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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2024

Saggi

Welfare eco-sociale e terzo settore. Quali spazi per la “rigenerazione” del modello sociale?

Andrea Ciarini


Vincitori e vinti della doppia transizione

Le trasformazioni del welfare sono in stretta relazione con quelle produttive. Lo sono sempre state e lo sono anche oggi. Sebbene, le istituzioni, tanto più quelle di welfare, rappresentino una sfera regolativa autonoma, il rapporto con gli assetti produttivi non può essere pensato come scevro da forme di reciproca dipendenza o rinforzo. In questo articolo si attira l’attenzione su alcuni aspetti di questo rapporto che rimandano al riconoscimento sociale delle organizzazioni e dei lavoratori che operano nel sistema di welfare. In particolare, ci si soffermerà sui fenomeni di svalutazione del lavoro sociale - già rappresentati peraltro nei contributi presenti sul numero 2/2024 di questa rivista - come esito dei crescenti dualismi che attraversano i sistemi produttivi contemporanei sotto l’effetto della doppia transizione ecologica e digitale. Un dualismo sempre più forte e evidente tra settori ad alta intensità tecnologica e alta produttività che cavalcano la transizione in corso e settori, come il welfare (ma non solo) che la subiscono e a cui è attribuita una funzione, potremmo dire, “servile”, volta cioè ad assicurare le condizioni di efficienza dei primi. L’articolo è organizzato come segue. Dopo aver presentato il tema nel primo paragrafo, successivamente, verranno messi in questione alcuni degli assunti che oggi collegano il tema dell’utilità sociale del lavoro con il produttivismo dominante che svaluta il welfare o lo rende desiderabile solo nella misura in cui apporti un contributo positivo alla crescita e alla competitività. Nel terzo paragrafo l’analisi sarà sviluppata provando a “discutere” diverse strade per affrontare la crisi dell’attuale concezione circa la relazione tra welfare e sistema produttivo. Infine, nell’ultimo paragrafo viene sviluppata una proposta sul possibile ruolo dell’economia sociale nella definizione di un diverso incastro tra sfere produttive e riproduttive in chiave eco-sociale.

Iniziando con ordine, si prova ora a collocare i problemi prima accennati nel quadro generale delle grandi trasformazioni strutturali che impattano sulle società contemporanee. In che tipo di società viviamo? E che cosa rende desiderabile e socialmente riconosciuto un lavoro piuttosto che un altro?

Conoscenza, sapere, competenze, capitale umano, sono nella società in cui viviamo l’asset principale di cui dispongono le imprese per crescere e diventare più sostenibili e i lavoratori per aspirare a lavori più qualificati, più sicuri e a più alto reddito (Iversen e Soskice 2019; Palier 2020; Hall 2022). I benefici di questa transizione sono, tuttavia, ben lungi dall’essere equamente distribuiti o a portata di tutti. Il valore economico della conoscenza determina, infatti, anche una gerarchia tra lavoratori, imprese, settori, territori. I lavori “buoni” (e di rimando le imprese e i settori produttivi buoni) sono quelli ad alto contenuto di conoscenza, tecnologia e innovazione. I lavori cattivi (al di là della loro utilità sociale) sono invece quelli a bassa produttività e minore contenuto di tecnologia applicata alla produzione, sia essa relativa a beni o servizi. Tra i “lavori cattivi” in questo schema tecnologico vi sono educatori, psicologi, infermieri, ecc., persone laureate che sul piano della conoscenza sono diversi da addetti alle pulizie o centralinisti; ma condividono la posizione marginale nel mercato del lavoro per l’essere occupati in settori a bassa produttività. A questi settori e lavoratori è affidato il compito di salvaguardare e riprodurre le condizioni di esistenza dei settori maggiormente produttivi e innovativi. Da cosa dipende questa rigida demarcazione? I settori trainanti portano a una espansione delle capacità economiche della società e del Pil. Gli altri, sono ritenuti meno rilevanti perché non danno un contributo rilevante alla crescita della produttività e competitività, al di là dell’utilità sociale che incorporano. Il punto nodale è il rapporto con la produttività del lavoro e con la crescita del Pil. Più crescono i lavori buoni ad alta produttività, più cresce (in teoria) l’economia, più aumenta il benessere per tutti. Viceversa, laddove crescono i lavori a bassa produttività, non cresce abbastanza il Pil e anche il lavoro è più probabile che sia pagato poco e precario.

Ma è proprio questo dualismo che è sempre più insostenibile. E non solo perché è sempre più contestato il binomio crescita del Pil/benessere della società, a causa di limiti (naturali, fisici) oltre i quali è la crescita a diventare insostenibile. Ma anche per le conseguenze sociali che questo produce sul piano delle disuguaglianze e dei divari sociali, legittimati e naturalizzati dal mito della produttività come termine di paragone dell’utilità economica e sociale di lavori, settori, imprese.

La pandemia ha reso evidente l’importanza dei “cattivi lavori”, soprattutto nei servizi, dalla sanità, alla distribuzione, senza i quali la società non potrebbe funzionare, né garantire gli standard di vita a cui siamo ormai abituati. Secondo le stime dell’International Labour Office (2023) i lavoratori essenziali possono essere raggruppati in otto gruppi occupazionali principali: addetti ai sistemi alimentari, operatori sociali e sanitari, addetti alla vendita al dettaglio, addetti alla sicurezza, lavoratori manuali, addetti alle pulizie, addetti ai trasporti, tecnici e impiegati. Insieme rappresentano una parte significativa, quando non maggioritaria, dell’occupazione in molti paesi, ma sono caratterizzati da condizioni di lavoro, retribuzioni e anche status che rimangono nettamente al di sotto degli standard dei settori produttivamente forti. Bruno Palier (2022) ha parlato in proposito di una dinamica tra “servi” e “padroni”, con i primi che svolgono mansioni e lavori poco pagati, ma necessari a far sì che i secondi possano vivere e lavorare all’interno di ecosistemi produttivi votati all’innovazione e alla creazione di valore aggiunto attraverso la conoscenza. In una situazione in cui non ci sono abbastanza posti di lavoro stabili e ben retribuiti per tutti, i nuovi “servi” consentono alle fasce più qualificate di non perdere tempo, svolgendo mansioni (cura, consegne, servizi domestici etc..) che consentono a questi ultimi di essere produttivi e godere di tutti i benefici della crescita economica. Già Manuel Castells in “La nascita della società in rete” (2002) aveva in qualche anticipato queste tendenze, evidenziando come le tre rivoluzioni - tecnologica, economica e culturale - che hanno scandito il passaggio al capitalismo informazionale hanno contribuito a legittimare una cronica spaccatura (anche sul piano dei valori e della rappresentanza politica) tra una ristretta élite cosmopolita, libertaria e iperproduttiva e la gran parte dei lavoratori meno specializzati (un nuovo proletariato dei servizi) privi di informazioni, potere e di quelle risorse cognitive che sono le uniche che valgono ai fini della mobilità sociale.

In un ecosistema di questo tipo, liberalizzazioni, outsourcing e fattispecie contrattuali che consentono di abbattere il costo del lavoro diventano la necessaria condizione perché i “cervelli” ben pagati possano concentrarsi sugli incrementi di produttività del lavoro buono e innovativo dei settori a più alto valore aggiunto (Iversen e Soskice 2019). In aggiunta, gli stessi autori (ivi) sostengono la necessità di politiche fiscali restrittive (l’austerity) al fine di garantire la competitività delle imprese, il commercio internazionale e la sostenibilità dei debiti pubblici. Così, se un eccesso di spesa pubblica inibisce la crescita dei mercati, allo stesso modo la presenza di estesi apparati di protezione sociale (sussidi, ammortizzatori sociali, assistenza) non risponde alle reali necessità delle componenti più innovative e produttive della società. È anzi controproducente, perché rischia di inficiare la capacità di rimanere competitivi sui mercati internazionali. Detto in altri termini, secondo queste teorie, non è solo difficile garantire meccanismi di trasferimento di reddito dai settori forti a quelli più deboli, come era nel fordismo, è addirittura dannoso per la crescita, perché impone oneri eccessivi alle imprese dei settori più qualificati che trainano la crescita. E lo stesso vale per le aree territoriali, tra regioni che avvertono la minaccia dei tagli alle politiche redistributive e all’assistenza, ma che rappresentano una componente fondamentale ai fini della tenuta della domanda interna e dei redditi, oltre che per fronteggiare i maggiori rischi associati alla endemica bassa crescita, e aree più forti che hanno strutture produttive a più alto valore aggiunto e che beneficiano degli investimenti in capitale umano e innovazione.

La distribuzione spaziale delle disuguaglianze indica la tendenza a una concentrazione del rischio povertà e della marginalità su base territoriale che è molto più accentuata rispetto alla fase fordista, quando, da un lato l’industria garantiva lavoro salariato sicuro, dall’altro, le relazioni industriali, solide e centralizzate, consentivano di trasferire quote di ricchezza prodotta, attraverso la contrattazione collettiva dai settori e dai lavoratori più produttivi a quelli meno produttivi. Oggi la situazione è per molti versi opposta. In tutte le economie avanzate le disuguaglianze territoriali sono costantemente aumentate nelle ultime due decadi. L’OCSE (Bachtler et. al. 2017) ha mostrato come tra il 1995 e il 2014 il divario di produttività fra le regioni più avanzate e il 10% più arretrato sia cresciuto in media del 60% e del 56% nell’Unione Europea, con una concentrazione delle disuguaglianze e del degrado sociale nelle aree periferiche, nelle città più piccole e nelle aree interne.

Anche in questo caso, il risvolto è l’accettazione di una crescente spaccatura tra inclusi ed esclusi, tra vincitori (i ceti medi riflessivi ad alta qualificazione) e perdenti (la vecchia classe media incastrata in lavori a bassa retribuzione con bassa produttività). Mentre gli uni beneficiano della globalizzazione e dell’apertura dei mercati, avendo un valore produttivo che è spesso inseguito anche dagli Stati e dai territori in competizione per attrarre “cervelli”, gli altri risentono negativamente dell’erosione dei vecchi diritti sociali fordisti, non più funzionali a sostenere la crescita economica che è tutta giocata sulla capacità di radicare territorialmente il capitale umano mobile nel mercato globale. L’altra faccia della medaglia è una spaccatura tanto materiale quanto culturale che indebolisce i legami di solidarietà tra ceti medio bassi e alti che avevano costituito una delle basi di legittimazione della vecchia società industriale e fordista.

Il welfare eco-sociale: un nuovo paradigma

Recenti filoni di letteratura hanno iniziato a sfidare apertamente il paradigma produttivista della protezione sociale, provando a mettere in questione taluni “accoppiamenti” dati per scontati nelle teorie mainstreaming. Se fino al più recente passato la principale critica che veniva mossa al paradigma produttivista riguardava l’implicita distinzione tra spese produttive, su cui investire, e spese improduttive, da tagliare, perché meno in grado di incidere sull’aumento dell’occupazione e sullo sviluppo dei settori ad alto valore aggiunto, in questi emergenti studi è la crescita stessa ad essere messa in discussione, a causa della sua insostenibilità sul piano ecologico.

Il concetto di welfare eco-sociale riassume questa nuova tensione (Gough 2015; 2016, Koch 2022; Benegiamo, Guillibert, Villa 2023). Il suo fondamento risiede non tanto nel contributo della spesa sociale alla partecipazione al mercato del lavoro e di conseguenza all’aumento del Pil e della produttività, bensì in quello dato al disaccoppiamento tra crescita e sfruttamento illimitato delle risorse ambientali. Il welfare eco-sociale è la traduzione di questo disaccoppiamento, così come la decrescita è la traduzione del disaccoppiamento tra crescita e benessere collettivo. Più nello specifico, la decrescita è concepita da molti di questi autori come la riduzione pianificata dell’uso di energia e delle risorse ambientali per riportare in equilibrio un sistema altrimenti destinato all’insostenibilità, perché basato sul dogma della crescita indefinita del Pil e dei consumi e su una direzione della transizione tutta in mano alle forze e agli interessi di mercato. Messa in questi termini, la decrescita è anche alternativa alla green transition, basata invece sul disaccoppiamento tra crescita ed emissioni grazie all’innovazione tecnologica. In questo frame, sposato dalle grandi istituzioni internazionali, è quest’ultima, non la riduzione tout court dei consumi, a garantire l’obiettivo del disaccoppiamento. Da questo punto di vista, la green transition rimane perfettamente compatibile con la crescita illimitata dei consumi, che rimane uno dei driver attraverso cui rilanciare le strategie di investimento e riallocazione delle risorse da parte degli attori di mercato. Al contrario, la decrescita è anche un progetto eco-politico. Se infatti la crescita verde tende a minimizzare e depoliticizzare gli effetti distributivi della transizione e i conflitti potenziali tra vincitori e vinti, nella decrescita questi conflitti sono ben presenti e al centro di una strategia che è trasformativa più che adattiva, anche rispetto ai rapporti di potere nella società.

Se queste sono le premesse, il contrasto alle disuguaglianze e l’idea stessa di transizione giusta, non risiedono nell’approccio “produttivista” del lavoro a qualunque costo, ma nemmeno nella prospettiva di un reddito di base per tutti con il quale accedere a consumi o servizi di mercato. Perché anch’esso ha una impronta ecologica potenzialmente insostenibile su applicato su larga scala. Piuttosto è la nozione di Universal Basic Services (UBS) che prende piede, l’idea cioè di una dotazione minima di servizi di base per tutti (cibo, acqua, salute, scuola, trasporti etc..), sottratti all’economia di mercato e garantiti su base universalista a tutti i cittadini (Coote 2021). Dal produttivismo della spesa sociale al post-produttivismo in questo paradigma si ritrova anche l’idea di una capacitazione non limitata alla sfera del mercato e del lavoro retribuito, ma anche ad altre sfere di attività fuori mercato (Bonvin e Laruffa 2021) in attività compatibili con obiettivi eco-sociali e quindi cura del territorio, riparazione ambientale, riproduzione sociale, salute, cura, beni pubblici territoriali.

Riconoscendo l’incompatibilità tra crescita economica ed emissioni di anidride carbonica, il nesso lavoro-benessere riproduce il modello di continua crescita della produzione come unico modo per generare domanda di lavoro nell'economia di mercato, ma a discapito dell’ambiente. All’opposto, l’uscita dal paradigma della crescita presuppone la valorizzazione e il riconoscimento di tutti quegli spazi fuori mercato, cura e volontariato che accanto alla redistribuzione acquisiscono una valenza alternativa al welfare della crescita.

Come ha fatto notare Mandelli (2022), tradizionalmente, la governance delle politiche ambientali e sociali ha seguito una logica a compartimenti stagni, pur avendo entrambe molte caratteristiche in comune: la risposta a problemi di lungo periodo, la gestione e distribuzione di risorse scarse, infine, il fatto di operare all’interno di vincoli politici ed economici e istituzionali che hanno una latenza alle spalle. C’è, in altri termini, una path dependency – una dipendenza dal sentiero istituzionale consolidatosi nel passato - che rende difficile il cambiamento, se non immaginandolo in termini incrementali, cioè dentro i sentieri già tracciati come direbbe Paul Pierson (2001). Nonostante questo, le due letterature hanno iniziato a relazionarsi reciprocamente e il concetto di eco-social welfare ne è testimone. Questa prospettiva presenta indubbi spunti di riflessione, in particolare per l’accento che pone sul soddisfacimento dei bisogni fondamentali dei cittadini, sull’attivazione fuori mercato e sui principi della co-produzione come spazio di partecipazione alla costruzione del benessere individuale e collettivo. Va inoltre riconosciuto a questo filone di letteratura il merito di avere posto le basi per una critica radicale alla crescita illimitata dei consumi come unico parametro attraverso cui misurare il benessere individuale e collettivo. Vi sono tuttavia contraddizioni e nuovi dilemmi non ancora sciolti.

Il primo è quello del disaccoppiamento tra crescita e welfare. Se tanto le strategie di crescita, quanto l’idea di spesa sociale produttiva presentano oggi evidenti criticità (di cui si è dato ampio riscontro nelle pagine precedenti), cionondimeno è difficile immaginare di rompere il nesso tra welfare e crescita. In primo luogo, perché è sempre stato presente nel corso della storia dei sistemi di welfare, sia pure in forme diverse. In secondo luogo, perché è difficile immaginare come la decrescita possa contribuire a finanziare non solo gli ingenti investimenti pubblici necessari a guidare la transizione in atto, ma anche le politiche redistributive e quella dotazione minima di servizi di base per tutti che, senza adeguate risorse pubbliche, rischiano di tradursi in una prospettiva di welfare minimo, o riservato esclusivamente alle fasce di popolazione più marginali oppure universale ma estremamente limitato quanto a copertura. Ma come coniugare, allora, sviluppo, coesione sociale e sostenibilità ecologica, allargando gli spazi di partecipazione alla costruzione del benessere individuale e collettivo?

Un moltiplicatore sostenibile al crocevia tra bisogni economici, sociali ed ecologici.

Ha scritto Esping-Andersen (1999) che il welfare state da sempre affronta continue crisi di adattamento alle trasformazioni della produzione e riproduzione sociale. È insita, del resto, nel concetto stesso di welfare capitalism (Esping-Andersen 1990) l’idea di una dinamica di reciproco rinforzo o di compromesso tra sfera della produzione e sfera della riproduzione, così come tra classi, gruppi, portatori di interessi divergenti. Nella fase di massima ascesa dei welfare state (i trenta gloriosi), il legame profondo tra stato sociale keynesiano e fordismo si è riflesso in un rapporto di forte complementarità tra produzione e riproduzione sociale. La spesa sociale in questo frangente svolgeva una duplice funzione. Da un lato, garantiva la copertura dai principali rischi connessi all’attività lavorativa, attraverso un generoso sistema di indennizzi per i danni subiti; dall’altro concorreva direttamente a stabilizzare la domanda e i consumi interni che a sua volta alimentavano la crescita, ma dovendo fare i conti con un crescente debito pubblico. Con il passaggio al post-fordismo questo rapporto si è capovolto. Se l’aumento del debito pubblico diventa un peso insostenibile ai fini della crescita, alla spesa sociale non si chiede più di concorrere direttamente all’aumento dei consumi, quanto piuttosto di sostenere indirettamente la crescita attraverso l’aumento della base occupazionale e interventi mirati per migliorare la qualità e la produttività del lavoro. Ma se questo complesso di politiche sociali può favorire la crescita, non ne previene i profondi dualismi sociali e territoriali. Soprattutto, non è attrezzato a rispondere alle nuove emergenze sociali e ambientali che si trovano alla congiunzione tra questione ecologica, transizione digitale e questione sociale. L’intersezione di questi tre poli pone nuove sfide ai sistemi di welfare, a partire da quella ecologica. Ma non è solo questo il punto. Il concetto di doppia transizione (ecologica e digitale) ci pone di fronte a questioni di più ampia portata che riguardano la dimensione sociale di questa stessa transizione. La transizione digitale porta con sé il problema degli effetti spiazzamento sul lavoro e le tendenze a una crescente polarizzazione tra relativamente pochi inclusi che per competenze e skills “catturano” i benefici del progresso digitale, lasciando ai margini molti altri che ne sono esclusi. Quella ecologica, che si nutre della prima, aggiunge il problema della insostenibilità ambientale della crescita. Quali sono allora le funzioni fondamentali del welfare per ricongiungere questi poli che appaiono in contrasto? Nella sua lunga storia il welfare state ha sottratto gli individui alla dipendenza dal mercato, direbbe Polanyi, ha consentito, cioè, alle persone di disporre di risorse (in trasferimenti e servizi) indipendentemente dalla partecipazione al mercato del lavoro. È del resto intorno a questo principio che lo stesso Esping-Andersen (1990) ha proposto le due categorie della demercificazione e destratificazione (cioè, quanto cioè un regime di welfare riesce a ridurre le disuguaglianze prodotte dal mercato) con cui sono stati classificati i sistemi di welfare dei paesi occidentali. Ma queste funzioni presuppongono un fatto, ovvero che il mercato agisca come fattore di modernizzazione e tensione che produce instabilità e insicurezza per chi è sottoposto alle leggi della domanda e dell’offerta, mentre il welfare garantisce risorse economiche che sono indipendenti da questi condizionamenti. In questo quadro, il passaggio dalla “doppia” alla “tripla” crisi del welfare (Villa 2023) non è nominale. La prima rifletteva la contraddizione sempre più evidente nel primo decennio del nuovo secolo tra l’aumento e la diversificazione dei rischi sociali e le crescenti difficoltà degli Stati nazionali nel far fronte, tanto ai vecchi rischi fordisti, quanti a quelli nuovi post-fordisti (la cura, la conciliazione, i grandi cambiamenti demografici). La seconda riflette invece uno scenario nuovo in cui a questi problemi si aggiungono le questioni ecologiche, con il rischio di concorrenza tra bisogni sociali e bisogni ambientali (Ferrera, Mirò, Ronchi 2024), ma anche nuovi potenziali incastri (tutti da esplorare) tra sfere produttive e riproduttive. Se l’ambiente è un ecosistema il cui sfruttamento senza limiti mette a repentaglio la tenuta della società, è la tesi degli autori (ivi), va riconosciuto il diritto a una cittadinanza non solo sociale ma anche verde. Una cittadinanza eco-sociale che conferisca alcuni nuovi diritti e beni essenziali su base collettiva, insieme a doveri in termini di rispetto delle norme ambientali e sulle abitudini di consumo. Lo spostamento verso la dimensione collettiva è qui centrale, perché questi stessi beni (cibo, acqua, energia, trasporti per fare alcuni esempi) se sono fruiti individualmente concorrono all’aumento potenzialmente indefinito dei consumi individuali e di conseguenza delle emissioni. Viceversa, se i costi sono socializzati, vale a dire garantita su base collettiva, aiutano a mitigare l’impronta ecologica della crescita. Altri autori, ad esempio Fuchs e altri (2021), hanno proposto in questo senso di distinguere i bisogni e le preferenze essenziali da quelli non essenziali che spesso sono spinti dalle politiche di incentivazione ai consumi. Il nodo è in questo senso anche valoriale. Molti lavori altamente produttivi sul piano economico hanno altrettanto alte esternalità negative sul piano ecologico, mentre molti lavori essenziali, sono esposti ai bassi salari mentre hanno una alta utilità sociale ed ecologica.

Queste opzioni si confrontano con altre che presentano costi e opportunità diverse a seconda degli obiettivi che si intendono perseguire. La prima, che potremmo definire chauvinista, è un mix di congelamento del vecchio status quo e garanzia di beni essenziali da riservare solo ad alcuni, i nativi, gli autoctoni contro coloro che non sono membri della comunità nazionale, oppure gli appartenenti ad alcune categorie a cui riconoscere un privilegio in base alla collocazione professionale contro altri dallo status lavorativo incerto o indefinito. La seconda, incarnata nelle opzioni neoliberiste, lascia al mercato il compito di rimuovere le barriere che non consentono alle persone di esprimere il proprio potenziale, senza tuttavia fare alcunché perché questo potenziale non produca esternalità sul piano ambientale. Questa opzione è in realtà alla base di molte delle crescenti disuguaglianze che tendono a frapporre i vincitori della transizione in atto che beneficiano dell’allargamento dei mercati, dei rapidi cambiamenti tecnologici e delle nuove opportunità di consumo “verde”, e i perdenti che vedono invece la transizione come una minaccia allo status quo acquisito e che per gli atteggiamenti di chiusura verso le innovazioni “verdi” vengono spesso stigmatizzati (dai primi) o ritenuti responsabili dell’insostenibilità ecologica della vecchia crescita fossile. Di contro, sono queste stesse frange di perdenti quelle a cui si rivolgono le destre populiste con le loro ricette chauviniste. La terza opzione è quella di ricalibratura che rimanda all’approccio produttivista prima esaminato. Tra l’alternativa dei tagli lineari (retrenchment) e il mantenimento dello status quo, essa punta a rendere il welfare state compatibile con la crescita basata sulla valorizzazione del capitale umano e sulla più ampia partecipazione al mercato del lavoro, ma al prezzo di una rigida distinzione (anche valoriale) tra il lavoro buono produttivo e quello cattivo improduttivo, così come tra aree territoriali core e aree periferiche. Rispetto alle opzioni neoliberiste punta all’eguaglianze delle opportunità, su una base di partenza uguale per tutti, lasciando in seguito al mercato il compito di selezionare e in più garantendo a chi rischi di rimanere indietro sistemi più o meno inclusivi a seconda dei contesti di protezioni passive e politiche sociali e del lavoro abilitanti. Non risolve, tuttavia, il problema della esternalità negative della crescita basata sulla continua rincorsa alla produttività e all’aumento dei consumi individuali. È anzi una strategia finalizzata a produrre crescita, sia pure inclusiva sul piano sociale. Non risolve, infine il problema dei dualismi territoriali che tendono a essere cristallizzati senza interventi sulla domanda di lavoro territoriale.

Tra partecipazione, istituzionalizzazione e ibridazione con il mercato. L’economia sociale alla prova della co-produzione

La risposta ai nuovi rischi eco-sociali impone un nuovo ripensamento degli incastri tra sfere produttive e sfere riproduttive. Ma non meno importante è interrogarsi sullo spazio d’azione riconosciuto e da riconoscere alle organizzazioni del terzo settore e della società civile. Le organizzazioni di terzo settore e gli attori della società civile sono da anni al centro delle principali riforme che in Europa hanno tentato di riorientare l’offerta di protezione sociale verso i nuovi rischi sociali, salvaguardando la sostenibilità dei debiti pubblici e al contempo favorendo processi di partecipazione e auto-attivazione dal basso. In una prima fase sono state le esternalizzazioni, cioè la fornitura in esterni dei servizi in esterni, a guidare i processi di pluralizzazione dell’offerta, secondo mix di interazioni tra pubblico e privato sociale differenziate da un paese all’altro (Ascoli e Ranci 2003). In Italia, gli anni Novanta e Duemila sono stati caratterizzati da modelli di fornitura basati su un connubio inedito (per l’epoca) di partecipazione alla programmazione degli interventi sociali e competizione per la loro erogazione, attraverso gare d’appalto e contracting-out. In questo quadro, la stagione inaugurata dalla legge quadro di riforma dell’assistenza 328/2000 ha aperto a istanze partecipative nella programmazione sociale territoriale, con il forte impulso dato al coinvolgimento dei soggetti del terzo settore nel policy making (Paci 2008; Ciarini 2012), ma lasciando la gestione vera e propria a meccanismi concorrenziali, anche al massimo ribasso, che hanno finito per contribuire a scaricare sul costo del lavoro le pressioni competitive tra i provider in concorrenza tra loro. I sostenitori più convinti delle esternalizzazioni giustificano l’uso massivo degli appalti per garantire efficienza, qualità dei servizi e prevenire forme collusive. Ma i meccanismi di mercato non sono stati scevri da distorsioni. A ragione alcuni (Borzaga, Gori, Paini 2023), tali meccanismi hanno evidenziato le falle di sistemi improntati al mercato, non solo per le pressioni al ribasso sul costo del lavoro, ma più in generale in termini di frammentazione e oscuramento della cultura collaborativa tra amministrazioni pubbliche e terzo settore, esse stesse strette nella morsa delle tensioni competitive, con ricadute negative sulla capacità progettuale, la sperimentazione, l’innovazione dal basso, tutti elementi costitutivi del terzo settore, ma di fatto poco riconosciuti nel mercato sociale dei servizi. In parallelo, questi meccanismi hanno alimentato una tendenza all’istituzionalizzazione che per molti provider ha significato dipendere e assumere i contorni di meri esecutori di prestazioni sociali che coprono le falle del sistema pubblico.

Le ambivalenze di questa sussidiarietà orizzontale, tra spinte alla partecipazione e delega al terzo settore di un numero sempre crescente di servizi di interesse collettivo in risposta alle richieste di contenimento della spesa pubblica, hanno assunto i contorni di un welfare prestazionista ed emergenziale che cambia le logiche d’azione degli attori associativi. Da un lato, per le amministrazioni pubbliche le regole del public procurement (contratti d’appalto) hanno spinto in direzione di un sistema che si limita a definire le quantità di servizi e di lavori nei servizi che sono necessarie a soddisfare un bisogno, dall’altro la partecipazione è rimasta per lo più come foglia di fico dietro cui legittimare scelte che rispondono a obiettivi di razionalizzazione della spesa pubblica.

L’altra faccia della medaglia di questo connubio riguarda le condizioni di lavoro nel sociale. Tra meccanismi di accreditamento, proceduralizzazione, valutazione, i lavoratori che operano nei servizi sono la parte debole della filiera di fornitura su cui vengono scaricate le pressioni all’efficientamento, soprattutto all’interno delle compagini sociali più imprenditive e organizzate. Vero è che al loro interno è significativamente cresciuta l’occupazione, in parallelo alla riduzione di operatori pubblici nelle amministrazioni. Secondo gli ultimi dai Istat (2024), in Italia il numero degli occupati nelle istituzioni non profit è attivato a quasi 900 mila unità, di cui più della metà (477 mila circa) nelle cooperative sociali. I settori della sanità e dell’assistenza sociali sono quelli in cui si concentra il maggior numero dei dipendenti delle cooperative sociali, specialmente nelle regioni del Nord e del Centro che insieme assorbono il 77% degli occupati. A fronte, inoltre, di un forte processo di concentrazione nelle organizzazioni di più grandi dimensioni (oltre il 40% è occupato in organizzazioni con più di 250 dipendenti, il 33% tra i 50 e i 249, mentre solo il 6% in micro-cooperative), l’Istat (ivi) registra una diminuzione dei volontari. Questo può dipendere dalla disaffezione oppure dalla ricerca da parte dei volontari di organizzazioni più strutturate in cui fare volontariato senza essere sovraccaricati di funzioni e responsabilità eccessive come di solito avviene nelle piccole realtà (Marocchi 2024). Ma può essere anche indicatore di un progressivo distacco tra componenti più magmatiche che rimangono estranee ai processi formalizzazione e professionalizzazione e componenti più organizzate che perdono i legami con la vocazione sociale e la spinta alla valorizzazione delle risorse etiche dell’altruismo e della reciprocità. Come ha di recente sottolineato Pasquinelli (2024; vedi anche Marocchi 2024), il diffondersi dei meccanismi che tendono a proceduralizzare e parcellizzare il lavoro sociale non solo ha effetti negativi sugli aspetti materiali della remunerazione, ma anche su quelli qualitativi (desiderabilità, coinvolgimento, partecipazione, condivisione). Non devono stupire, a detta dell’autore, le difficoltà di molte di queste organizzazioni a reperire personale, in un contesto di disaffezione verso il lavoro sociale, pur essendo questo uno dei bacini occupazionali in più rapida espansione.

Di contro, assistiamo sempre più anche al riemergere di forme inedite di auto-organizzazione dal basso, neomutualismo e pratiche informali che puntano alla rivitalizzazione dello spazio pubblico a partire dalle risorse delle comunità, ma non per fare di più con di meno (come nella logica della Big Society), bensì per allargare la sfera dei diritti sociali e del welfare in senso universalista, così come sperimentare forme nuove di produzione e consumo. In questo vasto arcipelago del welfare informale, troviamo soggetti che, pur non rientrando in categorie formali, mettono in atto delle pratiche che alcuni autori considerano generative di welfare e di produzione di beni comuni, adottando di volta in volta dinamiche conflittuali o cooperative. Molte ricerche mettono in evidenza come queste pratiche abbiano un carattere urbano, prendono cioè piede in contesti sottoposti a processi estrattivi dello spazio urbano, gentrificazione, depoliticizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici. In reazione alla riduzione dei diritti sociali a merce e a bisogni scoperti o non più coperti dalle tradizionali reti del welfare pubblico e privato sociale, queste organizzazioni che si muovono a cavallo del continuum formale-informale rimettono in primo piano la voice, attraverso esperienze di conflitto, mutualità e auto-organizzazione. Non si tratta, tuttavia, di una semplice reazione alle politiche urbane neoliberiste, quanto piuttosto un mix di conflitto e innovazione sociale volta a costruire nuove politiche pubbliche, dunque, rivendicando il ritorno dello Stato laddove questo spazio è stato occupato dal mercato e dalle logiche della concorrenza amministrata. Ma non si tratta neanche della rivendicazione dell’intervento del pubblico tout court, in quanto a partire dall’auto-organizzazione la richiesta è quella di essere riconosciuti come soggetti che partecipano alla costruzione di obiettivi di politica pubblica. È in questo contesto che il dibattitto sull’innovazione sociale prende nuove strade, una innovazione sociale urbana che, come sottolineato da diversi autori (Mingione e Vicari Haddock, 2017; Moulaert 2010; Polizzi et al. 2013), punta a ripensare le forme e i contenuti della governance urbana dei servizi sociali, culturali, degli spazi urbani e della stessa produzione materiale, ponendo al centro l’attivazione della società civile e la sperimentazione di pratiche di democrazia diretta e di auto-organizzazione dal basso (Caltabiano, Vitale e Zucca 2024). Molti degli spazi in cui queste esperienze nascono sono luoghi in disuso, abbandonati o aventi funzioni che sono decadute da rigenerare (Cellamare 2019; Venturi e Zandonai, 2019). Luoghi che vengono restituiti in forme diverse dal passato alla comunità, spesso sopperendo alla carenza di servizi pubblici locali. Non mancano le criticità in contesti che possono anche essere ostili. Va poi considerato il problema delle risorse, sia quelle interne alle organizzazioni (spesso instabili), sia quelle esterne, altrettanto volatili e comunque non necessariamente incardinate automaticamente all’interno di percorsi di formalizzazione dell’informale o co-programmazione e co-progettazione che comunque richiedono requisiti formali non da tutti posseduti. Non sono del resto poche le situazioni in cui il ruolo dell’amministrazione pubblica è ambiguo, tra spinte verso l’istituzionalizzazione e il prestazionismo applicato anche all’innovazione sociale con le relative richieste di valutazione d’impatto da misurare, quantificare e di conseguenza remunerare in base ai risultati conseguiti. È questo, tuttavia, il quadro con si misurano i tentativi di sperimentazione di nuove forme di programmazione e gestione del welfare locale, in una accezione ampia al crocevia tra bisogni economici, sociali ed ecologici di un territorio.

Su questo terreno si confrontano visioni alternative relativamente agli spazi d’azione degli attori dell’economia sociale.

La prima di esse guarda all’economia sociale come spazio terzo di relazioni collaborative tra istituzioni pubbliche e organizzazioni di terzo settore alternativo tanto al mercato quanto allo Stato. Uno spazio autonomo finalizzato a promuovere circuiti alternativi a quelli dell’economia propriamente detta al fine di contrastare situazioni di vulnerabilità ed esclusione sociale su cui né il primo, né il secondo sono efficaci. Il mercato per la difficoltà a trarne un rendimento economico, lo Stato per i vincoli di bilancio e le rigidità istituzionali che non consentono di prendere in carico queste stesse fasce di popolazione. È il lavoro di comunità nella versione di quei progetti di utilità collettiva che costruiscono percorsi di inclusione sociale e inserimento lavorativo con la partecipazione del terzo settore in settori (la cura, i beni comuni, i beni ambientali e culturali) che appaiono riservati agli inoccupabili. Tipico esempio di questa modalità sono i Progetti di Utilità Collettiva (PUC) previsti nel Reddito di Cittadinanza, poi confermati anche dall’ultima riforma. Di titolarità dei comuni, i PUC sono stati concepiti come attività sociali che vanno “oltre il lavoro” e si situano “fuori mercato” (Lodigiani e Maino 2024), da svolgersi a titolo gratuito. Non sono assimilabili in nessun modo a un rapporto di lavoro subordinato, avendo finalità di inclusione sociale per i beneficiari e per la collettività. Come sottolineano le due autrici (ivi), per i beneficiari, perché i progetti devono rafforzare la possibilità di inclusione sociale, per la collettività, perché i PUC devono essere individuati a partire dai bisogni e dalle esigenze della comunità locale. L’impegno previsto, almeno 8 ore settimanali, aumentabili fino a 16, è obbligatorio per tutti i beneficiari come parte delle misure di politica attiva del lavoro, anche coinvolgendo organizzazioni di terzo settore e volontariato. A parte la natura ambigua dello strumento, tra inserimento lavorativo, inclusione sociale e gratuità del lavoro di comunità, quello che più colpisce è l’avere identificato gli ambiti culturali, ambientali, sociali, artistici e i beni comuni come ambito riservato ai beneficiari di reddito minimo, come fosse uno spazio terzo, tra l’occupazione pubblica e quella privata, in cui concentrare chi per meritarsi del sostegno della collettività deve accettare di lavorare gratuitamente. Insomma, il “sociale” e la comunità come ambito minoritario riservato alle fasce più deboli che il mercato non vuole e che non lo Stato non riesce a reintegrare.  Da qui la possibilità di sospendere le “regole” del mercato e anche quelle relative agli appalti pubblici si potrebbe dire. Ma così facendo il raggio d’azione della co-produzione è assai limitato. Di fatto prefigura una situazione in cui c’è il mercato che è quello che conta ai fini dello sviluppo e della crescita e uno spazio terzo dell’economia sociale che risponde al bisogno di mitigarne le disuguaglianze, ma senza mettere in discussione i processi che le producono.

La seconda visione risponde a obiettivi ben più ambiziosi e interventisti in direzione di paradigmi collaborativi che modificano le logiche del mercato, in direzione del lavoro utile ed essenziale prima ancora che produttivo sul piano economico. Utile a mitigare gli impatti dell’impronta ecologica della crescita, a rispondere ai bisogni insoddisfatti dei territori, alla qualità della vita e alla coesione sociale. Ma non come spazio “terzo” riservato agli inoccupabili come nella prima interpretazione, bensì come spazio di co-produzione a sostegno di una transizione giusta, nel senso di equamente distribuita in termini di rischi e opportunità. Se queste ultime sono catturate solo da ristretti gruppi di insider e dai territori in una posizione già di vantaggio, la sostenibilità ecologica è tutt’altro che redistributiva. Ma è proprio questo il punto. Se l’obiettivo è non solo disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni di gas serra, ma anche redistribuire opportunità, la creazione diretta di lavoro utile (prima ancora che produttivo) è parte di un frame emergente che valorizza i circuiti di prossimità territoriale come chiave di volta di una transizione equa e sostenibile.

Va da sé che, per poter essere attivata questa economia di prossimità richiede ingenti investimenti pubblici per sostenere la domanda di beni e servizi collettivi e valorizzare le esperienze collaborative di co-produzione in svariati settori. Ma allo stesso tempo richiede anche che il lavoro creato sia dignitoso e sottratto ai circuiti del lavoro a bassi redditi che in molti di questi ambiti terziari, senza interventi esterni, rappresenta come abbiamo visto una componente strutturale. Ad oggi questi settori sono caratterizzati da un’alta intensità di lavoro e da una produttività bassa e stagnante, soffrendo di conseguenza di una crescente pressione sui costi (principalmente dovuti al fattore lavoro). In conseguenza di questa situazione, il lavoro qui tende ad essere pagato peggio e a subire maggiormente i rischi connessi all’informalità (ad esempio nelle forme del lavoro in nero). Sono inoltre settori in cui si fa un largo ricorso a contratti di lavoro atipici.

In un recente contributo sulla dimensione urbana della prossimità Enzo Manzini (2024) afferma che la prossimità non va intesa solo come condizione fisica e infrastrutturale, né come prerogativa di alcuni quartieri più privilegiati a discapito di altri, ma come una condizione di accessibilità e vivibilità da riconoscere a tutti i cittadini. Abitare collaborativo, spazi verdi di comunità, comunità energetiche, laboratori condivisi di artigianato, produzioni territoriali, commercio di prossimità, agricoltura sociale, servizi sociali, culturali, ambientali, turismo sostenibile sono alcuni degli esempi citati che, sostiene l’autore (ivi), comportano azioni mirate come la localizzazione di attività e servizi vicini ai cittadini; la costruzione di spazi comunità e l’inclusione di tutti gli attori presenti sul territorio. Gli stessi processi di rigenerazione urbana si prestano a questa traduzione, nella misura in cui le azioni materiali (sugli edifici, sugli spazi pubblici) sono accompagnate anche da progetti immateriali volti a ripensare il rapporto tra spazio urbano, servizi e lavoro di prossimità. In questa accezione le città della prossimità sono anche città della cura, dei beni comuni e dell’economia sociale. Ma perché questo si realizzi appieno è necessario che siano anche città della piena e buona occupazione.

Porre le basi di un disegno istituzionale alternativo, fuori dei sentieri istituzionali che si sono consolidati in passato è certamente importante al fine di individuare dei nessi di reciproco rinforzo che possono concorrere al raggiungimento di determinati risultati. Ma prima ancora è fondamentale individuare degli interessi da rappresentare intorno ai quali costruire una visione di società alternativa a quella dominante. Questo chiama in causa l’azione delle forze sociali, delle organizzazioni politiche e sindacali, dei cittadini nel loro duplice ruolo di utenti e co-produttori di beni essenziali. L’alternativa è che di tutto questo continui a occuparsi solo il mercato o chi ha interesse a proseguire lungo le traiettorie del business as usual, sia pure temperate da un po' di coesione sociale ed ecologica in più, ma senza mettere in discussione le asimmetrie che relegano in un cono d’ombra il lavoro sociale e il valore stesso dell’economia sociale.

DOI: 10.7425/IS.2024.03.12

 

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