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ISSN 2282-1694
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Cooperative da riscoprire. Recensione

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Numero 2 / 2021

Fiscalità

La sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 2020. Il suo (possibile) impatto nel sistema di imposizione dei redditi del Terzo settore

Giulia Boletto

Premessa

La sentenza n.131 del 2020 della Corte Costituzionale[1] sembra apportare nuovi ed importanti spunti alla riflessione (anche) intorno al trattamento tributario previsto per gli enti del Terzo settore (ETS) nell’ultima riforma, avvenuta tra il 2016 e il 2017.[2]

Tale riforma, come ricorda la Corte, ha avuto il pregio di disegnare con chiarezza i confini di quel “privato sociale” che, presentando determinati caratteri identitari, può beneficiare di misure di favor in una logica di sussidiarietà orizzontale (art. 118 u.c., Cost.).[3] La Corte, di conseguenza, esclude che il legislatore ordinario possa omologare altri privati non profit agli ETS al fine di estendere loro la disciplina riservata agli ETS: questi ultimi sono specificamente identificati nel codice del Terzo settore (CTS) in un insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici (art. 4), rivolti a “perseguire il bene comune” (art. 1), a svolgere “attività di interesse generale” (art. 5), senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), sottoposti a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (artt. da 90 a 97).[4] Così come tassativamente elencati, gli ETS sono gli unici soggetti legittimati a fruire della normativa contenuta nel CTS.

Nella determinazione del perimetro soggettivo del Terzo settore (TS), è dato rilievo alle caratteristiche ontologiche, intrinseche ed indefettibili degli enti privati che si occupano del bene comune, mentre non assume alcun rilievo la forma giuridica di essi così come la modalità di gestione dell’attività, modalità che, infatti, sono messe su uno stesso piano laddove si dice che le attività di interesse generale possono essere esercitate “mediante forme di azione volontarie o gratuite o di mutualità o di produzione e di scambio di beni e servizi” (art. 4 CTS).[5]

Con la riforma si prende atto, dunque, che le relazioni di sussidiarietà orizzontale possono avere come protagoniste le imprese oltre che i cittadini[6] e di conseguenza le istituzioni devono favorire le attività di interesse generale anche quando promotori di queste iniziative sono le imprese anziché i cittadini.[7]

Tra le misure di sostegno pubblico al TS, la riforma prevede trattamenti di “vantaggio” per ciò che concerne l’imposizione dei redditi delle imprese.

Il legislatore della riforma “agevola” l’impresa del TS, anche se non prende in considerazione l’impresa del TS in quanto tale, intesa come entità privata che svolge attività di interesse generale in via esclusiva o principale nelle forme di produzione e scambio di beni e servizi, non lucrativa e sottoposta ad un rigido sistema di controlli; le agevolazioni previste nella riforma riguardano, viceversa, solo l’impresa del TS che, presentando un modello organizzativo particolare, integra la qualifica di impresa sociale (ai sensi del D.Lgs. 112 del 2017, su cui si veda infra), e anche l’impresa che, nel medio lungo periodo, sia tendenzialmente programmata al pareggio di bilancio (rientri cioè nella nozione di ETS imprenditore non commerciale ai sensi dell’art. art. 79 CTS, su cui si veda infra).

L’impresa del TS che, viceversa, pur esercitando in via esclusiva o principale attività di interesse generale, produce utili (cioè rientra tra gli ETS imprenditori commerciali ai sensi dell’art. 79 CTS), non gode di alcun vantaggio per ciò che concerne l’imposizione dei redditi ancorché sia obbligata a reinvestire tali utili nelle attività di interesse generale. L’impresa del TS, in quest’ultimo caso, è assimilata, quanto al trattamento tributario, ad un’impresa profit.

Data l’articolazione dei soggetti ammessi a fruire delle disposizioni di carattere agevolativo e promozionale, è sorta la necessità di verificare se essi integrino aiuti di Stato incompatibili con l’art. 107 TFUE. Tale articolo è costruito, infatti, in modo che vi sia una presunzione relativa di antigiuridicità di quei provvedimenti di favor rivolti solo a talune imprese, e ciò induce gli Stati membri a richiedere alla Commissione Europea una valutazione preventiva sui loro provvedimenti astrattamente (o apparentemente) sussumibili nella fattispecie di aiuto di Stato.[8]

È previsto, infatti, all’art. 101, comma 10, del CTS che l’efficacia dei trattamenti tributari di favore previsti per le imprese del Terzo settore sia subordinata al parere della Commissione Europea[9] (che ancora non è stata sollecitata a pronunciarsi), la quale dovrà stabilire, appunto, se essi rappresentino o meno aiuti di Stato (ai sensi dell’art. 107 TFUE).[10]

È facile cogliere lo sfondo giuridico-culturale su cui poggia la riforma, perlomeno nella parte tributaria: l’impresa, anche quando è soggetto sussidiario dell’ente pubblico, attore dell’interesse generale, impegnata esclusivamente o principalmente nell’esercizio di attività di interesse generale per soli scopi di bene comune, è comunque un operatore economico che rivolge la sua attività al mercato e come tale è soggetta alla disciplina della concorrenza. Di conseguenza, quelle misure di favor che le sarebbero dovute in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale, devono necessariamente “fare i conti” con il diritto euro-unitario e, in particolare, con il divieto di aiuti di Stato (art. 107 TFUE).

Proprio sul punto, appaiono interessanti le considerazioni che la Corte Costituzionale fa nella sentenza n.131 del 2020: essa, infatti, pur occupandosi nello specifico della disciplina relativa ai rapporti tra ETS e P.A., ed in particolare della norma cardine di tali rapporti, ossia l’art. 55 CTS,[11] coglie l’occasione per una riflessione generale e “di sistema” sulla riforma del Terzo settore.

In particolare, ed in estrema sintesi, la Corte Costituzionale muove dalla considerazione che gli ETS sono riconducibili ad un ambito di organizzazione delle “libertà sociali” non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle forme di solidarietà che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente”. La Corte chiarisce, in sostanza, che nel perimetro del Terzo settore l’agire dei privati per scopi di interesse generale invera il principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), principio fondante la nostra Repubblica.

Il Terzo settore è quindi ritenuto dalla Corte Costituzionale una categoria costituzionale a sé stante, dotata di un proprio statuto che è dato dal sistema offerto dal principio personalista, pluralista e da quello di solidarietà,[12] e che la distingue sia dai soggetti operanti con una logica di mercato, sia dalle amministrazioni pubbliche (Stato).

La Corte prende poi in esame, nello specifico, l’art. 55 CTS, che regola i rapporti ETS/P.A.:[13] si tratta, come noto, di una norma che disciplina i modi di coinvolgimento degli enti non lucrativi nell’attività degli enti pubblici, e che delinea un vero e proprio metodo collaborativo fra tali soggetti, lontano dalle modalità di selezione competitiva proprie del codice dei contratti pubblici. Tale norma, di conseguenza, ha dato adito fin dalla sua introduzione ad interpretazioni contrapposte circa il suo rapporto con la disciplina europea pro-concorrenziale sui contratti pubblici ed in particolare il Consiglio di Stato (pronunciatosi nel 2018 su richiesta dell’Anac) ha sottolineato il ruolo di primazia del diritto euro-unitario e la necessità della piena applicazione delle procedure previste dal codice dei contratti pubblici per la selezione degli ETS destinati a divenire partner della P.A. attraverso la co-programmazione.[14]

Nella sentenza in commento la Corte, tuttavia, fornisce una chiave di lettura dell’art. 55 CTS coerente con i principi e valori costituzionali che ispirano l’azione dei privati al conseguimento del bene comune (art. 2 e 118, u.c., Cost.), sottolineando che tale norma crea un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato, e rappresenta una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art.118, quarto comma, Cost..

Sarebbe, in altri termini, il particolare valore costituzionale riconosciuto agli ETS rispetto alle altre formazioni sociali, a giustificare soluzioni legislative differenziate nei loro confronti, purché risulti assicurata la parità di trattamento per tutti gli enti che rientrano all’interno della categoria Terzo settore.

La Corte Costituzionale chiarisce, inoltre, i rapporti tra diritto del Terzo settore e diritto dell’Unione Europea: sebbene con specifico riferimento ai rapporti fra pubblica amministrazione e Terzo settore, afferma che vi è una tendenza, nella recente normativa e giurisprudenza euro-unitaria in tema di servizi pubblici, a smorzare la dicotomia conflittuale fra i valori della concorrenza e quelli della solidarietà e che è possibile per ciascuno Stato, “apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)”.

Le considerazioni della Consulta impongono, ci pare, di tornare a riflettere sul regime tributario che il legislatore della riforma ha previsto per le imprese del Terzo settore.[15] La Corte sembra, invero, suggerire una diversa prospettiva da cui muovere per ripensare il regime tributario del TS: in un contesto in cui gli enti privati operano senza scopo di lucro e hanno caratteri distintivi costituzionalmente rilevanti in quanto capaci di inverare il principio di solidarietà sociale, essi non possono essere considerati imprese alla stregua degli altri operatori economici ed in ragione di parametri oggettivi (come l’economicità o non economicità della gestione), ma sarebbe forse più opportuno pensare ad un regime tributario proprio del settore, capace di valorizzare, da un lato, il particolare “ambito” in cui gli ETS si trovano ad operare (ambito evidentemente non sovrapponibile a quello in cui opera la disciplina della concorrenza), dall’altro lato, il particolare “valore costituzionale aggiunto”[16] che mostrano gli ETS rispetto alle altre formazioni sociali.

Il regime di imposizione dei redditi delle imprese del Terzo settore previsto nella riforma

Il regime tributario delineato dal legislatore delegato per le imprese del Terzo settore risulta, a grandi linee, così articolato:

  1. le imprese sociali in senso stretto godono di una detassazione degli utili reinvestiti nell’attività statutaria (art. 18, D.lgs. 112/2017);
  2. gli altri ETS imprenditori, invece, vengono distinti in ETS commerciali e ETS non commerciali (a seconda, rispettivamente, che producano sistematicamente utili oppure che la loro gestione sia programmata, tendenzialmente, al raggiungimento del pareggio costi/ricavi), con le conseguenze in punto di rilevazione e misurazione dell’imponibile previste al Titolo II del T.U.I.R. (cui l’art. 79 CTS rinvia esplicitamente).[17]

Più precisamente, per gli ETS imprenditori non commerciali, viene previsto un regime di favor nel caso in cui i ricavi “superino” i costi per non più del 5% e per non più di due anni consecutivi. Il favor consiste, in questo caso, nel fatto che l’ente non perde la qualifica di non commercialità, e, di conseguenza, da un alto, i proventi dell’attività istituzionale rimangono non imponibili, dall’altro lato, non vengono attratti nella sfera dell’attività commerciale i risultati derivanti dall’esercizio di altre attività.[18]

Per gli ETS imprenditori non commerciali, inoltre, è previsto un regime forfetario per la determinazione del reddito di impresa prodotto con l’esercizio di attività secondarie (art. 80 CTS).

Con riguardo, invece, al regime di favor previsto all’art. 18 del D.lgs. 112/2017 per le imprese sociali, la relazione illustrativa al decreto precisa che il fatto che l’impresa sociale sia tenuta a destinare i propri utili o avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio – con possibilità di distribuirli ai soci nei soli limiti previsti dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto –, giustifica, da un punto di vista strutturale, la detassazione degli utili o avanzi di gestione che vengano effettivamente destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio.

Per gli ETS imprenditori commerciali, viceversa, per i quali vige il medesimo divieto di lucro soggettivo ed il medesimo vincolo di destinazione degli utili o avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria, tale detassazione non viene prevista.

La frammentazione dei regimi di imposizione dei redditi previsti per le imprese del TS risponde ad esigenze di tutela del mercato e della concorrenza: in particolare, la distinzione tra ETS commerciali e non commerciali (di cui all’art. 79 CTS) sembra giustificata dalla necessità di delineare con chiarezza l’ambito soggettivo di applicabilità del diritto della concorrenza, che, come noto, riguarda tutti quegli enti che si rendono offerenti di beni o servizi per i quali sia configurabile l’esistenza, anche solo potenziale, di un mercato, e che gestiscono l’attività con metodo economico assumendosi il rischio d’impresa, ossia operino sul mercato in modo da ottenere ricavi tali almeno da coprire i costi della propria attività.

La posizione schiettamente pro-concorrenziale assunta dal legislatore della riformarisulta, peraltro, giustificata e ben radicata nella Costituzione,[19] e sostenuta nei numerosi arresti della Corte di Giustizia europea,[20] nelle pronunce della Commissione Europea,[21] nei pareri del Consiglio di Stato,[22] dai quali è emerso costantemente che nel bilanciamento tra concorrenza e solidarietà lo scopo dell’ente così come il divieto di lucro soggettivo non hanno alcun peso, rilevando invece le sole modalità di esercizio dell’attività. Di conseguenza, non è possibile legittimare per i servizi c.d. sociali una “esenzione” dall’operatività delle regole di concorrenza in ragione della specifica finalità solidaristica.

Tali arresti, muovendo dall’assimilazione degli ETS agli enti profit sulla base di una concezione “naturalistica” dell’impresa, hanno contribuito a disegnare un sistema delle fonti in cui la disciplina relativa alla tutela della concorrenza risulta inequivocabilmente sovra-ordinata rispetto al diritto interno anche con riferimento a quei soggetti che agiscono solo ed esclusivamente per scopi di interesse generale.

Le disposizioni agevolative che riguardano l’imposizione dei redditi dell’impresa del TS (art. 79, comma 2-bis, CTS e l’art. 18, D.Lgs. 112/2017) si inseriscono, appunto, in questo contesto di primato assoluto della tutela della concorrenza: esse, d’altra parte, non paio sussumibili nelle fattispecie di aiuti di Stato, vietate dall’art. 107 TFUE, in quanto rispettose dei parametri che la CGUE ha nel tempo individuato al fine di escludere la natura di aiuto di Stato di provvedimenti agevolativi.

In particolare, la previsione di non imponibilità dei redditi prodotti dagli ETS prevista all’art. 79, c. 2-bis, CTS, non integrerebbe i requisiti di un aiuto di Stato vietato dall’art. 107 TFUE, considerando che essa si riferisce ad un ente tendenzialmente programmato al pareggio di bilancio, che produce uno minimo “surplus” dei ricavi sui costi (5%), per non più di due anni consecutivi. Si ricorda, a tal proposito, che al fine di poter sussumere un ente nella fattispecie di cui all’art. 107 TFUE, esso deve esercitare uno o più attività (anche per finalità non lucrative) astrattamente idonee a generare reddito, cioè (usando la terminologia dei giudici comunitari) non aventi una funzione esclusivamente sociale,[23] e pertanto qualificabili come economiche sulla base del diritto UE. Sulla base di tale precisazione si ritiene che vi sia impresa secondo il diritto UE, quando l’ente abbia organizzato la relativa attività nel rispetto del criterio di economicità, così come elaborato dalla dottrina giuscommercialistica per qualificare come economica l’attività integrativa della nozione civilistica di imprenditore; tale criterio è ormai ritenuto osservato quando l’impresa, valutata oggettivamente, sia in grado di generare sistematicamente un risultato economico positivo in una prospettiva temporale di medio periodo.[24].

La previsione di detassazione degli utili delle imprese sociali (art. 18 D.Lgs. 112/2017), viceversa, appare più strettamente legata e giustificata dalla peculiare struttura organizzativa (fra cui si ricorda la c.d. governance multistakeholders ed i vincoli statutari previsti per gli enti così qualificati), cioè da elementi che consentono di garantire che l’ente sia in grado, da un lato, di raggiungere la migliore qualità ed efficienza del servizio, e, dall’altro lato, di “presidiare” l’effettivo perseguimento di finalità di interesse generale.[25] Si tratta, a ben vedere, di un modello organizzativo che delinea una forma di impresa privata diversa dalle altre società lucrative, e capace di inverare il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, inteso nel senso che, nella produzione di beni e servizi, il potere pubblico non deve fare ciò che possono fare meglio i privati.[26] In questi termini, data cioè la non comparabilità tra impresa sociale e altre forme private di impresa, l’agevolazione non risulterebbe selettiva e quindi il regime di favor non sarebbe sussumibile all’interno della fattispecie di cui all’art. 107 TFUE.[27]

Il sistema di imposizione dei redditi delineato nella riforma del TS risulta, dunque, da un lato, in linea con il primato assoluto riconosciuto alla tutela della concorrenza, dall’altro lato idoneo a non integrare fattispecie di aiuti di Stato, vietate ai sensi dell’art. 107 TFUE.

È certamente vero, tuttavia, che in nome della concorrenza si sia finito per determinare una “svalutazione” complessiva della posizione degli enti del Terzo settore all’interno dell’ordinamento:[28] il legislatore ordinario, infatti, ha qualificato una serie di soggetti, in possesso di determinate caratteristiche, che, secondo quanto ci ricorda la Corte Costituzionale, contribuiscono all’attuazione dei principi fondamentali della costituzione, ma ciò che viene posto in rilievo è piuttosto la dimensione oggettiva (l’attività svolta ed il suo carattere, economico o non economico), ed è quest’ultima che determina la disciplina applicabile, anziché il profilo soggettivo (chi sono gli enti che svolgono tale attività, per quale fine e sotto quale regime).[29]

Di conseguenza, è stato auspicato da più parti[30] che venisse trovato un nuovo punto di equilibrio tra solidarietà e tutela della concorrenza,[31] capace di valorizzare il sostrato costituzionale in cui si innesta il Terzo settore.

In questo quadro generale si colloca la sentenza n. 131 del 26 giugno del 2020 della Corte Costituzionale, che appare rivoluzionaria e chiarificatrice allo stesso tempo, e che ci consente di tornare a riflettere sulla coerenza sistematica e ragionevolezza (art. 3 Cost.) del sistema di imposizione dei redditi delineato nella riforma, in quanto, per quanto mette in luce la Consulta, sembra discriminare tra soggetti che hanno il medesimo “valore costituzionale” (e che operano in uno stesso mercato di “solidarietà”), dal momento che prevede vantaggi fiscali solo a favore delle imprese sociali in senso stretto e, nei limiti descritti, degli ETS imprenditori non commerciali.

Nuove prospettive per il concorso alle spese pubbliche degli ETS

La riflessione intorno al trattamento tributario previsto per le imprese del TS nell’ultima riforma consente, più in generale, di ripensare al ruolo della funzione tributaria dinanzi agli ETS, che sono riconosciuti dall’ordinamento come strumento dell’interesse generale in quanto, fondamentalmente, oltre ad essere impegnati in attività di interesse generale, utilizzano la ricchezza prodotta non per arricchirsi, ma per scopi di interesse pubblico, di bene comune.

È noto che la funzione tributaria realizza il riparto dei carichi pubblici tra i consociati in un quadro, più generale, di dovere di solidarietà economica[32] (art. 2 Cost.).

Il dovere di concorso ai carichi pubblici (di cui all’art. 53 Cost.), in altri termini, viene annoverato tra i doveri inderogabili di cui all’art. 2 Cost.:[33] l’adempimento del debito tributario si traduce nell’adempimento del debito di solidarietà politica, economica e sociale che è condizione necessaria ed irrinunciabile al fine del pieno sviluppo della personalità di tutti i consociati.

Vi è dunque una giustificazione “comunitaria” del dovere tributario[34] che si fonda sul legame che la Costituzione italiana presuppone esistere tra persona e comunità, cosicché il tratto rilevante di tale dovere è da rintracciare nel concetto e nel momento del “riparto”, ovvero nell’esigenza di una distribuzione tra tutti gli appartenenti alla collettività degli oneri che discendono dall’interesse comune. La portata sostanziale di novità della Costituzione del 1948 è stata individuata proprio nelle “potenzialità interpretative degli artt. 2 e 3”[35] nei quali è dato rinvenire il senso di quella finalizzazione dei diritti allo sviluppo relazionale e solidale della persona che è chiaramente ricostruibile dalla volontà e dalla cultura dei padri costituenti.

La Costituzione presuppone un legame tra persona e comunità idoneo ad esplicarsi in doveri di solidarietà, nei quali il concetto di dovere non discende più dall’idea dell’autorità statale, ma, al contrario, dal vincolo comunitario.

Ecco che, letto in questo contesto, il dovere di contribuire alla spesa pubblica di cui all’art. 53 Cost. segna il superamento della costruzione del concetto di tributo in chiave “coercitiva” e “coattiva”, per fondarlo in chiave solidaristica,[36] perché “contribuire” significa addossarsi una parte delle spese di qualcuno, e tale dovrebbe essere il fondamento di un sistema relazionale il cui ulteriore riferimento è evidentemente l’art. 2 Cost., e dunque i doveri di solidarietà ivi richiesti.

Il principio di capacità contributiva, tuttavia, non esprime un fine sociale da perseguire, ma solo il modo attraverso cui perseguire il fine sociale generico del finanziamento delle pubbliche spese.

L’art. 53 Cost. è allora strumento privilegiato dell’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale: è però mero “criterio” e non principio, ovvero metodo di intervento e non valore da perseguire. Il valore da coronare rimane quello della “solidarietà”, a sua volta strumentale, in un sistema relazionale, a consentire a ciascuna persona di realizzare il proprio piano di vita.[37]

È un dato di fatto che l’equo riparto dei carichi pubblici si raggiunga nel nostro ordinamento tributario attraverso un sistema di rilevazione e imposizione del reddito che non attribuisce alcun rilievo allo scopo dell’ente e dei suoi partecipanti. Si tratta infatti di un sistema che conserva una matrice reale, ereditata dal sistema pre-vigente,[38] in cui cioè una ricchezza è assoggettata a tassazione se e nella misura in cui, considerata nella sua oggettività, manifesti connotati reddituali, e cioè rappresenti l’incremento di valore di un patrimonio preesistente registratosi in un arco di tempo predeterminato e riconducibile, in termini genetici, ad una delle fonti (cespiti o attività) così come individuate dalla legge, nessuna rilevanza spiegando, a questo proposito, la sua successiva destinazione funzionale.

Indipendentemente dallo scopo o dal fine perseguito, quindi, l’ente privato societario o non societario è soggetto passivo di imposta ed i relativi redditi sono assoggettati ad imposizione, in ogni caso con aliquota ordinaria IRES, per il solo fatto della loro produzione, indipendentemente cioè dalla loro destinazione, che è una fase distinta e successiva, ed a prescindere dalla natura della finalità (lucrativa o no) del soggetto che lo produce. Per come è strutturato il sistema di imposizione dei redditi, dunque, enti for profit ed enti not for profit assumono la medesima posizione di fronte al fisco.

Accanto alla funzione di equo riparto dei carichi pubblici, tuttavia, il sistema tributario può assumere una funzione extrafiscale, di promozione ed incentivo di particolari settori o ambiti:[39] uno dei modi per ottenere questo obiettivo è quello di introdurre una normativa di deroga al sistema impositivo ordinario in modo da valorizzare aspetti extrafiscali che, andando ad assumere rilevanza nella normativa tributaria vera e propria, condizionano sotto il profilo sostanziale e/o procedimentale l’applicazione del tributo stesso.

In questo modo vengono costruite le agevolazioni in senso proprio (o esenzioni),[40] quelle disposizioni, cioè, che introducono nei confronti di taluni soggetti o attività, una forma di riduzione del prelievo non coerente con i principi ispiratori (ratio) del tributo cui afferisce. La norma di agevolazione, in un’ottica di finanza pubblica, realizza un trattamento tributario sottrattivo che ha lo stesso impatto sul bilancio pubblico di una sovvenzione diretta.[41] Essa, pur rappresentando una deroga al principio di uguaglianza (in quanto a fronte di una norma generale che prevede l’assoggettamento ad imposizione di un determinato presupposto, viene stabilita la non imposizione solo di determinati soggetti o di determinate fattispecie) può trovare razionale e congrua giustificazione in altri principi presenti nell’ordinamento, equiordinati a quello di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., cui l’agevolazione si ispiri in un’ottica promozionale (si pensi a valori quali la famiglia, l’istruzione, l’assistenza, la cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata).

Ecco che, tradizionalmente, il regime di favore previsto dal legislatore tributario per l’imposizione sui redditi prodotti dagli enti non profit è stato inquadrato come regime agevolativo, di natura promozionale, derogatorio a quello ordinario in ragione di obiettivi sociali perseguiti dall’ente persegue, deducibili dal tipo di attività esercitata e/o dal tipo di finalità dell’ente e dei suoi partecipanti.[42]

Proprio nell’ambito dei regimi di agevolazione hanno assunto rilevanza, nel tempo, tutti quegli enti improntati al perseguimento e al soddisfacimento di interessi non economici, a forte connotazione pubblicistica: le finalità (sia dell’ente che dei suoi membri), ritenute irrilevanti ed espressamente ignorate nella classificazione sistematica operata in sede di imposizione sui redditi, sono divenute viceversa cruciali nelle discipline che hanno accordato i regimi di favore, esonerando da contribuzione fattispecie che altrimenti sarebbero rientrate a pieno titolo nella sfera di applicazione del tributo.[43]

La legislazione speciale rivolta agli enti non profit è stata ricondotta, dunque, nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore che in tanto apparivano ragionevoli in quanto erano in grado di perseguire obiettivi extrafiscali di indubbio valore etico, oppure, più in generale, in quanto erano riconducibili ad una politica di favore e di sostegno pubblico ai privati che si occupano dell’interesse generale, come chiede l’art. 118 u.c. Cost.

La logica promozionale e di incentivo, di deroga al sistema ordinario in quanto funzionale al raggiungimento di finalità extrafiscali, non pare essere stata messa in discussione neppure nell’ambito dell’ultima riforma del Terzo settore.

Anche nel nuovo contesto, infatti, sono state introdotte deroghe alle regole disegnate dalle norme impositrici in ordine al presupposto dell’Ires, esonerando da contribuzione fattispecie che altrimenti rientrerebbero a pieno titolo nella sfera di applicazione del tributo. Tali deroghe, come abbiamo visto, riguardano quegli enti che, in ragione delle modalità di esercizio dell’attività economica (programmata tendenzialmente, nel medio lungo periodo, al pareggio di bilancio) – ETS imprenditore non commerciale – o in ragione del particolare modello organizzativo – imprese sociali – sembrano in grado, più degli altri ETS, di garantire il soddisfacimento di finalità di interesse generale e di utilità sociale e che, dunque, in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, devono essere oggetto di favor da parte delle istituzioni.

La cornice costituzionale entro cui si colloca la riforma del TS impone, tuttavia, una nuova riflessione, che muove, appunto, dalla sentenza n. 131 cit. e dalla chiave di lettura che essa offre della riforma del TS.

Nella sentenza, in particolare, la Corte Costituzionale valorizza gli elementi identitari degli ETS dicendo sostanzialmente che solo i soggetti che si qualificano come ETS sono legittimati a partecipare alle attività di co-progettazione e co-programmazione di cui all’art. 55 CTS, in quanto solo ad essi (ed in ragione dei loro caratteri specifici) è riconosciuta una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generaleSi instaura, in questi termini, tra i soggetti pubblici e gli ETS, in forza dell’art 55, un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del mercato e del profitto.

La Corte prosegue dicendo che agli enti che fuoriescono dal perimetro del TS non possono essere riferibili le medesime forme di coinvolgimento previste dall’art. 55 CTS, in quanto esiste una stretta connessione tra i requisiti di qualificazione degli ETS e i contenuti della disciplina del loro coinvolgimento nella funzione pubblica; l’effettiva terzietà rispetto al mercato e alle finalità di profitto che lo caratterizzano può, infatti, ritenersi verificata e assicurata attraverso gli specifici requisiti giuridici e i relativi sistemi di controllo propri degli ETS.

Questo passaggio della sentenza fornisce, ci pare, nuovi spunti alla riflessione iniziale, in ordine al ruolo della funzione tributaria dinanzi agli ETS.

Ci si chiede in sostanza se la funzione tributaria non debba semplicemente prendere atto dei caratteri ontologici e identitari propri degli ETS, capaci in sé di assicurare effettiva terzietà rispetto agli interessi di mercato.

Nella particolare prospettiva suggerita dalla sentenza n.131, in altri termini, ci pare, che la destinazione del reddito prodotto a scopi di utilità sociale, divenuto il tratto caratterizzante di tutti gli enti privati riconducibili al c.d. Terzo settore – che quindi riguarda trasversalmente sia gli enti che assumono la qualifica di impresa sociale, sia gli enti che secondo l’art. 79 CTS, si qualificano come commerciali o non commerciali – possa valere a giustificare la costruzione di un regime di esclusione da imposizione dei redditi del Terzo settore.[44]

Per come è strutturato il sistema ordinario di imposizione dei redditi, si diceva, enti for profit ed enti not for profit assumono la medesima posizione di fronte al fisco: l’ente privato societario o non societario è soggetto passivo di imposta ed i relativi redditi sono assoggettati ad imposizione, in ogni caso con aliquota ordinaria IRES, per il solo fatto della loro produzione, indipendentemente cioè dalla loro destinazione, che è una fase distinta e successiva, ed a prescindere dalla natura della finalità (lucrativa o no) del soggetto che lo produce.

L’esclusione da imposizione del reddito prodotto dagli ETS, tuttavia, non rappresenterebbe una deroga al sistema ordinario ma la presa d’atto del fatto che quell’insieme di enti che l’ordinamento riconosce come attori dell’interesse generale capaci di inverare il principio di solidarietà sociale, concorrono alla spesa pubblica in altro modo e non per il tramite dell’imposizione. D’altra parte, come ricorda da tempo parte della dottrina, l’art. 53 Cost. ha introdotto il dovere di contribuire alla spesa pubblica, ma non ha imposto di adempiere a tale dovere attraverso il pagamento dei tributi.[45] Ecco che destinare la ricchezza prodotta al compimento di attività di interesse pubblico significa concorrere direttamente alla realizzazione dell’obiettivo del contenimento della spesa pubblica; il contenimento della spesa pubblica, d’altra parte, rappresenta un’espressione dell’interesse all’equilibrio finanziario (art 81 Cost.) che è, a sua volta, comprensivo e assorbente di quello fiscale.[46]

Gli ETS, si diceva, destinano la ricchezza che producono direttamente all’interesse generale, e tale ricchezza, dunque, non può ritenersi idonea a manifestare (ulteriore) idoneità a contribuire alla spesa pubblica.

Un (eventuale) regime di esclusione da imposizione dei redditi degli ETS si presenterebbe, quindi, ragionevole e coerente con la ratio del tributo sui redditi: il principio di uguaglianza tributaria, desumibile per via interpretativa dalla interazione tra l’art. 53 e l’art. 3 Cost, impone, infatti, nella sua dimensione orizzontale, l’uguale trattamento di fattispecie che denotino una uguale capacità contributiva e, in quella verticale, prescrive il diverso trattamento di quelle situazioni che, sotto il medesimo profilo di attitudine alla contribuzione, siano invece differenti.

Sembra ragionevole, dunque, che il legislatore tributario valuti in modo differente i redditi prodotti da soggetti dotati di un particolare valore costituzionale e destinati ex lege a scopi pubblicistici (di utilità sociale o interesse generale).[47]

Il regime di esclusione da imposizione dei redditi prodotti dagli ETS sarebbe, quindi, da considerarsi strutturale, in linea con quello ordinario (non, dunque, derogatorio), in quanto capace di definire l’ambito applicativo del tributo, delineandone con maggior precisione il presupposto di applicazione.

La coerenza tra disciplina “sottrattiva” e disciplina ordinaria assumerebbe rilevanza, infine, alla luce della normativa comunitaria in tema di aiuti di Stato; è noto che la previsione di un trattamento fiscale “sottrattivo” soggettivamente circoscritto non integra la nozione di aiuto di stato qualora esso risulti giustificato dalla natura o dalla struttura del sistema, perché in tal caso esso non rappresenta una deroga al regime ordinario è quindi non idoneo a determinare una concreta distorsione della concorrenza di mercato.[48]

 

DOI: 10.7425/IS.2021.02.03

Note

  1. ^ Autorevolmente commentata, in dottrina, da E. Rossi, Il fondamento del Terzo settore è nella Costituzione. Prime osservazioni sulla sentenza n. 131 del 2020 della Corte Costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 3, 2020, p. 52, www.forumcostituzionale.it; L. Gori, Gli effetti giuridici ‘a lungo raggio’ della sentenza n. 131 del 2020 della Corte Costituzionale, in Impresa Sociale, 3.2020, p. 89 e ss.; F. Pizzolato, Il volontariato davanti alla Corte Costituzionale, www.dirittifondamentali.it, fasc. 3, 2020.
  2. ^ È con la legge delega 106/2016 per la “Riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” e con i decreti legislativi che ne sono seguiti, che il Terzo settore ha acquisito pieno riconoscimento nell’ordinamento giuridico italiano. Tra i decreti legislativi attuativi della legge delega, si ricordano, in particolare, il codice del Terzo settore (CTS), D.Lgs. 117/2017, ed il decreto che riguarda in particolare la disciplina dell’impresa sociale (D.Lgs. 112/2017).
  3. ^ L’art. 118, u.c., recita: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Sul principio di sussidiarietà orizzontale si veda, ancora, G. Arena, Il principio di sussidiarietà orizzontale, in Scritti in onore di Giorgio Berti, Napoli, 2005, p. 179 e ss.; Camerlengo Q., sub. art. 118, in Bifulco R., Celotto A., Olivetti M., Commentario alla Costituzione, Milano, 2006, p. 2333 e ss.; G. Cerulli Irelli, (voce) Sussidiarietà (diritto amministrativo), in Enc. Giur., agg. XII, 2004, 4. Per quanto riguarda il principio di sussidiarietà nella materia tributaria, si veda, L. Antonini, Riforma del welfare e principio di sussidiarietà fiscale, in Non Profit, 2, 2002; M. Miscali, Contributo allo studio dei profili costituzionali del principio di sussidiarietà fiscale, in Riv. Dir. Trib., 2011, p. 249 e ss.; F. Gallo, L’applicazione del principio di sussidiarietà tra crisi del disegno federalista e tutela del bene comune, in Rass. Trib., 2014, p. 222; A. Perrone, Sussidiarietà e fiscalità: un nuovo modo di concepire il concorso alle spese pubbliche?, in Riv. Dir. Trib., I, 2017, p. 437.
  4. ^ In particolare, viene tracciato il perimetro oggettivo e soggettivo del Terzo settore: all’art. 4 del CTS vengono annoverati espressamente, tra gli ETS, un primo gruppo di enti tipici – le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, le reti associative , le società di mutuo soccorso – cui si affianca la previsione di enti aticipi, il cui minimo comune denominatore è dato dall’essere enti privati (diversi dalle società), dal perseguimento “senza scopo di lucro di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”, dall’esercizio di attività di interesse generale “mediante forme di azione volontarie o gratuite o di mutualità o di produzione e di scambio di beni e servizi”, dall’iscrizione al registro unico nazionale del Terzo settoreCompleta e rafforza la definizione la preliminare indicazione contenuta nell’art. 2 del CTS – contenuta, cioè, tra le regole di carattere generale che trovano applicazione trasversale, a prescindere dalla tipologia dell’ente e dal suo codice organizzativo interno – che riconosce il valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressioni di partecipazione, solidarietà e pluralismo. Diviene decisivo per determinare l’inclusione o esclusione di un soggetto nel Terzo settore, oltre al requisito formale dell’iscrizione nel RUNTS, l’attività svolta (che deve essere di interesse generale) e la finalizzazione della stessa all’utilità sociale.
  5. ^ All’interno del perimetro soggettivo del Terzo settore si distinguono enti che svolgono interventi di tipo (fondamentalmente) erogativo (le organizzazioni di volontariato, le APS, gli enti filantropici), da soggetti che svolgono le loro attività attraverso meccanismi di mercato (imprese sociali ed ETS commerciali), sempre però nel perseguimento di scopi pubblicistici. La delimitazione dei soggetti del Terzo settore si risolve in una serie di vincoli imposti dal legislatore, tra cui si ricordano in primis quelli di natura sostanziale e cioè: 1. assenza di scopo di lucro (art. 8 CTS; art. 3 D.Lgs. 112/2017), declinato, nel vincolo di destinazione del patrimonio dell’ente per lo svolgimento dell’attività statutaria, cui si accompagna il divieto di distribuzione, anche indiretta, degli utili ai soggetti che compongono, a vario titolo, gli organi sociali; 2. perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociali (art. 4, c. 1, art. 5, c. 1 e art.21, c. 1, CTS; art. 1, c.1, D.Lgs. 112/2017); 3. esercizio di attività di interesse generale (art. 5 CTS; art. 2 D.Lgs. 112/2017).
  6. ^ Dopo un’iniziale esitazione da parte della giurisprudenza, non sembra ormai più dubbio che le relazioni di sussidiarietà orizzontale possano avere come protagoniste le imprese oltre che i cittadini, cfr., sul punto, G. Razzano, Il Consiglio di Stato, il principio di sussidiarietà orizzontale e le imprese, in Giur. It., 2004, p. 718 e ss.
  7. ^ Nella relazione al disegno di Legge presentato il 22 agosto 2014, Camera dei Deputati n. 2617, recante “Delega al Governo per la Riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”, si legge che l’obiettivo non è solo “riformare il sistema delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute disciplinate nel libro primo del c.c.”, ma è anche “la costruzione di un rinnovato sistema che favorisca la partecipazione attiva e responsabile delle persone singolarmente o in forma associata, per valorizzare il potenziale di crescita e occupazione insito nell’economia sociale e nelle attività svolte dal cosiddetto terzo settore, anche attraverso il riordino e l’armonizzazione di incentivi e strumenti di sostegno”.
  8. ^ La nozione di aiuto di Stato formulata nel Trattato è assai ampia e capace di ricomprendere ogni vantaggio economicamente apprezzabile attribuito ad un’impresa attraverso un intervento pubblico, indipendentemente dalla forma tecnica o giuridica attraverso cui tale intervento è effettuato. Ricadono quindi, in generale, nel divieto di aiuto di Stato tutte quelle misure il cui effetto è sollevare un’impresa da oneri normalmente a suo carico e quindi, come chiarito dalla Corte di Giustizia e dalla Commissione, non solo le sovvenzioni (erogazioni di denaro), ma anche le misure di riduzione della pressione fiscale, in quanto “una perdita di gettito fiscale è equivalente al consumo di risorse statali sotto forma di spesa fiscale”. Così, la comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese (98/C 384/03). È inoltre importante sottolineare che il Trattato prende in considerazione solo gli interventi che favoriscono certe imprese o certe produzioni rispetto ad altre che si trovano nella stessa situazione di fatto e giuridica. Si tratta del requisito della selettività, che esclude dalla nozione di aiuto le misure generali di politica economica dirette a sostenere non una certa attività o un gruppo di imprese, ma lo sviluppo del sistema nel suo insieme. Ed infatti le istituzioni comunitarie riconducono la selettività non alla mera circostanza che di una misura possano concretamente beneficiare solo alcuni soggetti, quanto piuttosto al fatto che attraverso di essa si perseguano obiettivi singolari e specifici non riconducibili alla logica di sviluppo del sistema economico nel suo insieme; il requisito della selettività è individuato, in altri termini, verificando di volta in volta se la misura si giustifichi in base ad una logica di sviluppo del sistema economico nel suo insieme ovvero rappresenti una deviazione rispetto all’assetto dello stesso diretta a ridurne gli oneri finanziari a vantaggio di specifici settori. Con riferimento alla nozione di aiuti di Stato di natura fiscale, il requisito della selettività trova poi un’ulteriore specificazione: la misura non deve essere giustificata dalla natura o dalla struttura generale del sistema tributario nel quale detta misura si inserisce. Sul punto, si rinvia alla Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all’articolo 107, paragrafo 1, del T.F.U.E. (2016/C 262/01), in cui la Commissione, richiamando le pronunce più significative della Corte di Giustizia, specifica come si articola il giudizio sulla selettività della misura: occorre innanzitutto determinare quale sia il sistema generale applicabile per poi valutare se l’eccezione a tale sistema o le differenziazioni al suo interno siano giustificate dalla natura o dalla struttura del sistema stesso, ossia se discendano direttamente dai principi generali del sistema tributario dello Stato membro interessato. Il sistema di riferimento, quindi, costituisce il parametro di riferimento nell’ambito del quale deve essere valutata la selettività di una misura.
  9. ^ Occorre ricordare, a questo proposito, che la riforma prevede tempistiche differenziate per l’efficacia delle nuove norme in materia tributaria. In particolare, le norme che prevedono agevolazioni, quindi deroghe al sistema ordinario di imposizione dei redditi dell’impresa commerciale (e cioè l’art. 79, c. 2-bis, CTS e, per quanto riguarda l’impresa sociale, l’art. 18 del D.Lgs. 112/2017), così come i regimi forfetari per la tassazione delle attività esercitate con modalità imprenditoriale (art. 80 e 86 CTS), diverranno efficaci a partire dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione da parte della Commissione Europea e, comunque, non prima del periodo di imposta successivo di operatività del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (cfr. art. 104, c. 2, CTS). Conseguentemente, ai sensi dell’art. 102, c. 2, CTS, la normativa Onlus risulterà abrogata con l’entrata in vigore delle disposizioni di cui sopra. Le agevolazioni di cui all’art. 82 CTS e le detrazioni e deduzioni per le erogazioni liberali di cui all’art.83 CTS (e altre misure che non interessano ai nostri fini), sono fruibili da parte degli enti non profit a partire dall’1 gennaio 2018 e, in via transitoria, fino all’attivazione del Registro Unico Nazionale del TS, possono essere applicate grazie all’iscrizione nei registri speciali attualmente vigenti per Onlus, ODV, ed APS, come previsto dall’art. 102 CTS.
  10. ^ È noto, infatti, che la materia dell’imposizione diretta, in generale, rimane di competenza esclusiva degli Stati Membri anche se tale competenza deve essere esercitata nel rispetto dei principi e libertà fondamentali e dunque osservando i principi di non discriminazione e di proporzionalità, rispettando le libertà fondamentali di stabilimento e di libera circolazione, e per quanto qui più interessa, salvaguardando la concorrenza. Dall’adesione degli Stati all’Unione Europea derivano, infatti, una serie di limiti, tra cui il divieto di aiuti di Stato. Quest’ultimo ha come obiettivo la salvaguardia della libera concorrenza, al fine di garantire parità di condizioni agli operatori economici, evitando che taluni di essi possano essere favoriti dalla concessione di aiuti di Stato intesi come “risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. In particolare, l’istituto del divieto di aiuti di stato, sancito dall’art. 107 del T.F.U.E. è stato concepito in vista del mantenimento di un corretto funzionamento del mercato concorrenziale e si colloca in quella che è tradizionalmente la politica portante dell’intervento comunitario: la politica della concorrenza.
  11. ^ Il caso che ha dato origine alla pronuncia riguarda, appunto, i rapporti tra Terzo settore e pubblica amministrazione: una legge regionale dell’Umbria ha regolato le c.d. cooperative di comunità, istituite la fine di contrastare fenomeni di spopolamento, declino economico e degrado sociale urbanistico, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla gestione di beni e servizi collettivi. Tale legge prevede che tali comunità vengano coinvolte nelle attività di co-programmazione e co-progettazione come definite dal CTS (all’art. 55). Ciò ha sollecitato l’intervento del Governo nazionale, che ha ritenuto tale previsione in contrasto con il Codice stesso, il quale riserva detta competenza ai soli ETS registrati a livello nazionale, tra i quali non sarebbero ricomprese le cooperative di comunità. Su questo punto specifico la Corte afferma che la disposizione regionale si dovrà applicare esclusivamente a quelle cooperative di comunità che siano ETS, e come tali iscritte nell’apposito registro, mentre quelle – al contrario – che siano soltanto “cooperative di comunità” e non anche ETS non potranno essere coinvolte con gli stessi strumenti e modalità di cui all’art. 55 CTS. La Corte, tuttavia, utilizza argomentazioni sovrabbondanti rispetto alla questione che è stata chiamata a risolvere, approfondendo e contribuendo a chiarire aspetti fondamentali, al punto che la dottrina la considera una pietra miliare del diritto costituzionale del Terzo settore. Cfr. E. Rossi, op. ult. cit.; L. Gori, op. ult. cit..
  12. ^ Cfr. E. Rossi, opult. cit..
  13. ^ La norma prevede che gli enti non profit (senza alcuna limitazione a specifiche “tipologie” di soggetti, fra quelli disciplinati dal CTS) partecipino alle attività di programmazione (con cui gli enti pubblici individuano i bisogni da soddisfare) e alla conseguente progettazione degli interventi e dei servizi, volti a soddisfare i bisogni individuati. La co-progettazione prelude quindi a forme di partenariato progettuale fra le p.a. e gli enti senza fii di lucro, in tutte le materie di interesse generale in cui essi svolgono la propria attività. L’art. 55, tuttavia, non disciplina puntualmente le procedure di individuazione dei soggetti non profit con cui gli enti pubblici possono creare rapporti di partenariato per la realizzazione di servizi e interventi (fatto salvo un generico richiamo alla possibilità di avvalersi dell’accreditamento) e affida alle pubbliche amministrazioni il compito della previa definizione dei criteri da seguire, purché improntati al rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento. L’esiguità delle disposizioni e, al contempo, l’ampiezza del loro ambito di applicazione, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo, hanno dato adito ad interpretazioni contrapposte circa la loro portata e il loro rapporto con la disciplina europea pro-concorrenziale. Cfr. A. Albanese, I servizi sociali nel codice del terzo settore e nel codice dei contratti pubblici: dal conflitto alla complementarietà, in Munus, 2019, p. 139 e ss.
  14. ^ Dopo l’emanazione del CTS, l’Anac ha chiesto al Consiglio di Stato di pronunciarsi in merito alla compatibilità delle nuove norme che disciplinano la co-programmazione e la co-progettazione con il codice dei contratti pubblici; il parere n. 2052/2018 del Consiglio di Stato ha fornito un’interpretazione molto riduttiva circa la portata dell’art. 55, ritenendo che nella maggioranza delle ipotesi di co-progettazione debba essere applicata la disciplina di derivazione europea.
  15. ^ Per una riflessione approfondita sul regime tributario delineato nella riforma, si veda G. Sepio, Il nuovo diritto tributario del Terzo settore, in La riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale. Una introduzione, a cura di A. Fici, Napoli, 2018; P. Selicato, La soggettività tributaria degli enti non profit (dalle Onlus agli ETS), in Federalismi, 22, 2018, www.federalismi.itFicari V., Prime osservazioni sulla fiscalità degli enti del Terzo settore e delle imprese sociali, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2018; Gianoncelli S., Regime fiscale del Terzo settore e concorso alle pubbliche speseRiv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2017, p. 295 e ss.; Girelli G., Il regime fiscale del Terzo settore, in AA.VV., Il codice del Terzo settore, a cura di M. Gorgoni, Pisa, 2018. Si consenta, inoltre, di rinviare a G. Boletto, Le imprese del terzo settore nel sistema di imposizione dei redditi: tra sussidiarietà orizzontale e concorrenza, Milano, 2020, pubblicato prima della sentenza n. 131 del 26 giugno 2020, della Corte Costituzionale, che, come vedremo, impone riflessioni nuove e “aggiornate”.
  16. ^ Così E. Rossi, op. ult. cit.
  17. ^ Si segnala che alcuni problemi di compatibilità con il regime di imposizione proprio degli ETS non commerciali ha sollevato, in particolare, la nuova misura agevolativa a favore degli enti non commerciali che è stata introdotta dalla Legge di Bilancio 2021, con riferimento alla tassazione degli utili da questi percepiti (art. 1, commi 44-47 della Legge n. 178/2020). Cfr. sull’argomento G. Sepio, F. Giudice, Tassazione degli utili percepiti dagli enti non commerciali: questioni interpretative, in Il Fisco, 11, 2021, p. 1029. Secondo tale norma, a partire dall’esercizio in corso al 1 gennaio 2021, non concorre alla formazione dell’imponibile IRES il 50% degli utili percepiti dagli enti non commerciali, a condizione che gli stessi esercitino in via esclusiva o principale – per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale – attività di interesse generale in specifici settori (comma 45 della Legge di Bilancio) e che il risparmio d’imposta ottenuto sia destinato a finanziare le predette attività, accantonando l’importo non erogato in una riserva indivisibile e non distribuibile per tutta la durata dell’ente. Il fatto che la nuova norma di agevolazione riguardi gli enti non commerciali che svolgono le attività tipiche delle fondazioni di origine bancaria pone problemi di coordinamento con la disciplina degli enti del Terzo settore, che devono svolgere in via esclusiva o principale le attività di interesse generale di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 117/2017, solo in parte sovrapponibili ai settori individuati dalla Legge di Bilancio. A seconda di come la norma viene interpretata, infatti, potrebbe lasciare privi della possibilità di fruire dell’agevolazione importanti ambiti del Terzo settore: basti pensare al sociosanitario, ai servizi sociali, nonché ai servizi legati alle politiche attive del lavoro. La questione è molto interessante, ed interessa soprattutto gli enti non commerciali che gestiscono patrimoni mobiliari e partecipazioni societarie, quali ad esempio gli enti filantropici, che nell’ambito del Terzo settore tipicamente gestiscono patrimoni allo scopo di reperire risorse destinate ad erogare denaro, beni e servizi al sostegno di attività di interesse generale o di persone in condizioni di svantaggio. Mi riservo, tuttavia, di approfondire l’argomento in un prossimo lavoro, in quanto esso non pare centrale rispetto all’indagine sull’impatto della sentenza 131 della Corte Costituzionale nel sistema di imposizione dei redditi previsto per gli ETS nell’ultima riforma.
  18. ^ Questa previsione di deroga rispetto al sistema ordinario di rilevazione dei redditi degli enti sembra porsi in linea, del resto, con i principi e criteri direttivi espressi nella legge delega per la riforma del TS, del 2016, in cui si chiedeva la revisione complessiva della definizione di ente non commerciale ai fini fiscali connessa alle finalità di interesse generale perseguite dall’ente (L. 106/2016, art. 9, c.1. lett. a)).
  19. ^ Cfr. R. Niro, Commentario alla Costituzione, (sub) Art. 41 in Digesto, disponibile in www.leggiditalia.it, la quale riferisce che malgrado autorevoli voci dissenzienti, la dottrina sostiene da tempo che l’art. 41 Cost. rappresenti il fondamento costituzionale della libertà di concorrenza, intesa come libertà conseguente alla libertà di iniziativa economica. La libertà di concorrenza si qualificherebbe come “eguale possibilità” di tutti i privati “di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore” e quindi “di confrontarsi vicendevolmente, sottoponendo al giudizio del mercato la valutazione, e il conseguente successo, delle reciproche iniziative, necessariamente sempre nuove e diverse, in una competizione senza fine”. La consacrazione costituzionale espressa della concorrenza si è poi avuta con l’art. 117, come modificato dalla Legge Cost. n. 3/2001, quale bene o fine o valore costituzionalmente rilevante da perseguire, assegnato, nell’ambito della nuova ripartizione di competenze fra diversi livelli territoriali di governo, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. La Corte Costituzionale, sull’argomento, ha definito la tutela della concorrenza come “una delle leve della politica economica statale” da intendersi non solo “in senso di intervento statico”, “come garanzia di interventi di regolazione”; bensì pure “in senso dinamico”, nel solco del diritto comunitario, per giustificare “misure pubbliche volte a ridurre squilibri”, per favorire “le condizioni di sufficiente sviluppo del mercato” (C. Cost. n. 14/2004).
  20. ^ Cfr. Corte di Giustizia, sez. III, sent. 29 novembre 2007, causa C 119/06, Commissione delle Comunità europee; sent. 17 giugno 1997, causa C-70/95, Sodemare SA e a., nelle quali la Corte del Lussemburgo, pur senza negare l’importanza sociale delle attività di volontariato, constata che “l’assenza di fini di lucro non esclude che siffatte associazioni esercitino un’attività economica e costituiscano impresa ai sensi delle disposizioni del Trattato relative alla concorrenza”. Emblematica al riguardo è poi la sentenza della CGUE 10 gennaio 2006, causa C-222/04, Ministero dell’economia e delle finanze, in cui la Corte è stata chiamata a verificare se una certa misura fiscale agevolativa italiana potesse essere qualificata come aiuto di Stato qualora i beneficiari della stessa fossero state le fondazioni di origine bancaria. La Corte ha osservato preliminarmente che per quanto riguarda l’attività svolta dalle fondazioni nei settori di interesse generale e di utilità sociale occorre distinguere tra il semplice versamento di contributi ad enti senza scopo di lucro e l’attività svolta direttamente in tali settori. La natura di impresa viene esclusa solo nel primo caso in quanto l’attività di versamento di contributi ad enti senza scopo di lucro ha natura esclusivamente sociale e non è svolta su un mercato in concorrenza con altri operatori. Ha poi aggiunto che imporre il perseguimento di uno scopo non lucrativo o di uno socialmente meritevole non costituisce un requisito giuridico sufficiente per poter affermare che gli enti rispettosi di tali finalità non si trovino in una situazione analoga a quella delle altre imprese; con la conseguenza che la misura destinata ai soli enti con i predetti scopi è qualificabile come selettiva e pertanto integra uno dei presupposti di cui all’art. 107, par. 1, TFUE, “favorendo talune imprese o talune produzioni”.
  21. ^ Si ricorda, ad esempio, la pronuncia della Commissione Europea nel 2012 (19 dicembre), nella quale, nel valutare se il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, c.1, lett. i) – in tema di esenzione ICI degli immobili utilizzati da enti non commerciali per fini specifici – concretizzasse una forma di aiuto di Stato in violazione del diritto dell’Unione, la Commissione ha precisato che anche un ente senza fine di lucro può svolgere attività economica, cioè offrire beni o servizi sul mercato. La Commissione ha osservato che anche laddove un’attività abbia finalità sociale questa non è sufficiente ad escluderne la natura di impresa; l’unico criterio rilevante al riguardo è se il soggetto interessato svolga o meno un’attività economica sottolineando che l’applicazione della normativa sugli aiuti di Stato non dipende dal fatto che un soggetto venga costituito per conseguire utili, poiché anche un ente senza fine di lucro può offrire beni o servizi sul mercato. Rientra nella nozione di attività economica – secondo la Commissione UE – qualunque attività organizzata per la prestazione di sevizi a terzi dietro pagamento, da parte dell’utente o di altri (compresi lo Stato, le regioni o altre pubbliche amministrazioni), di un corrispettivo funzionale ed adeguato alla copertura dei costi e alla remunerazione dei fattori della produzione (ivi compresi i capitali investiti). Di converso non è commerciale l’attività di prestazioni di servizi che vengono offerti gratuitamente, ovvero dietro pagamento di corrispettivi o contributi meramente simbolici o comunque radicalmente inferiori ai costi di produzione.
  22. ^ Si ricorda che il Consiglio di Stato, nel parere reso sullo schema del decreto legislativo inerente il Codice del Terzo settore (parere del CdS del 31 maggio 2017, n. 927), aveva messo in evidenza e sottolineato, molto prudentemente, la costanza della giurisprudenza della Corte di Giustizia nell’adozione di una nozione funzionale di impresa, incentrata sullo svolgimento di un’attività economica, anziché sulle caratteristiche dell’operatore professionale. Si ricorda, inoltre, il parere n. 2052/2018 del Consiglio di Stato, sollecitato dall’Anac (Anac, Richiesta di parere in merito alla normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce delle disposizioni del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, modificato dal D.Lgs. 19 aprile 2017, n. 56 e del D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, in www.anticorruzione.it), in merito alla compatibilità delle norme del CTS relative alla co-programmazione e alla co-progettazione (art. 55) con il codice dei contratti pubblici, in cui il Consiglio di Stato adotta una visione univocamente pro-concorrenziale, arrivando a dire che le norme del CTS rivolte a regolare i rapporti tra PP.AA ed enti del Terzo settore dovrebbero essere “rilette” nella prospettiva del Codice dei contratti pubblici e, laddove non sia possibile superare eventuali antinomie, è necessario, da parte del giudice e delle amministrazioni pubbliche, ricorrere all’istituto della disapplicazione del diritto interno in contrasto con il diritto euro-unitario. Tale posizione è stata molto criticata dalla dottrina, per il fatto che il Consiglio di Stato non avrebbe compiuto alcuno sforzo interpretativo per fornire una lettura “non conflittuale” dei due testi normativi. Cfr. AA.VV. Il diritto del terzo settore preso sul serio, in welforum.it; A. Albanese, I servizi sociali nel codice del Terzo settore e nel codice dei contratti pubblici: dal conflitto alla complementarità, cit.; Id., Le convenzioni tra enti pubblici, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale nel Codice del Terzo settore. Il Confronto con il diritto europeo, in Non Profit Paper, 2017, p. 173 e ss.
  23. ^ Come esempi di sentenze in cui la Corte di Giustizia ha ritenuto assente un’attività economica in ragione del suo carattere “esclusivamente sociale”, v. Corte di Giustizia, 17 febbraio 1993, cause C-159 – 160/91, Puocet e Priste, in Racc., 1993, p. I-637 e Corte di Giustizia, 22 gennaio 2002, causa C-218/00, INAIL, in Racc., 2002, p I-691.
  24. ^ Cfr. sul punto G. Marasà, Lucro, mutualità e solidarietà nelle imprese (riflessioni sul pensiero di Giorgio Oppo), in Giur. Comm., 2012, I, 199 e ss.; E. Cusa, Le forme di impresa privata diverse dalle società lucrative tra Aiuti di Stato e Costituzioni economiche europee, Torino, 2013, p. 25 e ss.
  25. ^ Sul punto si rinvia alle ampie considerazioni di E. Cusa, op. ult. cit., il quale, muovendo dal divieto di Aiuti di Stato (art. 107 TFUE), dimostra che vi sono margini (legati appunto alla costruzione di diversi modelli organizzativi delle imprese) affinché gli Stati membri promuovano quei modelli imprenditoriali più efficaci nel conformare l’economia reale ad “economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale” (art. 3, par. 3, TUE).
  26. ^ La governance multistakeholders, prerogativa di tutte le imprese sociali a prescindere dalla forma giuridica assunta, costituisce una modalità efficace (anche più efficace del divieto assoluto di distribuzione degli utili) per impedire comportamenti opportunistici dei proprietari dell’organizzazione. Economisti e sociologi spiegano che essa consente di rafforzare il profilo delle finalità dell’ente: si tratta di una scelta organizzativa capace di riflettersi positivamente sull’attività di interesse generale e sulla sua qualità e, al pari del divieto di distribuzione dell’utile, è in grado di accrescere la fiducia nell’ente che produce o eroga il servizio. Se in passato la legittimazione del Terzo settore era assicurata da valutazioni di ordine valoriale relative alla natura benigna e alle finalità socialmente encomiabili delle organizzazioni senza fine di lucro, con l’aumentare delle dimensioni economiche e occupazionali, l’acquisizione di uno status di organizzazioni strutturate e professionalizzate e l’accresciuto numero di fruitori dei servizi, le organizzazioni non profit sono chiamate a rispondere a nuove richieste in merito all’efficienza e quindi ad un uso più razionale delle risorse, da un lato, e alla qualità dei servizi nel rispetto dei diritti degli utenti, dall’altro. L’ambiente esterno non sembra più dare per scontata l’intrinseca bontà delle esperienze di solidarietà organizzata e richiede adeguamenti espliciti e pressioni verso una più elevata qualificazione dei servizi e una maggiore trasparenza e apertura nei confronti dei portatori di interessi. Ecco che nel D.lgs. 112/2017 si trova una disciplina più precisa in ordine alle modalità di coinvolgimento nella governance dell’impresa dei principali stakeholdersquello che nell’ambito del D.Lgs. 155/2006 era formulato come semplice monito (che infatti è risultato largamente disatteso), diviene nell’ambito del D.Lgs. 112/2017 un vero e proprio obbligo e, in questo senso, l’art. 11, c. 2, specifica come l’impresa sociale debba coinvolgere lavoratori e clienti/beneficiari dei servizi mediante meccanismi di consultazione e di partecipazione che consentano di esercitare un’influenza sulle decisioni dell’impresa socialecon particolare riferimento alle questioni che incidano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni o dei servizi.
  27. ^ Il fatto che il modello organizzativo adottato da un’impresa privata, a prescindere dalla sua forma giuridica, possa assumere rilievo centrale ai fini del giudizio di comparabilità tra imprese, e, di conseguenza, al fine di stabilire se una misura di favore si presenti o meno selettiva, è sottolineato nella sentenza della Corte di Giustizia, 8 settembre 2011 (cause C-78-80/08), Paint Graphos e a., in Racc., 2011, p. I-7611, commentata ampiamente da E. Cusa, op. ult. cit., a cui si rinvia.
  28. ^ Cfr. L. Gori, La “saga” della sussidiarietà orizzontale. La tortuosa vicenda dei rapporti tra Terzo settore e P.A., in www.federalismi.it, 14, 2020.
  29. ^ Per la dottrina di diritto tributario, cfr. A. Giovannini, Enti del Terzo settore: linee sistematiche di riforma, in Rass. Trib., 2009, p. 137, il quale, de jure condendo, aveva auspicato un regime di imposizione dei redditi per gli enti non profit incentrato sulle finalità di essi, non sulle attività esercitate, e, di conseguenza, aveva visto nel superamento della distinzione enti commerciali/enti non commerciali, il punto di partenza per una riforma tributaria organica del Terzo settore, capace di valorizzare la mission degli enti del Terzo settore e di “premiare” la funzione sociale ad essi riconducibile.
  30. ^ Cfr. il documento AA.VV., Il diritto del Terzo settore preso sul serio, https://www.euricse.eu/wp-content/uploads/2019/02/Il-diritto-del-Terzo-Settore-preso-sul serio-Club55.pdf
  31. ^ Già a livello teorico i rapporti tra concorrenza e sussidiarietà orizzontale si presentano molto complessi, in quanto i due principi alludono a regole di rapporti economici differenti. Da un lato, la sussidiarietà rimanda a relazioni che si fondano su un’attività svolta da privati ma condivisa anche dalle autorità pubbliche, le quali diventano parte delle relazioni economiche dispensando vantaggi utili al conseguimento di interessi generali che le imprese preservano: l’amministrazione, quindi, provvede a favore di determinati soggetti per conseguire interessi generali. Dall’altro lato, la concorrenza pretende il ritiro dei pubblici poteri dalle relazioni economiche; essa prefigura una relazione competitiva volta a conseguire un’utilità esclusiva per uno dei contendenti (l’affidamento di un mercato, il contratto con un utente, l’acquisto di un bene ecc.), in cui le autorità pubbliche sono terze rispetto al gioco degli operatori privati di mercato e da una posizione di neutralità regolano il mercato in modo oggettivo ripristinando le condizioni che favoriscono la concorrenza. Si veda sull’argomento, D. Donati, A. Paci, Sussidiarietà e concorrenza, Bologna, 2010.
  32. ^ La nozione “solidaristica” dell’imposta si deve alla c.d. “scuola di Pavia”, ed in particolare a Benvenuto Griziotti. Evidenzia G. Falsitta, in Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario, in Rass. Trib., 2000, 2, 353, come con Griziotti si sia definitivamente abbandonato il concetto della funzione commutativa dell’imposta e come quest’ultima si configuri come quota gravante su ogni individuo per far esistere e sopravvivere lo Stato, ossia per assicurare la vita dell’ente preposto al raggiungimento del bene comune. Quindi l’imposta come sacrificio economico individuale cui i membri della collettività sono tenuti per il fatto di appartenervi economicamente, socialmente e politicamente.
  33. ^ F. Moschetti, Capacità contributiva, in Enc. Giur., Roma, vol. V, 1988; F. Moschetti, Profili generali, in AA. VV., La capacità contributiva, Padova, 1993; F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973.
  34. ^ Cfr. L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, p. 158 e ss.
  35. ^ Il legame tra personalismo, fraternità e solidarietà che sfocia nel sistema di welfare, e dunque il legame tra gli artt. 2 e 3 Cost., è approfondito, fra gli altri, da F. Pizzolato, Il minimo vitale, Milano. 2004, p. 9 e ss.
  36. ^ Cfr. G. Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1995, p. 24. Si veda inoltre L. Antonini, op. ult. cit., p.182, il quale precisa che il passaggio dalla categorizzazione in termini di soggezione a quella in termini di solidarietà non solo rafforza il momento personalistico che caratterizza l’art. 2 Cost., ma segna anche il superamento della logica utilitaristica che nel modello liberale presiedeva la ratio giustificativa dell’imposizione di carichi pubblici.
  37. ^ Cfr. C. Buzzacchi, Dalla coesione all’uguaglianza sostanziale, Milano, 2005, p. 111.
  38. ^ Il sistema di imposizione diretta adottato dopo l’Unità di Italia e rimasto operante (nella compiuta configurazione datane in occasione e per effetto dell’emanazione del T.U. delle imposte dirette di cui al D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645), sino alla riforma tributaria dei primi anni ‘70, presenta un profilo strutturale a matrice fondamentalmente reale-cedolare: il reddito imponibile risulta individuato in ragione della sua fonte di origine (cespite e/o attività), venendo poi commisurato alla stregua delle regole di determinazione della propria categoria di appartenenza. Cfr. per un’indagine storico ricostruttiva, Laterza, Sciacca, I precedenti storici dell’imposta di ricchezza mobile nella legislazione piemontese, in Riv. Dir. Fin., 1967, I, p. 118 e ss; G. Marongiu, Alle radici dell’ordinamento tributario, Padova, 1988. Con specifico riferimento all’imposta di ricchezza mobile rimane fondamentale il contributo di O. Quarta, Commento alla legge sull’imposta di ricchezza mobile, Milano, 1902.
  39. ^ È da tempo comunemente ammesso l’utilizzo extrafiscale dell’imposta. Merito indiscusso della scuola napoletana di diritto finanziario (F. Fichera, Imposizione ed extrafiscalità nel sistema costituzionale, Napoli, 1973; A. Amatucci, L’ordinamento giuridico finanziario, sesta edizione, Napoli, 1999; R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Milano, 2001, p. 121) è di aver chiarito che non solo i tributi sono in grado di mirare a fini extrafiscali, nonostante perseguano in determinati casi uno scopo fondamentalmente fiscale, ma che è anche compito dello Stato tener conto della loro incidenza nella redistribuzione della ricchezza e nell’uguaglianza di fatto. Lo Stato deve dunque intervenire al fine di garantire l’uguaglianza di fatto ed evitare che l’attività dei singoli possa incidere negativamente sugli interessi collettivi (ai sensi dell’art. 3, c.2 e 41, c.3 della Cost.). Perciò i tradizionali principi di capacità contributiva, di riserva di legge concorrono ormai con altri principi costituzionali di profondo contenuto sociale e politico, che esigono un’analisi di ampia prospettiva che comprenda il complesso dei principi e non si limiti agli aspetti della tecnica legislativa o alle entrate dello Stato.
  40. ^ Malgrado siano molte le teorie formulate nel corso del tempo dalla dottrina tributaria sulle norme di agevolazione tributaria, si può dire che tutte (o quasi) si trovano d’accordo nell’individuare il discrimine tra esenzioni (o agevolazioni in senso stretto) ed esclusioni nella riconducibilità delle seconde alla stessa struttura del tributo considerato: le disposizioni di esclusione condurrebbero cioè a definire l’ambito applicativo del tributo, delineandone con maggior precisione il presupposto e la base imponibile e concorrendo quindi all’identificazione del fatto, della situazione e dei soggetti sottoposti a imposizione. Le esenzioni (o agevolazioni in senso stretto), al contrario introdurrebbero delle deroghe alle regole disegnate, in ordine al presupposto del tributo, delle norme impositrici e da quelle di esclusione, esonerando da contribuzione fattispecie che altrimenti rientrerebbero a pieno titolo nella sfera di applicazione del tributo. Cfr. Basilavecchia M, Agevolazioni ed esenzioni (diritto tributario), in Enc. Dir., Agg., V, Milano, 2001.
  41. ^ Per una rigorosa impostazione in questo senso, S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, vol. I, Padova, 1994, secondo il quale può parlarsi in senso proprio di agevolazioni solo quando l’agevolazione fiscale è perfettamente fungibile con una sovvenzione in denaro. Sulla teoria delle spese fiscali (tax expenditures) v. anche F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992. Cfr., per un’analisi completa del fenomeno agevolativo, M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni (diritto tributario), in Enc. Dir., Agg., V, Milano, 2001, p. 48. L’agevolazione fiscale è uno strumento di incentivazione pubblica dell’attività dei privati al pari della sovvenzione in denaro; v. M. S. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1989, p. 226, D. Sorace, Il governo dell’economia, in G. Amato, A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, 1986, p. 805. Da un punto di vista economico l’agevolazione fiscale e la sovvenzione hanno la stessa funzione: per il beneficiato è pur sempre un accrescimento di ricchezza senza obblighi di corrispettivo, mentre per lo Stato si tratta comunque di una prestazione che non ha controprestazioni di mercato, essendo direttamente unicamente a provocare determinate reazioni nel settore de dell’attività privata. Tra le due forme di incentivazione vi sono tuttavia rilevanti diversità; anzitutto la sovvenzione manifesta l’intervento attivo dello Stato che così incoraggia la crescita dell’iniziativa privata (e nel contempo ne regolamenta modi e finalità). Con le agevolazioni fiscali, viceversa, lo Stato piuttosto che intervenire positivamente si ritrae, rinunziando all’imposizione del tributo per assicurare il libero svolgimento dell’iniziativa privata, la quale deve, peraltro, autofinanziarsi ed essere economicamente autonoma, in quanto lo Stato non si impegna ad assicurarne la vitalità. Cfr. sul punto, F. Rigano, La libertà assistita, Associazionismo privato e sostegno pubblico nel sistema costituzionale, Padova, 1995, p. 188 e ss.
  42. ^ Ripercorre minuziosamente tutta la normativa di agevolazione rivolta al mondo non profit prima dell’ultima riforma S. Boffano, Disciplina fiscale e finalità degli enti del Terzo settore, in La fiscalità del Terzo Settore, a cura di G. Zizzo, Milano, 2011.
  43. ^ Alle leggi di agevolazioni in senso stretto (o esenzioni) sono senz’altro riconducibili, quindi, tutte le leggi speciali che si sono succedute nel tempo fino alla recente riforma del Terzo settore, senza un preciso disegno sistematico, in modo frammentario e settoriale, spesso creando nuove figure soggettive che si sono andate a sovrapporre a quelle di origine codicistica, talvolta solo al fine di regolare il profilo fiscale dei soggetti del Terzo settore: si pensi, solo per citarne alcune, alla legge n. 266 del 1991 sulle organizzazioni di volontariato, alla legge n. 398/91 sulle cooperative sociali, alle ONLUS (D. Lgs. n. 460/1997). Si tratta di interventi legislativi molto eterogenei fra loro, in cui il trattamento tributario di vantaggio si è tradotto ora nella non imponibilità dei redditi derivanti dalle attività commerciali marginali, ora nella previsione di de-commercializzazione ex-lege dell’attività principale dell’ente quando esso avesse come obiettivo un fine socialmente utile ecc. La disorganicità e frammentarietà di tali interventi dipendeva principalmente dal fatto che vi era assoluta incertezza in ordine ai connotati ontologici, intrinseci e indefettibili da assegnare alla categoria soggettiva “ente del terzo settore”.
  44. ^ Ricordo che con il termine esclusione si intende, ormai unanimemente, una delimitazione del presupposto di imposta operata con disposizioni aventi efficacia propria che non hanno funzione agevolativa. Cfr. S. La Rosa, Esclusioni tributarie, in Enc. Giur., XIII, 1989.
  45. ^ Da tempo la dottrina ammette forme di contribuzione diretta alla spesa pubblica, muovendo anche dall’esame di alcuni istituti come il 5 per mille. Cfr., su tuttiL. Antonini, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, 2005. Nel commentare la riforma del Terzo settore, valorizzano l’aspetto della contribuzione diretta alla spesa pubblica anche S. Gianoncelli, op. ult. cit; V. Ficari, op. ult. cit.
  46. ^ Cfr. P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 1998.
  47. ^ Si tratterebbe, ci pare, di una valutazione analoga a quella che riguarda il c.d. minimo vitale: è noto che la dottrina ha enucleato dal principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. il principio della esclusione da imposizione del c.d. minimo vitale, argomentando che la quantità di ricchezza necessaria al sostentamento proprio e della propria famiglia non è idonea a manifestare attitudine alla contribuzione. Detto altrimenti, la capacità contributiva non si connette all’esistenza di una qualsiasi forza economica, giacché l’attitudine a concorrere alle spese pubbliche si ha soltanto in presenza di risorse che eccedano quelle indispensabili a sopperire alle esigenze essenziali del soggetto, individuate, appunto, come minimo vitale. Cfr. Giardina, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961, p. 431 e ss. Allo stesso modo, ma da un punto di vista “qualitativo” e non “quantitativo”, si potrebbe dire che la ricchezza destinata direttamente all’interesse generale non può manifestare ulteriore idoneità a concorrere a quell’interesse.
  48. ^ Sul punto v. G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007, spec. 11; L. Salvini (a cura di), Aiuti di Stato in materia fiscale, Padova, 2007, p. 55 e ss.
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