La sentenza n.131 del 2020 della Corte Costituzionale[1] sembra apportare nuovi ed importanti spunti alla riflessione (anche) intorno al trattamento tributario previsto per gli enti del Terzo settore (ETS) nell’ultima riforma, avvenuta tra il 2016 e il 2017.[2]
Tale riforma, come ricorda la Corte, ha avuto il pregio di disegnare con chiarezza i confini di quel “privato sociale” che, presentando determinati caratteri identitari, può beneficiare di misure di favor in una logica di sussidiarietà orizzontale (art. 118 u.c., Cost.).[3] La Corte, di conseguenza, esclude che il legislatore ordinario possa omologare altri privati non profit agli ETS al fine di estendere loro la disciplina riservata agli ETS: questi ultimi sono specificamente identificati nel codice del Terzo settore (CTS) in un insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici (art. 4), rivolti a “perseguire il bene comune” (art. 1), a svolgere “attività di interesse generale” (art. 5), senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), sottoposti a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (artt. da 90 a 97).[4] Così come tassativamente elencati, gli ETS sono gli unici soggetti legittimati a fruire della normativa contenuta nel CTS.
Nella determinazione del perimetro soggettivo del Terzo settore (TS), è dato rilievo alle caratteristiche ontologiche, intrinseche ed indefettibili degli enti privati che si occupano del bene comune, mentre non assume alcun rilievo la forma giuridica di essi così come la modalità di gestione dell’attività, modalità che, infatti, sono messe su uno stesso piano laddove si dice che le attività di interesse generale possono essere esercitate “mediante forme di azione volontarie o gratuite o di mutualità o di produzione e di scambio di beni e servizi” (art. 4 CTS).[5]
Con la riforma si prende atto, dunque, che le relazioni di sussidiarietà orizzontale possono avere come protagoniste le imprese oltre che i cittadini[6] e di conseguenza le istituzioni devono favorire le attività di interesse generale anche quando promotori di queste iniziative sono le imprese anziché i cittadini.[7]
Tra le misure di sostegno pubblico al TS, la riforma prevede trattamenti di “vantaggio” per ciò che concerne l’imposizione dei redditi delle imprese.
Il legislatore della riforma “agevola” l’impresa del TS, anche se non prende in considerazione l’impresa del TS in quanto tale, intesa come entità privata che svolge attività di interesse generale in via esclusiva o principale nelle forme di produzione e scambio di beni e servizi, non lucrativa e sottoposta ad un rigido sistema di controlli; le agevolazioni previste nella riforma riguardano, viceversa, solo l’impresa del TS che, presentando un modello organizzativo particolare, integra la qualifica di impresa sociale (ai sensi del D.Lgs. 112 del 2017, su cui si veda infra), e anche l’impresa che, nel medio lungo periodo, sia tendenzialmente programmata al pareggio di bilancio (rientri cioè nella nozione di ETS imprenditore non commerciale ai sensi dell’art. art. 79 CTS, su cui si veda infra).
L’impresa del TS che, viceversa, pur esercitando in via esclusiva o principale attività di interesse generale, produce utili (cioè rientra tra gli ETS imprenditori commerciali ai sensi dell’art. 79 CTS), non gode di alcun vantaggio per ciò che concerne l’imposizione dei redditi ancorché sia obbligata a reinvestire tali utili nelle attività di interesse generale. L’impresa del TS, in quest’ultimo caso, è assimilata, quanto al trattamento tributario, ad un’impresa profit.
Data l’articolazione dei soggetti ammessi a fruire delle disposizioni di carattere agevolativo e promozionale, è sorta la necessità di verificare se essi integrino aiuti di Stato incompatibili con l’art. 107 TFUE. Tale articolo è costruito, infatti, in modo che vi sia una presunzione relativa di antigiuridicità di quei provvedimenti di favor rivolti solo a talune imprese, e ciò induce gli Stati membri a richiedere alla Commissione Europea una valutazione preventiva sui loro provvedimenti astrattamente (o apparentemente) sussumibili nella fattispecie di aiuto di Stato.[8]
È previsto, infatti, all’art. 101, comma 10, del CTS che l’efficacia dei trattamenti tributari di favore previsti per le imprese del Terzo settore sia subordinata al parere della Commissione Europea[9] (che ancora non è stata sollecitata a pronunciarsi), la quale dovrà stabilire, appunto, se essi rappresentino o meno aiuti di Stato (ai sensi dell’art. 107 TFUE).[10]
È facile cogliere lo sfondo giuridico-culturale su cui poggia la riforma, perlomeno nella parte tributaria: l’impresa, anche quando è soggetto sussidiario dell’ente pubblico, attore dell’interesse generale, impegnata esclusivamente o principalmente nell’esercizio di attività di interesse generale per soli scopi di bene comune, è comunque un operatore economico che rivolge la sua attività al mercato e come tale è soggetta alla disciplina della concorrenza. Di conseguenza, quelle misure di favor che le sarebbero dovute in ragione del principio di sussidiarietà orizzontale, devono necessariamente “fare i conti” con il diritto euro-unitario e, in particolare, con il divieto di aiuti di Stato (art. 107 TFUE).
Proprio sul punto, appaiono interessanti le considerazioni che la Corte Costituzionale fa nella sentenza n.131 del 2020: essa, infatti, pur occupandosi nello specifico della disciplina relativa ai rapporti tra ETS e P.A., ed in particolare della norma cardine di tali rapporti, ossia l’art. 55 CTS,[11] coglie l’occasione per una riflessione generale e “di sistema” sulla riforma del Terzo settore.
In particolare, ed in estrema sintesi, la Corte Costituzionale muove dalla considerazione che gli ETS sono riconducibili ad un ambito di organizzazione delle “libertà sociali” non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle forme di solidarietà che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente”. La Corte chiarisce, in sostanza, che nel perimetro del Terzo settore l’agire dei privati per scopi di interesse generale invera il principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), principio fondante la nostra Repubblica.
Il Terzo settore è quindi ritenuto dalla Corte Costituzionale una categoria costituzionale a sé stante, dotata di un proprio statuto che è dato dal sistema offerto dal principio personalista, pluralista e da quello di solidarietà,[12] e che la distingue sia dai soggetti operanti con una logica di mercato, sia dalle amministrazioni pubbliche (Stato).
La Corte prende poi in esame, nello specifico, l’art. 55 CTS, che regola i rapporti ETS/P.A.:[13] si tratta, come noto, di una norma che disciplina i modi di coinvolgimento degli enti non lucrativi nell’attività degli enti pubblici, e che delinea un vero e proprio metodo collaborativo fra tali soggetti, lontano dalle modalità di selezione competitiva proprie del codice dei contratti pubblici. Tale norma, di conseguenza, ha dato adito fin dalla sua introduzione ad interpretazioni contrapposte circa il suo rapporto con la disciplina europea pro-concorrenziale sui contratti pubblici ed in particolare il Consiglio di Stato (pronunciatosi nel 2018 su richiesta dell’Anac) ha sottolineato il ruolo di primazia del diritto euro-unitario e la necessità della piena applicazione delle procedure previste dal codice dei contratti pubblici per la selezione degli ETS destinati a divenire partner della P.A. attraverso la co-programmazione.[14]
Nella sentenza in commento la Corte, tuttavia, fornisce una chiave di lettura dell’art. 55 CTS coerente con i principi e valori costituzionali che ispirano l’azione dei privati al conseguimento del bene comune (art. 2 e 118, u.c., Cost.), sottolineando che tale norma crea un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato, e rappresenta una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art.118, quarto comma, Cost..
Sarebbe, in altri termini, il particolare valore costituzionale riconosciuto agli ETS rispetto alle altre formazioni sociali, a giustificare soluzioni legislative differenziate nei loro confronti, purché risulti assicurata la parità di trattamento per tutti gli enti che rientrano all’interno della categoria Terzo settore.
La Corte Costituzionale chiarisce, inoltre, i rapporti tra diritto del Terzo settore e diritto dell’Unione Europea: sebbene con specifico riferimento ai rapporti fra pubblica amministrazione e Terzo settore, afferma che vi è una tendenza, nella recente normativa e giurisprudenza euro-unitaria in tema di servizi pubblici, a smorzare la dicotomia conflittuale fra i valori della concorrenza e quelli della solidarietà e che è possibile per ciascuno Stato, “apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)”.
Le considerazioni della Consulta impongono, ci pare, di tornare a riflettere sul regime tributario che il legislatore della riforma ha previsto per le imprese del Terzo settore.[15] La Corte sembra, invero, suggerire una diversa prospettiva da cui muovere per ripensare il regime tributario del TS: in un contesto in cui gli enti privati operano senza scopo di lucro e hanno caratteri distintivi costituzionalmente rilevanti in quanto capaci di inverare il principio di solidarietà sociale, essi non possono essere considerati imprese alla stregua degli altri operatori economici ed in ragione di parametri oggettivi (come l’economicità o non economicità della gestione), ma sarebbe forse più opportuno pensare ad un regime tributario proprio del settore, capace di valorizzare, da un lato, il particolare “ambito” in cui gli ETS si trovano ad operare (ambito evidentemente non sovrapponibile a quello in cui opera la disciplina della concorrenza), dall’altro lato, il particolare “valore costituzionale aggiunto”[16] che mostrano gli ETS rispetto alle altre formazioni sociali.
Il regime tributario delineato dal legislatore delegato per le imprese del Terzo settore risulta, a grandi linee, così articolato:
Più precisamente, per gli ETS imprenditori non commerciali, viene previsto un regime di favor nel caso in cui i ricavi “superino” i costi per non più del 5% e per non più di due anni consecutivi. Il favor consiste, in questo caso, nel fatto che l’ente non perde la qualifica di non commercialità, e, di conseguenza, da un alto, i proventi dell’attività istituzionale rimangono non imponibili, dall’altro lato, non vengono attratti nella sfera dell’attività commerciale i risultati derivanti dall’esercizio di altre attività.[18]
Per gli ETS imprenditori non commerciali, inoltre, è previsto un regime forfetario per la determinazione del reddito di impresa prodotto con l’esercizio di attività secondarie (art. 80 CTS).
Con riguardo, invece, al regime di favor previsto all’art. 18 del D.lgs. 112/2017 per le imprese sociali, la relazione illustrativa al decreto precisa che il fatto che l’impresa sociale sia tenuta a destinare i propri utili o avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio – con possibilità di distribuirli ai soci nei soli limiti previsti dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto –, giustifica, da un punto di vista strutturale, la detassazione degli utili o avanzi di gestione che vengano effettivamente destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio.
Per gli ETS imprenditori commerciali, viceversa, per i quali vige il medesimo divieto di lucro soggettivo ed il medesimo vincolo di destinazione degli utili o avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria, tale detassazione non viene prevista.
La frammentazione dei regimi di imposizione dei redditi previsti per le imprese del TS risponde ad esigenze di tutela del mercato e della concorrenza: in particolare, la distinzione tra ETS commerciali e non commerciali (di cui all’art. 79 CTS) sembra giustificata dalla necessità di delineare con chiarezza l’ambito soggettivo di applicabilità del diritto della concorrenza, che, come noto, riguarda tutti quegli enti che si rendono offerenti di beni o servizi per i quali sia configurabile l’esistenza, anche solo potenziale, di un mercato, e che gestiscono l’attività con metodo economico assumendosi il rischio d’impresa, ossia operino sul mercato in modo da ottenere ricavi tali almeno da coprire i costi della propria attività.
La posizione schiettamente pro-concorrenziale assunta dal legislatore della riforma, risulta, peraltro, giustificata e ben radicata nella Costituzione,[19] e sostenuta nei numerosi arresti della Corte di Giustizia europea,[20] nelle pronunce della Commissione Europea,[21] nei pareri del Consiglio di Stato,[22] dai quali è emerso costantemente che nel bilanciamento tra concorrenza e solidarietà lo scopo dell’ente così come il divieto di lucro soggettivo non hanno alcun peso, rilevando invece le sole modalità di esercizio dell’attività. Di conseguenza, non è possibile legittimare per i servizi c.d. sociali una “esenzione” dall’operatività delle regole di concorrenza in ragione della specifica finalità solidaristica.
Tali arresti, muovendo dall’assimilazione degli ETS agli enti profit sulla base di una concezione “naturalistica” dell’impresa, hanno contribuito a disegnare un sistema delle fonti in cui la disciplina relativa alla tutela della concorrenza risulta inequivocabilmente sovra-ordinata rispetto al diritto interno anche con riferimento a quei soggetti che agiscono solo ed esclusivamente per scopi di interesse generale.
Le disposizioni agevolative che riguardano l’imposizione dei redditi dell’impresa del TS (art. 79, comma 2-bis, CTS e l’art. 18, D.Lgs. 112/2017) si inseriscono, appunto, in questo contesto di primato assoluto della tutela della concorrenza: esse, d’altra parte, non paio sussumibili nelle fattispecie di aiuti di Stato, vietate dall’art. 107 TFUE, in quanto rispettose dei parametri che la CGUE ha nel tempo individuato al fine di escludere la natura di aiuto di Stato di provvedimenti agevolativi.
In particolare, la previsione di non imponibilità dei redditi prodotti dagli ETS prevista all’art. 79, c. 2-bis, CTS, non integrerebbe i requisiti di un aiuto di Stato vietato dall’art. 107 TFUE, considerando che essa si riferisce ad un ente tendenzialmente programmato al pareggio di bilancio, che produce uno minimo “surplus” dei ricavi sui costi (5%), per non più di due anni consecutivi. Si ricorda, a tal proposito, che al fine di poter sussumere un ente nella fattispecie di cui all’art. 107 TFUE, esso deve esercitare uno o più attività (anche per finalità non lucrative) astrattamente idonee a generare reddito, cioè (usando la terminologia dei giudici comunitari) non aventi una funzione esclusivamente sociale,[23] e pertanto qualificabili come economiche sulla base del diritto UE. Sulla base di tale precisazione si ritiene che vi sia impresa secondo il diritto UE, quando l’ente abbia organizzato la relativa attività nel rispetto del criterio di economicità, così come elaborato dalla dottrina giuscommercialistica per qualificare come economica l’attività integrativa della nozione civilistica di imprenditore; tale criterio è ormai ritenuto osservato quando l’impresa, valutata oggettivamente, sia in grado di generare sistematicamente un risultato economico positivo in una prospettiva temporale di medio periodo.[24].
La previsione di detassazione degli utili delle imprese sociali (art. 18 D.Lgs. 112/2017), viceversa, appare più strettamente legata e giustificata dalla peculiare struttura organizzativa (fra cui si ricorda la c.d. governance multistakeholders ed i vincoli statutari previsti per gli enti così qualificati), cioè da elementi che consentono di garantire che l’ente sia in grado, da un lato, di raggiungere la migliore qualità ed efficienza del servizio, e, dall’altro lato, di “presidiare” l’effettivo perseguimento di finalità di interesse generale.[25] Si tratta, a ben vedere, di un modello organizzativo che delinea una forma di impresa privata diversa dalle altre società lucrative, e capace di inverare il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, inteso nel senso che, nella produzione di beni e servizi, il potere pubblico non deve fare ciò che possono fare meglio i privati.[26] In questi termini, data cioè la non comparabilità tra impresa sociale e altre forme private di impresa, l’agevolazione non risulterebbe selettiva e quindi il regime di favor non sarebbe sussumibile all’interno della fattispecie di cui all’art. 107 TFUE.[27]
Il sistema di imposizione dei redditi delineato nella riforma del TS risulta, dunque, da un lato, in linea con il primato assoluto riconosciuto alla tutela della concorrenza, dall’altro lato idoneo a non integrare fattispecie di aiuti di Stato, vietate ai sensi dell’art. 107 TFUE.
È certamente vero, tuttavia, che in nome della concorrenza si sia finito per determinare una “svalutazione” complessiva della posizione degli enti del Terzo settore all’interno dell’ordinamento:[28] il legislatore ordinario, infatti, ha qualificato una serie di soggetti, in possesso di determinate caratteristiche, che, secondo quanto ci ricorda la Corte Costituzionale, contribuiscono all’attuazione dei principi fondamentali della costituzione, ma ciò che viene posto in rilievo è piuttosto la dimensione oggettiva (l’attività svolta ed il suo carattere, economico o non economico), ed è quest’ultima che determina la disciplina applicabile, anziché il profilo soggettivo (chi sono gli enti che svolgono tale attività, per quale fine e sotto quale regime).[29]
Di conseguenza, è stato auspicato da più parti[30] che venisse trovato un nuovo punto di equilibrio tra solidarietà e tutela della concorrenza,[31] capace di valorizzare il sostrato costituzionale in cui si innesta il Terzo settore.
In questo quadro generale si colloca la sentenza n. 131 del 26 giugno del 2020 della Corte Costituzionale, che appare rivoluzionaria e chiarificatrice allo stesso tempo, e che ci consente di tornare a riflettere sulla coerenza sistematica e ragionevolezza (art. 3 Cost.) del sistema di imposizione dei redditi delineato nella riforma, in quanto, per quanto mette in luce la Consulta, sembra discriminare tra soggetti che hanno il medesimo “valore costituzionale” (e che operano in uno stesso mercato di “solidarietà”), dal momento che prevede vantaggi fiscali solo a favore delle imprese sociali in senso stretto e, nei limiti descritti, degli ETS imprenditori non commerciali.
La riflessione intorno al trattamento tributario previsto per le imprese del TS nell’ultima riforma consente, più in generale, di ripensare al ruolo della funzione tributaria dinanzi agli ETS, che sono riconosciuti dall’ordinamento come strumento dell’interesse generale in quanto, fondamentalmente, oltre ad essere impegnati in attività di interesse generale, utilizzano la ricchezza prodotta non per arricchirsi, ma per scopi di interesse pubblico, di bene comune.
È noto che la funzione tributaria realizza il riparto dei carichi pubblici tra i consociati in un quadro, più generale, di dovere di solidarietà economica[32] (art. 2 Cost.).
Il dovere di concorso ai carichi pubblici (di cui all’art. 53 Cost.), in altri termini, viene annoverato tra i doveri inderogabili di cui all’art. 2 Cost.:[33] l’adempimento del debito tributario si traduce nell’adempimento del debito di solidarietà politica, economica e sociale che è condizione necessaria ed irrinunciabile al fine del pieno sviluppo della personalità di tutti i consociati.
Vi è dunque una giustificazione “comunitaria” del dovere tributario[34] che si fonda sul legame che la Costituzione italiana presuppone esistere tra persona e comunità, cosicché il tratto rilevante di tale dovere è da rintracciare nel concetto e nel momento del “riparto”, ovvero nell’esigenza di una distribuzione tra tutti gli appartenenti alla collettività degli oneri che discendono dall’interesse comune. La portata sostanziale di novità della Costituzione del 1948 è stata individuata proprio nelle “potenzialità interpretative degli artt. 2 e 3”[35] nei quali è dato rinvenire il senso di quella finalizzazione dei diritti allo sviluppo relazionale e solidale della persona che è chiaramente ricostruibile dalla volontà e dalla cultura dei padri costituenti.
La Costituzione presuppone un legame tra persona e comunità idoneo ad esplicarsi in doveri di solidarietà, nei quali il concetto di dovere non discende più dall’idea dell’autorità statale, ma, al contrario, dal vincolo comunitario.
Ecco che, letto in questo contesto, il dovere di contribuire alla spesa pubblica di cui all’art. 53 Cost. segna il superamento della costruzione del concetto di tributo in chiave “coercitiva” e “coattiva”, per fondarlo in chiave solidaristica,[36] perché “contribuire” significa addossarsi una parte delle spese di qualcuno, e tale dovrebbe essere il fondamento di un sistema relazionale il cui ulteriore riferimento è evidentemente l’art. 2 Cost., e dunque i doveri di solidarietà ivi richiesti.
Il principio di capacità contributiva, tuttavia, non esprime un fine sociale da perseguire, ma solo il modo attraverso cui perseguire il fine sociale generico del finanziamento delle pubbliche spese.
L’art. 53 Cost. è allora strumento privilegiato dell’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale: è però mero “criterio” e non principio, ovvero metodo di intervento e non valore da perseguire. Il valore da coronare rimane quello della “solidarietà”, a sua volta strumentale, in un sistema relazionale, a consentire a ciascuna persona di realizzare il proprio piano di vita.[37]
È un dato di fatto che l’equo riparto dei carichi pubblici si raggiunga nel nostro ordinamento tributario attraverso un sistema di rilevazione e imposizione del reddito che non attribuisce alcun rilievo allo scopo dell’ente e dei suoi partecipanti. Si tratta infatti di un sistema che conserva una matrice reale, ereditata dal sistema pre-vigente,[38] in cui cioè una ricchezza è assoggettata a tassazione se e nella misura in cui, considerata nella sua oggettività, manifesti connotati reddituali, e cioè rappresenti l’incremento di valore di un patrimonio preesistente registratosi in un arco di tempo predeterminato e riconducibile, in termini genetici, ad una delle fonti (cespiti o attività) così come individuate dalla legge, nessuna rilevanza spiegando, a questo proposito, la sua successiva destinazione funzionale.
Indipendentemente dallo scopo o dal fine perseguito, quindi, l’ente privato societario o non societario è soggetto passivo di imposta ed i relativi redditi sono assoggettati ad imposizione, in ogni caso con aliquota ordinaria IRES, per il solo fatto della loro produzione, indipendentemente cioè dalla loro destinazione, che è una fase distinta e successiva, ed a prescindere dalla natura della finalità (lucrativa o no) del soggetto che lo produce. Per come è strutturato il sistema di imposizione dei redditi, dunque, enti for profit ed enti not for profit assumono la medesima posizione di fronte al fisco.
Accanto alla funzione di equo riparto dei carichi pubblici, tuttavia, il sistema tributario può assumere una funzione extrafiscale, di promozione ed incentivo di particolari settori o ambiti:[39] uno dei modi per ottenere questo obiettivo è quello di introdurre una normativa di deroga al sistema impositivo ordinario in modo da valorizzare aspetti extrafiscali che, andando ad assumere rilevanza nella normativa tributaria vera e propria, condizionano sotto il profilo sostanziale e/o procedimentale l’applicazione del tributo stesso.
In questo modo vengono costruite le agevolazioni in senso proprio (o esenzioni),[40] quelle disposizioni, cioè, che introducono nei confronti di taluni soggetti o attività, una forma di riduzione del prelievo non coerente con i principi ispiratori (ratio) del tributo cui afferisce. La norma di agevolazione, in un’ottica di finanza pubblica, realizza un trattamento tributario sottrattivo che ha lo stesso impatto sul bilancio pubblico di una sovvenzione diretta.[41] Essa, pur rappresentando una deroga al principio di uguaglianza (in quanto a fronte di una norma generale che prevede l’assoggettamento ad imposizione di un determinato presupposto, viene stabilita la non imposizione solo di determinati soggetti o di determinate fattispecie) può trovare razionale e congrua giustificazione in altri principi presenti nell’ordinamento, equiordinati a quello di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., cui l’agevolazione si ispiri in un’ottica promozionale (si pensi a valori quali la famiglia, l’istruzione, l’assistenza, la cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata).
Ecco che, tradizionalmente, il regime di favore previsto dal legislatore tributario per l’imposizione sui redditi prodotti dagli enti non profit è stato inquadrato come regime agevolativo, di natura promozionale, derogatorio a quello ordinario in ragione di obiettivi sociali perseguiti dall’ente persegue, deducibili dal tipo di attività esercitata e/o dal tipo di finalità dell’ente e dei suoi partecipanti.[42]
Proprio nell’ambito dei regimi di agevolazione hanno assunto rilevanza, nel tempo, tutti quegli enti improntati al perseguimento e al soddisfacimento di interessi non economici, a forte connotazione pubblicistica: le finalità (sia dell’ente che dei suoi membri), ritenute irrilevanti ed espressamente ignorate nella classificazione sistematica operata in sede di imposizione sui redditi, sono divenute viceversa cruciali nelle discipline che hanno accordato i regimi di favore, esonerando da contribuzione fattispecie che altrimenti sarebbero rientrate a pieno titolo nella sfera di applicazione del tributo.[43]
La legislazione speciale rivolta agli enti non profit è stata ricondotta, dunque, nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore che in tanto apparivano ragionevoli in quanto erano in grado di perseguire obiettivi extrafiscali di indubbio valore etico, oppure, più in generale, in quanto erano riconducibili ad una politica di favore e di sostegno pubblico ai privati che si occupano dell’interesse generale, come chiede l’art. 118 u.c. Cost.
La logica promozionale e di incentivo, di deroga al sistema ordinario in quanto funzionale al raggiungimento di finalità extrafiscali, non pare essere stata messa in discussione neppure nell’ambito dell’ultima riforma del Terzo settore.
Anche nel nuovo contesto, infatti, sono state introdotte deroghe alle regole disegnate dalle norme impositrici in ordine al presupposto dell’Ires, esonerando da contribuzione fattispecie che altrimenti rientrerebbero a pieno titolo nella sfera di applicazione del tributo. Tali deroghe, come abbiamo visto, riguardano quegli enti che, in ragione delle modalità di esercizio dell’attività economica (programmata tendenzialmente, nel medio lungo periodo, al pareggio di bilancio) – ETS imprenditore non commerciale – o in ragione del particolare modello organizzativo – imprese sociali – sembrano in grado, più degli altri ETS, di garantire il soddisfacimento di finalità di interesse generale e di utilità sociale e che, dunque, in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, devono essere oggetto di favor da parte delle istituzioni.
La cornice costituzionale entro cui si colloca la riforma del TS impone, tuttavia, una nuova riflessione, che muove, appunto, dalla sentenza n. 131 cit. e dalla chiave di lettura che essa offre della riforma del TS.
Nella sentenza, in particolare, la Corte Costituzionale valorizza gli elementi identitari degli ETS dicendo sostanzialmente che solo i soggetti che si qualificano come ETS sono legittimati a partecipare alle attività di co-progettazione e co-programmazione di cui all’art. 55 CTS, in quanto solo ad essi (ed in ragione dei loro caratteri specifici) è riconosciuta una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale. Si instaura, in questi termini, tra i soggetti pubblici e gli ETS, in forza dell’art 55, un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del mercato e del profitto.
La Corte prosegue dicendo che agli enti che fuoriescono dal perimetro del TS non possono essere riferibili le medesime forme di coinvolgimento previste dall’art. 55 CTS, in quanto esiste una stretta connessione tra i requisiti di qualificazione degli ETS e i contenuti della disciplina del loro coinvolgimento nella funzione pubblica; l’effettiva terzietà rispetto al mercato e alle finalità di profitto che lo caratterizzano può, infatti, ritenersi verificata e assicurata attraverso gli specifici requisiti giuridici e i relativi sistemi di controllo propri degli ETS.
Questo passaggio della sentenza fornisce, ci pare, nuovi spunti alla riflessione iniziale, in ordine al ruolo della funzione tributaria dinanzi agli ETS.
Ci si chiede in sostanza se la funzione tributaria non debba semplicemente prendere atto dei caratteri ontologici e identitari propri degli ETS, capaci in sé di assicurare effettiva terzietà rispetto agli interessi di mercato.
Nella particolare prospettiva suggerita dalla sentenza n.131, in altri termini, ci pare, che la destinazione del reddito prodotto a scopi di utilità sociale, divenuto il tratto caratterizzante di tutti gli enti privati riconducibili al c.d. Terzo settore – che quindi riguarda trasversalmente sia gli enti che assumono la qualifica di impresa sociale, sia gli enti che secondo l’art. 79 CTS, si qualificano come commerciali o non commerciali – possa valere a giustificare la costruzione di un regime di esclusione da imposizione dei redditi del Terzo settore.[44]
Per come è strutturato il sistema ordinario di imposizione dei redditi, si diceva, enti for profit ed enti not for profit assumono la medesima posizione di fronte al fisco: l’ente privato societario o non societario è soggetto passivo di imposta ed i relativi redditi sono assoggettati ad imposizione, in ogni caso con aliquota ordinaria IRES, per il solo fatto della loro produzione, indipendentemente cioè dalla loro destinazione, che è una fase distinta e successiva, ed a prescindere dalla natura della finalità (lucrativa o no) del soggetto che lo produce.
L’esclusione da imposizione del reddito prodotto dagli ETS, tuttavia, non rappresenterebbe una deroga al sistema ordinario ma la presa d’atto del fatto che quell’insieme di enti che l’ordinamento riconosce come attori dell’interesse generale capaci di inverare il principio di solidarietà sociale, concorrono alla spesa pubblica in altro modo e non per il tramite dell’imposizione. D’altra parte, come ricorda da tempo parte della dottrina, l’art. 53 Cost. ha introdotto il dovere di contribuire alla spesa pubblica, ma non ha imposto di adempiere a tale dovere attraverso il pagamento dei tributi.[45] Ecco che destinare la ricchezza prodotta al compimento di attività di interesse pubblico significa concorrere direttamente alla realizzazione dell’obiettivo del contenimento della spesa pubblica; il contenimento della spesa pubblica, d’altra parte, rappresenta un’espressione dell’interesse all’equilibrio finanziario (art 81 Cost.) che è, a sua volta, comprensivo e assorbente di quello fiscale.[46]
Gli ETS, si diceva, destinano la ricchezza che producono direttamente all’interesse generale, e tale ricchezza, dunque, non può ritenersi idonea a manifestare (ulteriore) idoneità a contribuire alla spesa pubblica.
Un (eventuale) regime di esclusione da imposizione dei redditi degli ETS si presenterebbe, quindi, ragionevole e coerente con la ratio del tributo sui redditi: il principio di uguaglianza tributaria, desumibile per via interpretativa dalla interazione tra l’art. 53 e l’art. 3 Cost, impone, infatti, nella sua dimensione orizzontale, l’uguale trattamento di fattispecie che denotino una uguale capacità contributiva e, in quella verticale, prescrive il diverso trattamento di quelle situazioni che, sotto il medesimo profilo di attitudine alla contribuzione, siano invece differenti.
Sembra ragionevole, dunque, che il legislatore tributario valuti in modo differente i redditi prodotti da soggetti dotati di un particolare valore costituzionale e destinati ex lege a scopi pubblicistici (di utilità sociale o interesse generale).[47]
Il regime di esclusione da imposizione dei redditi prodotti dagli ETS sarebbe, quindi, da considerarsi strutturale, in linea con quello ordinario (non, dunque, derogatorio), in quanto capace di definire l’ambito applicativo del tributo, delineandone con maggior precisione il presupposto di applicazione.
La coerenza tra disciplina “sottrattiva” e disciplina ordinaria assumerebbe rilevanza, infine, alla luce della normativa comunitaria in tema di aiuti di Stato; è noto che la previsione di un trattamento fiscale “sottrattivo” soggettivamente circoscritto non integra la nozione di aiuto di stato qualora esso risulti giustificato dalla natura o dalla struttura del sistema, perché in tal caso esso non rappresenta una deroga al regime ordinario è quindi non idoneo a determinare una concreta distorsione della concorrenza di mercato.[48]
DOI: 10.7425/IS.2021.02.03
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