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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2024

Opinioni

La situazione economica e la sostenibilità della cooperazione sociale in Italia. Un commento

Luca Fazzi


In Italia, quando si parla di cooperazione sociale, tolti i censimenti degli enti nonprofit e i relativi aggiornamenti da parte di Istat, gli studi basati su dati quantitativi sono diventati negli ultimi anni sempre meno frequenti. Questo contribuisce a dare linfa a un dibattito fortemente retorico che idealizza la cooperazione sociale come espressione di una forma di agire economico di per sé buona e capace di rigenerare le diverse sfere del vivere civile. Le analisi di Andrea Bernardoni e Antonio Picciotti e di Gianfranco Marocchi sulla situazione economica e la sostenibilità della cooperazione sociale che fotografano l’andamento del settore negli ultimi anni sono da salutare proprio per questo motivo con viva gratitudine da parte di chi è interessato a comprendere le dinamiche e le prospettive future del fenomeno, perché ci riportano con lo sguardo sulla realtà empirica.

Come scriveva nel 1954 Darrell Huff, trattare con i dati quantitativi è naturalmente sempre un’operazione da svolgersi con grande prudenza, perché “se si torturano abbastanza, i numeri confesseranno ciò che si desidera”. Lavorando su medie in particolare bisogna essere coscienti che il paradosso Trilussa, descritto nella poesia “La statistica” è sempre in agguato. Il poeta racconta nei suoi versi in dialetto romanesco il dialogo sul senso della divisione di un pollo tra un compagno socialista e un gatto. Il compagno dice al gatto “io che conosco bene l’idee tue so certo che quer pollo che te magni se vengo giù sarà diviso in due: mezzo a te, e mezzo a me”. “No no” risponde il gatto senza cuore: “io non divido gnente con nessuno: fo er socialista quando sto a diggiuno, ma quando magno so conservatore”. La metafora del pollo ci ricorda che il numero statistico di per sé aiuta fino a un certo punto a descrivere la realtà: una media di mezzo pollo a testa tra due persone non dice molto, se non si analizza anche la distribuzione delle singole parti. Se il gatto si tiene l’intero pollo la media diviso due fa ancora mezzo pollo a testa, ma a mangiare è uno solo.

Le ricerche presentate, lavorando principalmente su dati medi, vanno maneggiate con parsimonia interpretativa e, correttamente, gli autori rimandano alla necessità di approfondimenti e disaggregazioni successive per una migliore comprensione delle dinamiche evolutive del settore e dei suoi sotto-aggregati. Pur lasciando aperte alcune ipotesi, i dati che gli autori commentano sono tuttavia molto chiari e delineano purtroppo un andamento di scivolamento complessivo della cooperazione sociale lungo una traiettoria che rischia di assomigliare, se non corretta rapidamente, a una sorta di linea terminale di una parabola. Dopo l’ascesa durata trenta anni, non priva di sintomi di quello che sarebbe rischiato di accadere più avanti, ma connotata da indubbi successi politici, economici e occupazionali, il trend di crescita della cooperazione sociale appare almeno sui grandi numeri interrotto.

Il volume complessivo del fatturato e l’occupazione sono continuati ad aumentare anche dopo la breve pausa del Covid-19. Sicuramente ha giocato un ruolo la capacità di resilienza della forma cooperativa e la motivazione intrinseca di molti cooperatori a affrontare prove non facili nella convinzione di perseguire cause di valore. Un’analisi disaggregata dei dati mette però in luce come questa sia solo una faccia della medaglia e che i trend relativi alla situazione economica e alla sostenibilità delle cooperative hanno una radice molto più lontana del 2020 e risalgano almeno alla decade precedente.

Le ricerche presentate mostrano come all’aumento dei fatturati della cooperazione sociale corrisponde da lungo tempo una netta diminuzione dei margini di utile. Se negli anni ’90 marginalità del 10% erano la regola, e il progressivo accumulo degli utili spiega la patrimonializzazione di molte delle cooperative più anziane, la riduzione drastica dei margini sembra in tempi più recenti avere risparmiato solo un numero esiguo di cooperative. Come con lo 0,5-1,5% di marginalità media sia possibile gestire imprese che devono confrontarsi con richieste sempre più pressanti di qualità, sicurezza, e reclutamenti e gestione del personale non è facile dire, ma senz’altro in presenza di margini risicati è l’intera tenuta delle cooperative sociali che entra in una fase di cronica difficoltà. Il rischio di trasformare molte imprese in organizzazioni che lottano per sopravvivere più che per crescere e innovare appare quanto mai evidente e si configura come un fenomeno non limitato a pochi settori e poche aree territoriali, ma di vasta scala e a tratti quasi endemico.

L’altro elemento che salta agli occhi dalla lettura dei dati è che anche il grande numero di cooperative presenti sul territorio non deve portare a conclusioni fuorvianti. Non solo il numero totale di cooperative scende dal 2017 in modo costante, ma addirittura i tassi di crescita delle nuove forme di impresa sociale doppiano quelli delle nuove cooperative sociali. Sarebbe interessante capire i motivi che stanno alla base della decisione di privilegiare le imprese sociali rispetto alle cooperative e comprendere quanto il dibattito degli ultimi anni su nuovi modelli di business, finanza di impatto, interesse di banche e assicurazioni per un maggiore dinamismo delle nuove forme di impresa sociale abbiano contribuito a modificare la narrativa sulla cooperazione. L’esito oggi è però che, indipendentemente da ogni altra sorta di considerazione, la competitività del modello della cooperativa sociale appare molto più debole che in passato.

Delle 15-18 mila cooperative sociali censite inoltre risulta che diverse migliaia siano al massimo degli “abbozzi” di impresa e non imprese vere e proprie, con fatturati risibili e probabilmente in parecchi casi legati all’accesso a finanziamenti una tantum come antidoto alla disoccupazione. A trascinare il settore sono una minoranza di cooperative di grandi e medio-grandi dimensioni che, a loro volta, aumentano il fatturato e l’occupazione complessiva, ma sembrano spesso in crisi di sostenibilità con margini addirittura più bassi delle cooperative di medio piccole dimensioni. A pesare sui bilanci della grande cooperazione è soprattutto l’incidenza del costo del lavoro e l’offerta di servizi poco flessibile come l’assistenza domiciliare che è più esposta alla competizione e offre margini di utile estremamente risicati. La metafora dell’elefante è quella che probabilmente si adatta meglio a queste imprese per rilevare una certa difficoltà di movimento spedito e un peso da trascinare che rallenta la velocità degli spostamenti. Come gli elefanti, anche le grandi cooperative che crescono con poco margine mostrano resistenza e capacità di affrontare grandi intemperie, ma mangiando poco nel tempo rischiano di diventare più lente e di fermarsi. Il dato che certifica un patrimonio netto aggregato di quattro miliardi in crescita di un miliardo e mezzo nell’ultimo decennio non deve nemmeno più di tanto illudere. I ¾ del patrimonio sono stati accumulati dal 17% delle cooperative. Ricerche in fase di pubblicazione mostrano come l’entità dei patrimoni in un regime di marginalità scarse tende a coprire soprattutto le perdite dei servizi e in una minoranza di casi è tale da consentire investimenti importanti per innovare o rinforzare l’offerta dei servizi esistenti. Inoltre, è importante tenere presente che anche per le grandi cooperative, i patrimoni possono volatilizzarsi di fronte a crisi inaspettate e così è stato per esempio per quelle grandi cooperative sociali che avevano investito nell’acquisto di strutture per anziani e che con il Covid e l’aumento dei tassi di interesse si sono viste costrette a erodere il patrimonio per non indebitarsi ulteriormente.

La conclusione che si può trarre dalla presentazione dei dati raccolti da Bernardoni, Picciotti e Marocchi è che, al netto delle diverse ipotesi interpretative, la cooperazione sociale come sistema economico e imprenditoriale è in una situazione di oggettiva e grave crisi. Si può naturalmente sempre sottolineare che ci sono ancora molte eccezioni al trend dominante, e questo è sicuramente vero. La coesistenza di tendenze contraddittorie risale già all’inizio del nuovo secolo ed è importante rimarcare come non esista da molto tempo ormai un unico modo di intendere la cooperazione sociale né un processo di sviluppo unitario (Borzaga e Fazzi, 2011). Ma una seria analisi della situazione non può basarsi solo su gruppi di casi particolarmente positivi e deve cercare di riflettere invece sempre sull’ecologia della popolazione organizzativa. Evitando gli eccessi di determinismo delle teorie ecologiche classiche a la Hannan e Freeman (1977), questi studi si interessano della varietà di popolazioni organizzative e del modo con cui esse sono selezionate e si adattano o non adattano all’ambiente esterno. Il merito di queste teorie è di evidenziare l’importanza dell’analisi delle tendenze per identificare le direzioni di evoluzione di una determinata popolazione organizzativa e per coglierne le eventuali interruzioni e portare a ragionare sulle cause e le possibili strategie di resilienza e di adattamento. Applicando all’analisi dei dati presentati la chiave di lettura delle popolazioni organizzative si possono trarre a me pare almeno tre principali considerazioni:

  1. Una parte importante di cooperazione sociale sta assumendo progressivamente i tratti tipici di un sistema non molto diverso dall’intermediazione di manodopera a basso costo. Nella narrativa dominante, progetti e interventi di grande pregio e autonomia sono presentati spesso a dimostrazione della vitalità della cooperazione sociale. Se si guarda sotto la punta dell’iceberg, tuttavia, il sistema dell’offerta di una parte consistente della cooperazione sociale pressato tra politiche di risparmio e concorrenza basata su economie di scala tende ad appiattirsi su prestazioni e modelli produttivi non troppo diversi dalla catena di montaggio. Per esempio, quando agli educatori sono riconosciute solo le ore di presenza a domicilio e non quelle relative alla programmazione degli interventi è chiaro che l’unità di misura computata per dare valore al servizio è solo il lavoro di contatto con l’utenza. In alcuni settori come l’assistenza domiciliare o l’assistenza degli Oss nelle strutture residenziali per anziani la misura per dare valore al lavoro delle cooperative non è rappresentata nemmeno dalle ore, ma dai minuti che devono essere assicurati a ogni utente in base al calcolo del suo fabbisogno assistenziale. È evidente che, quando si comprano solo le ore lavorative e poco più, il compratore introietta una concezione riduzionistica del contributo delle cooperative sociali che non contempla la capacità di progettazione, il coordinamento dei gruppi professionali o l’impegno a reclutare e selezionare personale preparato e adeguato. Mentre il sistema cooperativo esalta dunque le motivazioni e la qualità del lavoro delle proprie imprese, da fuori la percezione tende a essere spesso dissonante e questo pone inevitabilmente delle domande sulla validità delle strategie di promozione del settore fino a oggi perseguite.
  2. Con margini sempre più contenuti e sistemi di offerta rigidi, i fattori di inerzia che frenano l’innovazione si fanno sempre più evidenti. Di fronte alla rapida evoluzione dei bisogni e delle domande di servizi, con l’aumento della pressione sui costi, scarse disponibilità economiche e forti rigidità organizzative e produttive, il rilancio verso nuove aree di sviluppo attraverso l’innovazione - non solo di processo, ma anche di prodotto e di target dei destinatari - si profila come pieno di ostacoli e rischia di fare restare al palo un numero molto elevato di imprese. L’imputato principale di questa crisi è l’ente pubblico che con le politiche di risparmio, gli eccessi di burocratizzazione e la spinta alla concorrenza ha sicuramente contribuito a rendere l’ambiente in cui operano le cooperative più ostile e meno consono all’innovazione. Recenti ricerche evidenziano come l’impostazione dirigista e orientata al contenimento della spesa che ha caratterizzato l’ultimo decennio del welfare mix nazionale sia talmente radicata da influenzare negativamente anche l’applicazione di buona parte dei nuovi dispositivi collaborativi previsti dall’art. 55 del Codice del terzo settore (Borzaga e colleghi, 2024). Il peso dei bassi margini di utile e della rigidità dell’offerta è una variabile che recenti ricerche di prossima pubblicazione mostrano tuttavia condizionare negativamente anche il passaggio da molti ritenuto decisivo verso i mercati. La rigidità di una struttura produttiva favorisce per esempio l’estensione dei servizi consolidati (come l’assistenza domiciliare o i servizi educativi) verso la domanda privata, ma meno l’ideazione di nuovi servizi.  
  3. L’attuale tendenza alla riduzione delle marginalità mette in prospettiva in crisi anche l’altra grande utopia che ha connotato una parte del dibattito sul futuro della cooperazione sociale negli ultimi anni, ovvero la speranza che a salvare la cooperazione siano gli investitori sociali e i capitali pazienti. Gli investitori per definizione scommettono capitali per un ritorno di risorse. Questo può essere più o meno dilazionato a seconda di diversi ordini di valutazioni. Nel caso degli investimenti sociali l’idea dei capitali pazienti è che, condividendo la mission sociale che intendono supportare, gli investitori siano disponibili a rinunciare a parte dell’utile. Ma, nonostante questa specificazione, gli investimenti sociali sono pur sempre orientati alla prospettiva del ritorno economico. Il settore della cooperazione può essere dunque un ambito di investimento interessante, ma solo nella misura in cui gli investimenti per quanto poco sono remunerati. Una marginalità media così bassa come quella registrata nell’ultimo periodo fa emergere seri dubbi su quanto possa realisticamente essere un fattore di incentivazione degli investimenti privati e questo a maggior ragione quando sui mercati si stanno profilando altri attori come le Bcorp molto più competitivi sul fronte della produzione di utili e più propense a scegliere ambiti di mercato in cui sussistono margini più alti.

Le ricerche presentate mettono in luce molti altri aspetti assolutamente interessanti: le tendenze territoriali che avvicinano esperienze cooperative in passato molto dissimili, le trasformazioni delle forme giuridiche con l’esplosione delle cooperative a oggetto plurimo, un fenomeno che non risulta allo stato attuale essere stato oggetto di riflessione da parte delle centrali cooperative, i trend per cui la situazione attuale è chiaramente esito di processi storici di medio lungo periodo, probabilmente sottovalutati e comunque mai completamente elaborati e tematizzati. In generale tutte le considerazioni che si possono avanzare a commento dei dati sono però unite da un unico comune denominatore: l’urgenza di mettere al centro di un dibattito serio e trasparente il tema della crisi generalizzata della cooperazione sociale come popolazione organizzativa. La teoria delle popolazioni organizzative sostiene che sono le tipologie di organizzazione che presentano caratteristiche simili (di mission, prodotto, eccetera) a essere soggetto della selezione evolutiva e non le singole organizzazioni. I cambiamenti dell’ambiente in genere sono più veloci della capacità di adattamento delle organizzazioni che, una volta raggiunto uno stadio di vita maturo, sono caratterizzate da inerzie, routine, convinzioni tacite e esplicite e sindromi da successo che le mettono in difficoltò a affrontare le nuove dinamiche ambientali. Quando cambia l’ambiente solitamente nascono nuove organizzazioni, mentre le vecchie sono sostituite. La teoria delle popolazioni organizzative è stata criticata per la sua radicalità ed è probabile che diversi suoi aspetti vadano riconsiderati. In un mondo complesso l’ambiente è multidimensionale ed è plausibile coesistano più specie organizzative contemporaneamente, senza necessariamente che alcune sostituiscano altre. Gli studi sui cooperatori e le cooperative innovative realizzati nell’ultimo decennio certificano che, malgrado tutte le difficoltà, esistono ancora tensioni verso il cambiamento e esperienze di successo (Fazzi, 2014). I segnali di un passo di epoca e di una stasi sia della cooperazione che delle prospettive di sviluppo attualmente delineate è però palese. Se è possibile che la cooperazione sociale non abbia esaurito la sua spinta storica, un’analisi e un approfondimento delle evidenze empiriche presentate sembra essere assolutamente necessaria per fare un punto della situazione e per definire l’agenda della discussione futura.

DOI: 10.7425/IS.2024.03.05

 

Bibliografia

  1. Borzaga C. Fazzi L. (2011), Processes of Institutionalization and Differentiation in the Italian Third Sector, in Voluntas, Vol. 22, 3, pp. 409-427.
  2. Borzaga C. Fazzi L. Rosignoli A., (2024), Co-progettare i servizi sociali: nuove traiettorie del welfare locale in Italia?, in Politiche Sociali, 1, pp. 3-24.
  3. Fazzi L. (2014), Imprenditori sociali innovatori, FrancoAngeli, Milano.
  4. Hannan M. T., Freeman J. A. (1977), The Population Ecology of Organizations, in American Journal of Sociology, Vol. 82, pp. 929-964.
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