa dell’integrazione con il gruppo di lavoro, della formazione, di stimolare la persona svantaggiata rispetto alle meta-competenze (il rispetto delle regole, degli orari, dei compagni di squadra, ecc.; Poy, Scaratti 2021); dall’altra una figura esterna, espressione dell’agenzia che promuove il progetto, che si relaziona con altri servizi, valuta il percorso e talvolta fa da ponte con possibili soluzioni lavorative in altre imprese a fine tirocinio.

Arriva la crisi

La positiva stagione degli anni Novanta e inizio del primo decennio del Duemila lasciò il passo ad una profonda crisi economica che nel nostro paese è proseguita, con periodi di ripresa più incerta rispetto al resto dell’Europa, in modo strisciante sino alla nuova e più grave contingenza dei giorni nostri, caratterizzati dall’emergenza sanitaria; e questo non poteva non ripercuotersi sulla capacità delle imprese di incrementare l’occupazione, con la conseguente ancor maggiore selettività a discapito dei lavoratori svantaggiati, che vedono negli anni diminuire le possibilità di inserimento e stabilizzazione lavorative. A fronte di tali difficoltà, paradossalmente, le misure volte a favorire l’inserimento lavorativo non sono state potenziate ma, al contrario, trascurate; e, in specifico, lo strumento del tirocinio è stato negli ultimi vent’anni progressivamente privato del complesso di azioni di sostegno all’affiancamento in azienda – quelle qui indicate come tutoraggio – con conseguenti ricadute sui soggetti beneficiari di tali politiche.

Sebbene non vi siano modifiche specifiche del quadro normativo, la diminuzione delle risorse disponibili e l’urgenza di attivare quante più possibili opportunità di avvicinamento al lavoro – anche mettendo in secondo piano aspetti di qualità dell’intervento – in un contesto di disoccupazione crescente, portano in molti casi ad un mutamento di fatto nell’istituto del tirocinio. Il tirocinio tende a perdere la sua caratteristica di percorso guidato e sostenuto attraverso il tutoraggio, frutto di un lavoro di rete, e a diventare uno strumento nell’ambito di una relazione “privata” tra azienda e lavoratore, in cui l’azienda ha l’opportunità di conoscere un nuovo potenziale lavoratore da inserire in organico e l’aspirante lavoratore disoccupato può “farsi conoscere” e al tempo stesso, auspicabilmente, acquisire competenze. Ma l’avere trasformato un percorso garantito e assicurato da un soggetto terzo in un rapporto a due – in cui l’azienda rappresenta una parte sproporzionatamente più forte – apre anche ad utilizzi opportunistici del tirocinio, svuotato di contenuti di apprendimento e con prospettive di assunzione remote: in sostanza lavoro a basso costo. Il blog Reppubblica degli Stagisti, è solo un esempio dei racconti che hanno dato vita alla narrazione del tirocinio come forma di sfruttamento. Laddove il tirocinio si svuota dei contenuti di inserimento, diventa un lavoro con un compenso troppo esiguo e privato della dignità dello “stipendio”, in cui sono assenti gli oneri previdenziali, insomma un lavoro con condizioni a cui il tirocinante deve sottostare per mancanza di opportunità alternative, sentendo però di subire un abuso. Proprio il monitoraggio della correttezza di entrambe le parti rappresenta invece una delle funzioni che un’adeguata azione di tutoraggio può assicurare.

Un nuovo modo di lavorare. Peggiore del precedente

Il tutor del progetto formativo dell’Agenzia per il lavoro, da qualche anno a questa parte, è diventato il case manager nel linguaggio tecnico degli addetti ai lavori. Tale figura negli anni ha avuto diverse denominazioni (operatore della mediazione al lavoro, monitore, tutor…) e i cambiamenti semantici spesso non sono stati neutri, corrispondendo ad un cambiamento nel ruolo degli operatori dell’inserimento lavorativo.

Il case manager è responsabile del percorso di orientamento al lavoro, ossia di favorire l’apprendimento di nozioni di ricerca attiva di opportunità per la persona, la quale è invitata sempre più ad attivarsi e ad essere mobile sul mercato del lavoro. L’orientamento al lavoro è una fase del progetto individuale, importante per delineare i desideri della persona inserita e le competenze da spendere nel momento della ricerca di opportunità di inserimento lavorativo. A seguito dei colloqui di orientamento al lavoro, il case manager ricerca aziende interessate ad avviare percorsi di inserimento lavorativo per il suo utente. La fase di orientamento si conclude dunque, a seconda dei casi, o con l’assenza di opportunità di inserimento o, auspicabilmente, con l’avvio di un progetto di inserimento lavorativo tramite tirocinio o, nel migliore dei casi, con assunzione diretta in azienda.

Oltre al lavoro di relazione con utenti dei progetti e aziende, il case manager compila molti registri, carica dati sui portali web dagli enti istituzionali finanziatori, assicura un’azione continua di lettura e rilettura della corretta imputazione di dati, monitora ore e andamento economico dei progetti. Questa parte di lavoro burocratico è spesso molto gravoso e rischia di assorbire le ore da dedicare alla relazione con il proprio tirocinante, tutto a scapito della qualità del tutoraggio, sempre meno finanziato nei nuovi progetti di politica attiva. In altre parole, il case manager non ha il tutoraggio tra le proprie occupazioni prevalenti, vede le proprie ore assorbite tra matching e oneri burocratici e ha sempre meno tempo da dedicare all’affiancamento della persona.

Meno ore di tutoraggio riconosciute economicamente con pressanti richieste di risultato assuntivo finale, a fronte di un mercato del lavoro che assorbe pochissimo le persone fragili; più burocrazia che relazione, impoveriscono l’azione di tutoraggio e l’esito finale: in questo modo si è depotenziata la relazione tra persona e tutor, che un tempo fu rilevante per il successo dell’inserimento in azienda, soprattutto per persone svantaggiate. Il tutoraggio dei progetti di inserimento lavorativo oggi è di fatto pensato per “chi è pronto al lavoro”, per i disoccupati senza svantaggio alle spalle.

Numerosi autori, analizzando quello che viene definito dalla letteratura New Public Management, fenomeno che viene fatto risalire fin dagli inizi degli anni ’90 nei paesi anglosassoni, inquadrano gli elementi di cambiamento nella gestione delle politiche pubbliche, da parte delle pubbliche amministrazioni. In particolare, per la nostra analisi sui cambiamenti delle politiche attive del lavoro, politiche che di fatto sono pensate e gestite da enti pubblici, seppur affidate alle Agenzie del Terzo settore, è utile affidarci al termine managerialismo, dalla dottrina di cui sopra, abbreviata NPM, per spiegare tali cambiamenti di sistema. Lo studioso torinese Girotti (2007) ben sintetizza il nuovo modello delle amministrazioni pubbliche, la cosiddetta “rivoluzione manageriale” (Wright, 1994), le cui ricadute toccano di fatto tutti gli enti collegati a tali amministrazioni, come quelli di Terzo settore. La PA da una parte adotta un’aspra “critica al modello burocratico e ai suoi effetti perversi” e dall’altra parte sostiene “la convinzione di poter superare il tradizionale isolamento della PA estendendo agli apparati statali strumenti del settore privato…”. Una recente ricerca sempre nel territorio torinese, “Professioni sociali e mutamenti del sistema di welfare”, e il Paper “Quale managerialismo nei servizi sociali?” degli stessi autori, Laura Cataldi e Willeim Tousijn (2013), estende i concetti anglosassoni che ruotano intorno al NPM, per interpretare i cambiamenti più recenti, del contesto dei servizi sociali italiani. Le interviste somministrate da un’equipe dell’Università di Torino coordinata da Tousijn e Cataldi ai manager e agli operatori di un Servizio Sociale di una Circoscrizione di Torino e di un Consorzio Intercomunale Socio-Assistenziale, di fatto dimostrano la stessa parabola raccontata dai nostri operatori dell’inserimento lavorativo, rispetto all’adozione della dottrina manageriale e della conseguente deprofessionalizzazione degli operatori “di orientamento ai risultati, di valutazione delle performances e non più di utenti, ma di “clienti” nel senso di customers, ossia di users con possibilità – invero forse solo ipotetica – di scelta tra agenzie differenti” (2013). Può essere utile riportare alcuni dei punti che Tsui e Cheung (2004), evidenziano come impatto del managerialismo nel mondo dei servizi alla persona:

  • come ricorda Pollitt (1990), sono i manager a ricoprire il ruolo centrale nelle organizzazioni. Gli operatori sono esecutori e implementano ciò che i manager pensano, pianificano, decidono;
  • gli operatori sono semplici impiegati, non esperti o professionisti (come avveniva nello status nascenti delle sperimentazioni dei primi inserimenti lavorativi di soggetti svantaggiati a inizi anni Novanta), in quanto non dispongono della necessaria discrezionalità e autonomia per definirsi tali, cosicché “si sentono spesso più burocrati alienati, che professional practitioners”. Lapidariamente, aggiungono Tsui e Cheung “nell’epoca del managerialismo, l’autonomia professionale non è rispettata… i promotori del managerialismo sono convinti che la competenza in un’area specializzata non sia indispensabile nella pratica gestionale… che un manager possa fare a meno di un professional training espressamente orientato al settore di policy in cui lavora”.
  • l’ambiente cui si fa riferimento è il mercato, non la società o la comunità. Dato che il valore di mercato è il criterio decisionale determinante “i manager si preoccupano del profitto dell’impresa, non del vantaggio degli utenti (clients)”.
  • il parametro di ogni azione non è l’efficacia ma l’efficienza, invero intesa come economicità. Per questo “i manager non sono particolarmente preoccupati dell’efficacia dei servizi… benché la qualità sia molto enfatizzata nella cultura managerialista… spesso essa si identifica con gli standard”.

Il lavoro di rete degli operatori sociali e dell’inserimento lavorativo è anch’esso oggi stravolto rispetto alla modalità iniziale, come traspare dalle interviste agli operatori. Inizialmente era molto libero, innovativo e spontaneo, finalizzato all’accompagnamento a tutto tondo della persona, verso la sua autonomia e il rinserimento sociale; al contrario, l’attuale sistema dei servizi alla persona e delle politiche attive del lavoro non permette sistemi di rete che concorrano con efficacia al sostegno delle persone, attraverso interventi a che includono i diversi aspetti della vita di un individuo. La frammentazione del lavoro, la sua parcellizzazione in aree specialistiche e l’assegnazione delle diverse “fasi di lavoro” dello stesso caso/intervento sociale a diversi professionisti (Harlow et al., 2013) è l’attuale modus operandi del sistema dei servizi alla persona, che non permette di fatto di tenere insieme una rete di operatori, che lavori in modo coerente intorno al reinserimento socio-lavorativo degli utenti svantaggiati. Rispetto ai servizi sociali, Harlow et al. (2013, p.540) evidenziano come il managerialismo abbia agito provocando la frammentazione del lavoro sociale, creando aree isolate e l’assegnazione dei ruoli in modo simile ad una catena di montaggio “reminiscent of Ford’s production line, this approach can be understood as ‘conveyer belt care’ in that, once tasks have been completed, individuals and families are passed from one specialist team to another until their cases are closed”. Le fasi di lavoro per lo stesso intervento / caso sono individuate dall’autore: accoglienza, primo contatto; assessment, ossia la valutazione della situazione; il vero e proprio intervento – spesso separato dal primo erogatore del servizio in quanto esternalizzato a enti di Terzo settore – e la service provision.

Harlow arricchisce l’interpretazione aggiungendo poi che tale processo di frammentazione del lavoro dei servizi alla persona, e il managerialismo dominante in generale, portano alla deprofessionalizzazione degli operatori e infine alla perdita della loro autonomia professionale; e questo, aggiungiamo noi, è evidente nel momento in cui l’operatore deve richiedere autorizzazione anche per decidere se partecipare o meno ad una riunione con un gruppo di partner.

Altro elemento fondamentale dei progetti di tirocinio su cui vale la pena analizzare è l’indennità riconosciuta ai tirocinanti per il loro lavoro in azienda, spesso denominata, come si è visto, “borsa lavoro”. Se nei primi progetti di politica attiva del lavoro tale indennità era sempre stata corrisposta da soggetti finanziatori, oggi la situazione non è altrettanto nitida. Infatti, le indennità sono tutt’ora corrisposte dall’ente finanziatore nel caso di progetti attivati da servizi sociosanitari o sanitari (Ser.D. o Csm) o per categorie particolarmente svantaggiate, mentre nella maggioranza degli altri casi all’azienda è richiesto di corrispondere con risorse proprie le indennità destinate al tirocinante. A fine progetto l’azienda può poi chiedere un rimborso di tali oneri che, generalmente, è totale per le persone per disabilità e per le forme di svantaggio più grave ed è parziale per gli altri tirocinanti, come i disoccupati a cui pure è riconosciuto lo status di svantaggiato dalle politiche europee. Questo nuovo assetto contribuisce a determinare un minor appeal delle proposte di inserimento lavorativo, aggiungendo un ulteriore elemento di problematicità in un mercato del lavoro sempre più selettivo rispetto alle persone fragili; ad esempio, un giovane neet con un profilo povero di esperienze e di istruzione o un disoccupato di lungo periodo ultracinquantenne, diventa un soggetto più difficilmente avviabile.

Anche gli enti istituzionali hanno modificato il loro modus operandi: sino a qualche anno fa i finanziamenti e le verifiche dei progetti vertevano su aspetti relazionali e caratteristiche qualitative delle persone inserite, all’interno anch’essi di un lavoro di rete; oggi i controlli serrati riguardano il fatto che numeri e dati siano imputati correttamente sui registri, spersonalizzando totalmente il progetto delle caratteristiche sociali e relazionali. E non a caso gli enti finanziatori sia pubblici che privati, hanno deciso poi di non essere più coinvolti dentro i tavoli di rete insieme alle Agenzie e ai servizi sociali come un tempo, per star fuori e agire da puro controllo formale burocratico. Questo di fatto li ha allontanati dalle storie delle persone beneficiarie dei loro progetti.

L’ultimo aspetto, ma non meno rilevante, è la crisi economica che viviamo ormai da anni e pone sia le cooperative sociali – che rimangono il principale interlocutore per l’avvio di tirocini – sia le altre aziende in una situazione di difficoltà e di pressione con la conseguenza che questi soggetti hanno sempre meno risorse da dedicare a momenti di condivisione del progetto di inserimento. Anche le cooperative sociali e le aziende attente alla responsabilità sociale, pur volendo farlo, faticano a seguire bene gli inserimenti lavorativi di persone svantaggiate per via dell’esposizione alla competizione del mercato nazionale e internazionale che determina una pressione costante su ritmi e costi di produzione, con l’effetto di diminuire gli aspetti di maggior cura della persona che differenziano questi soggetti dal resto del mondo imprenditoriale. I tirocinanti sono sempre più spesso chiamati a ricoprire ruoli e spazi al pari dei lavoratori assunti e, laddove non pronti all’assunzione, vengono di fatti espulsi dal mercato del lavoro.

La riduzione degli spazi di azione

Sicuramente la libertà che inizialmente ebbero gli operatori sociali di sperimentare vie innovative per l’integrazione sociale di persone che vivevano entro strutture terapeutiche portò ad esplorare dimensioni sino ad allora poco considerate e di costruire percorsi di reinserimento prima mai sperimentati. Il regime burocratico e dei controlli, minimo rispetto a quello attuale, consentiva di dedicare le energie ad aspetti di qualità e di relazione e di seguire i bisogni della persona in modo flessibile. Tale “libertà di movimento”, permise di sperimentare attività e metodi di accompagnamento verso le autonomie necessarie al reinserimento in società dei soggetti svantaggiati, all’interno di un campo di azione di piena collaborazione e fiducia tra gli attori del sistema. Tale libertà è reclamata spesso oggi dagli operatori dell’inserimento lavorativo per i quali dover rispettare tempi cronometrati da poter dedicare a colloquiare una persona o per seguirla mentre svolge un certo lavoro in azienda incide sulla capacità di instaurare una relazione di fiducia da parte dell’operatore con il suo tirocinante. Ed incide dunque, anche sulla sua resa lavorativa e sulla possibilità di stabilizzazione contrattuale della persona inserita.

Mentre nelle prime esperienze raccontate, il tutor era un punto di riferimento anche rispetto a tematiche extralavorative (la ricerca di autonomie, della casa, l’aiuto nella conciliazione del tempo lavoro con tempo privato, il raccordo con i servizi sociosanitari, ecc.) oggi il tutoraggio del case manager si riduce a scarse ore dedicate al tentativo di agganciare una persona ad un’azienda, il matching nel gergo tecnico; il lavoro degli operatori dell’inserimento lavorativo è ingabbiato in modalità operative dettate dall’alto, stringenti, burocratiche, sottoposte a forme di monitoraggio ossessive, private della possibilità di innovare e sviluppare nuove vie di accompagnamento sociale.

Tousijn e Cataldi (2013), citando Zaleznik (1990), imputano alla gestione managerialista della PA, e aggiungiamo qui, delle politiche sociali operate dal Terzo settore, la scarsa tendenza all’innovazione sociale in questo campo: “il managerialismo come assenza di leadership, rimanda alla separazione tra professional management e proprietà… i manager, a differenza dei proprietari-leader, sono avversi al rischio e dunque poco propensi all’innovazione. L’avversione al rischio dei professionisti della gestione non solo è dannosa rispetto all’apprendimento (se non si rischia, non si sbaglia e non si impara), ma si traduce anche in un eccessivo controllo del comportamento dei subordinati attraverso regole e procedure”.

Se dunque le organizzazioni pubbliche di stampo managerialista hanno esteso, nel campo dei servizi alla persona, “l’utilizzo di strategie di esternalizzazione e di contracting-out, che ha reso quanto mai tangibile la separazione tra erogatori e fornitori di servizi, corrispondenti normalmente a cooperative…” tale processo “comporta un serio problema principale-agente, non segue l’adozione di adeguate strategie di monitoraggio” dei servizi (Tousijn, Cataldi, 2013).

In queste condizioni diventa oggi difficile tessere una relazione tra tutor e tirocinante che vada oltre il limitato numero di ore previste, tale da innescare una relazione fiducia, elemento centrale per la riuscita del percorso. L’esperienza degli operatori documenta la scarsità di ore oggi destinate ad azioni di supporto delle persone inserite, delle distorsioni indotte dal riconoscimento di quote significative di pagamento sulla base dei risultati in termini di assunzioni, di come il lavoro tenda a limitarsi alla mera proposta del candidato ad un’azienda. È il concetto stesso di politica attiva del lavoro che viene messo in discussione.

Conclusioni

Questo contributo ha voluto raccontare, anche avvalendosi di interviste ad operatori sociali di lungo corso, la nascita dei progetti di inserimento lavorativo, dalle origini sperimentali entro percorsi di inclusione sociale realizzati in collaborazione con i servizi sociosanitari, fino alle pratiche poi strutturatesi nell’ambito delle politiche attive del lavoro.

È stato inoltre descritto come, malgrado i cambiamenti normativi siano stati minimi, di fatto si assistiti ad un progressivo disinvestimento nelle azioni di sostegno all’inserimento lavorativo e in specifico al ridimensionamento dell’azione di tutoraggio, sia dal punto di vista del tempo che l’operatore può dedicare al suo tirocinante e all’azienda, sia del tipo di lavoro di supporto svolto, impoverito dei suoi contenuti di rete.

Giunti alla fine di questo percorso, ricapitoliamo innanzitutto in cosa i progetti di tirocinio di oggi si differenziano da quelli del periodo precedente. Sino alla fine degli anni Novanta vi era:

  • più libertà di sperimentare strumenti innovativi;
  • forte lavoro di rete del tutor con i servizi sociosanitari;
  • alto valore riconosciuto al tutor e al tutoraggio corposo in termini di ore e tempo di qualità dedicato alla persona da inserire;
  • politiche che riconoscevano, anche in termini economici, il valore dei percorsi finalizzati ad accompagnare al lavoro le persone fragili, sia attraverso percorso di tirocini adeguatamente tutorati, sia attraverso l’azione delle cooperative sociali di inserimento lavorativo.

Oggi i progetti delle politiche attive del lavoro vedono:

  • uno stile di lavoro degli operatori ingabbiato in un modus operandi dettato dall’alto, stringente, over monitorato, in cui gli aspetti burocratici assorbono una parte consistente del tempo che potrebbe essere dedicato alla relazione;
  • poca valorizzazione del lavoro di rete delle Agenzie per il lavoro con i servizi e con gli enti finanziatori;
  • un mercato del lavoro molto più selettivo e al tempo stesso, paradossalmente, normative meno attente alla promozione dell’inserimento lavorativo.

Seppure in via analogica – trattandosi di un contributo relativo all’inserimento lavorativo in cooperative B e non all’azione di tutoraggio – è qui utile richiamare il lavoro di Signoretti e Sacchetti (2020); gli autori hanno verificato su alcuni casi empirici l’applicabilità delle strategie gestionali ispirate ai principi della lean production e della HRM – quindi delle pratiche di ottimizzazione spinta delle organizzazioni finalizzata al contenimento dei costi che hanno pervaso la cultura aziendale – alle cooperative sociali di inserimento lavorativo. Queste imprese non sono certo estranee al mercato e debbono spesso confrontarsi con competitor che fanno proprie queste filosofie aziendali avendo al proprio interno lavoratori la cui minore produttività è solo in parte compensata dagli sgravi contributivi; non possono quindi prescindere da sforzi di ottimizzazione e contenimento dei costi. Ma al tempo stesso la loro mission, l’essere orientate all’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, le porta a contemperare tali principi aziendali con altri, tesi appunto all’attenzione alla persona; il risultato non è una mera trasposizione dei principi della lean production nell’impresa sociale – che, notano gli autori, sarebbe dannosa per l’impresa oltre che per le persone inserite – ma la definizione di un modello originale in grado di contemperare efficienza e qualità del lavoro con le persone inserite. Questa lezione, sulla base delle evidenze citate, non pare tuttavia essere stata considerata nella revisione dei modelli di tutoraggio operati in questi anni, che anziché sviluppare un modello attento ai bisogni delle persone pur nell’introduzione di puntuali ottimizzazioni, hanno spesso agito trasponendo un modello efficientista in azioni volte all’inserimento di persone svantaggiate.

Tale politica, oltre ad avere conseguenze sulle persone che si intendono inserire al lavoro, ha esiti discutibili anche da punto di vista del risparmio; e in ogni caso questo aspetto non è mai stato verificato alla luce di una seria analisi costi benefici che consideri le conseguenze sociali ed economiche dei mancati inserimenti che derivano dalle evoluzioni sopra richiamate. Al contrario, l’esperienza degli operatori evidenzia come gli elementi sopra richiamati di attenzione al lavoro di rete, alla relazione, di investimento sulla funzione di tutoraggio siano elementi imprescindibili nell’inserimento lavorativo di persone fragili, sia quando operato da agenzie di intermediazione, sia, tra l’altro, quando realizzato nella forma di inserimento diretto in cooperative sociali. Va considerato con attenzione che la configurazione di uno stesso strumento come il tirocinio non può essere uguale per persone il cui unico problema è la disoccupazione e persone con elementi di svantaggio sociale consistenti. Va riconosciuto e valorizzato il ruolo di soggetti terzi tra persona e impresa, con specifiche attenzioni e professionalità nell’accompagnamento al lavoro.

Va affrontato, anche da un punto di vista culturale e di comunicazione, un paradosso che riguarda lo strumento del tirocinio: mentre vi è – giustamente – sensibilità pubblica sui possibili abusi del tirocinio da parte dei soggetti ospitanti, pare mancare la minima attenzione politica e dei media sullo svuotamento di questo strumento e sulla conseguente minore opportunità per le persone inserite, soprattutto se fragili, di inserirsi sul mercato del lavoro, cosa che è forse altrettanto grave.

Bibliografia

Acler C. (2016), Storia, ruolo e formazione del Tutor dell’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali trentine di tipo B, Tutor Book, Corso di formazione base anno, Con.Solida, Trento.

Barzelay M. (2001), New Public Management: Improving research and policy dialogue, California University Press, Berkeley.

Borzaga C., Fazzi L. (2011), Le imprese sociali, Carocci.

Cataldi L., Tousijn W. (2013), Quale managerialismo nei servizi sociali? Una riflessione a partire da una ricerca in corso, Paper for the Espanet Conference “Italia, Europa: integrazione sociale e integrazione politica”, Università della Calabria, Rende.

Chiaf E. (2013), “Il valore creato dalle imprese sociali di inserimento lavorativo”, Impresa Sociale, 0/2013.

Clarke J.H. (2004), Changing Welfare Changing State: New Directions in Social Policy, Sage, London.

Clarke J.H., Newman J. (1997), The Managerial State: Power, Politics and Ideology in the Remaking of Social Welfare, Sage, London.

Exworthy M., Halford S. (ed.) (1999), Professionals and the New Managerialism in the Public Sector, Open University Press, Buckingham.

Girotti F. (2007), Amministrazioni pubbliche. Una introduzione, Carocci, Roma.

Harlow E. (2003), “New Managerialism, Social Services Departments and Social Work Practice TodayPractice, 15(2), pp. 29-44.

Harlow E., Berg E., Barry J., Chandler J. (2013), “Neoliberism, managerialism and the reconfiguring of social work in Sweden and United Kingdom”, Organization, 20(4), pp. 534-549.

Lyons M. (1998), “The Impact of Managerialism on Social Policy: The Case of Social Services”, Public Productivity & Management Review, 21(4), pp. 419-432.

Luterotti V., Scalvini F. (1993), “Inserimento lavorativo: il progetto personalizzato”, Impresa Sociale, n. 9/1993.

Marocchi G. (1999), Integrazione lavorativa, impresa sociale, sviluppo locale, Franco Angeli, Milano.

Montobbio E. (1995), “Presupposti culturali per l’inserimento lavorativo di persone con handicap”, Impresa Sociale, n. 21/1995.

Pollitt C. (1990), Managerialism and the public services: The Ango-American experience, Blackwell, Oxford.

Poy S., Scaratti G. (2021), “Sviluppo delle competenze e politiche per l’occupabilità dei giovani. Buone pratiche da un caso studio”, Impresa Sociale, 1/2021.

Scalvini F. (1995), “L’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate. Primi appunti per l’identificazione e il confronto tra due modelli”, Impresa Sociale, n. 21/1995.

Signoretti A., Sacchetti S. (2020), “Lean HRM practices in work integration social enterprises: Moving towards social lean production. Evidence from Italian case studies”, Annales of Public and Cooperative Economics, 91(4), pp. 545-563.

Tousijn W. (2013), “Dai mezzi ai fini: il nuovo professionalismo”, in Vicarelli G. (cura di), Cura e salute. Prospettive sociologiche, Carocci, Roma.

Tsui M., Cheung F.C.H. (2004), “Gone with the Wind: The Impacts of Managerialism on Human Services”, British Journal of Social Work, 34, pp. 437-442.

Villotti P., Corbìere M., Fraccaroli F., Fossey E., Lecomte T., Harvey C., (2017), “Work Accommodations and Natural Supports for Employees with Severe Mental Illness in Social Businesses: An International Comparison”, Community Ment Health Juornal, 53, pp. 864-870.

Villotti P., Zaniboni S., Corbière M., Guay S., Fraccaroli F., (2018), “Reducing perceived stigma: Work integration of people with severe mental disorders in Italian social enterprise”, Psychiatric Rehabilitation Journal, 41(2), pp. 125-134.

Weber M. (1922), Wirtschaft und Gesellschaft, Tubinga; trad.it. (1961), Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano.

Wright V. (1994), “Reshaping the State: The implications for Public Administration”, West European Politics, 17(3), pp. 102-134

Sostieni Impresa Sociale

Impresa Sociale è una risorsa totalmente gratuita a disposizione di studiosi e imprenditori sociali. Tutti gli articoli sono pubblicati con licenza Creative Commons e sono quindi liberamente riproducibili e riutilizzabili. Impresa Sociale vive grazie all’impegno degli autori e di chi a vario titolo collabora con la rivista e sostiene i costi di redazione grazie ai contributi che riesce a raccogliere.

Se credi in questo progetto, se leggere i contenuti di questo sito ti è stato utile per il tuo lavoro o per la tua formazione, puoi contribuire all’esistenza di Impresa Sociale con una donazione.