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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2023

Saggi

L’amministrazione condivisa: perseguire l’interesse generale tra processi e procedimento

Paolo Pezzana


L’Amministrazione condivisa come stile

Gregorio Arena, in un importante saggio pubblicato ben prima della riforma costituzionale in senso sussidiario del 2001, ebbe modo, primo fra i giuristi italiani, di definire la “amministrazione condivisa” in un modo che ancora oggi può essere forse ritenuto il più pertinente. Egli definisce sostanzialmente l’amministrazione condivisa come un metodo amministrativo “fondato sulla collaborazione fra amministrazione e cittadini, che si ritiene possa consentire una soluzione dei problemi di interesse generale migliore dei modelli attualmente operanti, basati sulla separazione più o meno netta fra amministrazione e amministrati”.

Nella visione di Arena, l’amministrazione condivisa è dunque essenzialmente uno stile.

Si tratta di un modo sussidiario, pragmatico e pluralista di concepire, al di là delle cornici giuridico-amministrative allora esistenti, l’esercizio del potere pubblico come un’alleanza fondata da un lato sul riconoscimento e la promozione di saperi e competenze diffusi nella cittadinanza e dall’altro sulla convinzione, costituzionalmente radicata, che la promozione dell’interesse generale e la partecipazione alla funzione pubblica fossero un diritto-dovere di tutti e non una prerogativa esclusiva dello Stato e degli Enti Locali. Un habitus, per dirla con Pierre Bourdieu, che è stato poi progressivamente fatto proprio dall’ordinamento italiano con la legge 328/2000, l’inserimento in Costituzione dell’art. 118 nel 2001, l’adozione di numerosissimi regolamenti comunali, sino a culminare nel 2017 con il Decreto Legislativo 117 (Codice del Terzo Settore) ed in particolare con i suoi articoli 55, 56 e 57, autorevolmente avvallati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 131/2020, che afferma che, con la procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria in essi contenuta, “si è identificato (…) un ambito di organizzazione delle libertà sociali non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle forme di solidarietà che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente”.

Amministrazione Condivisa non significa quindi esclusivamente “co-programmazione” o “co-progettazione” o “amministrazione condivisa dei beni comuni” o “patti di collaborazione”, che sono le forme più diffuse che ad oggi se ne sono date, ma è piuttosto quel habitus che Luciano Gallo, autorevole studioso e interprete della materia, nei suoi interventi è solito definire “il vestito gentile” che il potere della pubblica amministrazione indossa quando, nel campo delle questioni di interesse generale, comprende che solo attivando la responsabilità diffusa dei cittadini e dei corpi intermedi è possibile raggiungere risultati ed impatti trasformativi che il pubblico, da solo, non potrebbe arrivare a conseguire.

E, restando alla definizione di Bourdieu, per il quale l’habitus era sostanzialmente un “programma auto-correggibile”, ossia principio generatore e unificatore che ritraduce e situa continuamente nel tempo e nello spazio le caratteristiche intrinseche e relazionali di un dato ambito sociale in uno stile di vita unitario fatto di persone, beni e pratiche, possiamo probabilmente affermare che l’habitus dell’amministrazione condivisa è qualcosa che non può essere descritto né compreso se lo si riduce ad una mera serie di procedimenti amministrativi.

Cosa disciplinano davvero il D. Lgs. 117/2017 e il D.M. 72/2021

Se concepiamo l’amministrazione condivisa in senso dinamico e processuale più che meramente procedimentale, possiamo renderci agevolmente conto che, come implicitamente già segnalava Gianfranco Marocchi in un suo importante articolo di inizio 2023, la disciplina dell’Amministrazione Condivisa contenuta negli articoli 55-57 del Codice del Terzo Settore e specificata nelle Linee Guida Ministeriali sul rapporto tra Pubbliche Amministrazioni ed Enti del Terzo Settore (DM 72 del 31 marzo 2021), fa segno non solo verso un tema giuridico-amministrativo, ma verso una dimensione più complessa, fatta almeno di tre componenti:

  1. Una serie di procedimenti amministrativi;
  2. Un processo sociale di territorio, dinamico, contestuale e situato;
  3. Un ecosistema collaborativo, nelle parole di Marocchi, che potremmo anche definire come la progressiva costruzione di quello che Gilbert Simondon prima e Bernard Stiegler poi definivano un milieu

Fanno certamente parte dell’Amministrazione Condivisa e ne costituiscono l’oggetto visibile immediato tutti quei procedimenti giuridico-amministrativi nei quali si estrinseca in modo collaborativo e non competitivo la relazione tra Pubblica Amministrazione ed ETS, dalla coprogrammazione alla coprogettazione, dagli accreditamenti per coprogettare allee convenzioni con OdV e APS, ai patti di collaborazione, non esplicitamente menzionati nel codice, ma oggetto di numerosissime regolamentazioni comunali e leggi e provvedimenti regionali che (molte volte precedendolo) si sono collocate nel filone culturale e giuridico di tipo sussidiario e collaborativo aperto dall’art. 118 della Costituzione nel 2001.

Codice e Linee Guida, tuttavia, avendo ben presente che l’Amministrazione condivisa è un habitus che richiede di saper essere indossato con un certo stile per mostrarsi nel suo lato migliore, racchiudono in sé, nella forma di indicazioni procedimentali non prescrittive, anche un’ampia serie di elementi che presuppongano un processo sociale più ampio, situato, agito da una pluralità di portatori di interesse differenti, che può assumere forme e modi differenziati a seconda dei contesti nei quali lo si applica. È la stessa Corte costituzionale a ribadirlo implicitamente nelle motivazioni della sentenza 131/2020: non può esserci amministrazione condivisa senza che vi siano effettivamente un territorio e una processualità in gioco. L’amministrazione condivisa non è una mera opzione tra le altre; è vero che è soggetta alla discrezionalità politica delle amministrazioni - come è legittimo che sia - ma l’amministrazione condivisa laddove il perseguimento dell’interesse generale passi più efficacemente per un processo collaborativo e partecipato, è l’opzione da adottare.

In terzo luogo l’apparato regolatorio dell’Amministrazione Condivisa che si può riscostruire esaminando in modo congiunto fonti normative di livello differente, giurisprudenza e pareri dottrinali, rivela e in qualche modo orienta una dinamica organizzativa vera e propria, fatta di culture, pratiche, finalità condivise, che richiede dunque confronto previo, processi formativi congiunti, una significazione condivisa, consensualità e capacità di gestire interazioni complesse e potenziali conflitti. Si tratta di dinamiche di ecosistema, di per sé adattive, e quindi non facilmente codificabili, che l’ordinamento appare comprendere e sostanzialmente facilitare, definendo coordinate di riferimento e lasciando al territorio e ad agli enti applicanti la possibilità di declinare nel modo più appropriato le modalità operative più consone all’ambiente in questione. In qualche modo, è come se la disciplina dell’amministrazione condivisa potesse essere intesa quale “diritto di una terra di mezzo” nella quale sono l’intenzionalità delle parti in gioco e la loro relazione a strutturare l’ambiente, comprendere e declinare l’interesse generale in senso pratico e a costruire sul campo le condizioni di libertà ed autonomia entro le quali perseguirlo e svilupparlo. È in questo senso che la nozione di milieu associato coniata da Simondon e sviluppata da Stiegler appare assai indicata per definire l’esito dei processi collaborativi cui l’Amministrazione Condivisa fa riferimento.

Primo, Secondo e Terzo Tempo dell’Amministrazione Condivisa

In termini sportivi, una buona metafora per l’Amministrazione Condivisa potrebbe essere quella del Rugby, uno sport bellissimo, duro e di contatto, improntato a regole assai precise, che, per ridurre al minimo le possibilità di farsi male, richiede una preparazione attenta e una buona conoscenza da parte di tutte le parti in gioco, dai preparatori agli allenatori, dai giocatori agli arbitri e financo al pubblico. Particolarmente noto nel Rugby è il fatto che, oltre agli 80 minuti di gioco, suddivisi in due tempi regolamentari da 40, vi è consuetudinariamente un terzo tempo, che vede coloro che sono stati avversari durante la preparazione ed in campo, incontrarsi convivialmente per mangiare e bere insieme alla fine dell’incontro, quale sia stato il risultato ottenuto e scambiarsi opinioni e pareri sul match affrontato. Al di là delle suggestioni metaforiche, potremmo dire che anche per l’amministrazione condivisa occorre una preparazione attenta di tutte le parti in gioco, affinché le pratiche collaborative adottate non degenerino in una competizione mascherata o in un gioco a somma zero; occorre poi un serrato confronto relazionale, che può essere anche acceso e a tratti conflittuale, ma che non deve mai perdere di vista le regole del procedimento amministrativo e il loro scopo, che, come nel Rugby, è quello di avanzare dandosi reciproco sostegno per raggiungere un interesse generale (che nel caso del rugby è il divertimento, non la vittoria ad ogni costo); ci vuole infine la capacità di confrontarsi serenamente e con grande disponibilità reciproca, dopo il procedimento amministrativo, per tenere vivo lo spirito collaborativo e utilizzare al meglio la flessibilità che, anche in fase esecutiva, l’amministrazione condivisa consente. Possiamo quindi dire che anche il processo dell’amministrazione condivisa, ha un suo primo, un suo secondo ed un suo terzo tempo, e che non dedicare adeguata attenzione anche a solo uno di essi rischia di comprometterne lo spirito e l’efficacia.

Il Primo tempo

Il “Primo tempo” dell’Amministrazione condivisa è dunque quello della formazione. A doversi formare è anzitutto una cultura della collaborazione amministrativa, che raramente è già data e che non si esaurisce nell’apprendimento di istituti e regole da parte dei funzionari pubblici e dei rappresentanti degli Enti di Terzo Settore, ma richiede l’affinamento progressivo di una capacità collettiva di leggere e comprendere il territorio, di individuarne desideri, rischi e bisogni e di condividere su di esso una visione trasformativa improntata da un consenso diffuso dell’interesse generale e del bene comune.

È bene ricordare che, come Luciano Gallo non smette di ricordare nei suoi preziosi interventi formativi, quella del Codice del Terzo settore non è una compilazione di norme esistenti ma una vera e propria riforma; come tutte le innovazioni normative non ha solo una componente giuridica, ma anche una componente strategica ed una di processo; esse richiede e richiederà ancora tempo prima che, in modo diffuso, gli attori dell’amministrazione condivisa in tutto il Paese ne padroneggino adeguatamente tutti gli aspetti; tuttavia cominciano ad essere non poche le esperienze locali che muovono passi importanti in questa direzione.

È significativo che, al di là delle formazioni istituzionali di tipo più contenutistico e tecnico, stiano iniziando a moltiplicarsi sui territori momenti formativi e di approfondimento culturale, spesso ma non sempre mossi dalla esigenza di risolvere problemi concreti, nei quali amministratori, dirigenti e funzionari pubblici accettano di confrontarsi con il Terzo Settore non solo e non tanto sugli accordi tecnici ed economici, quanto per comprendere le implicazioni strategiche dell’Amministrazione Condivisa e cominciare ad utilizzarla a scopi trasformativi e di innovazione sociale. Altrettanto significativo è che, in questo tipo di processi, utilizzando risorse di progetto o risorse proprie, spesso condivise con il Terzo Settore, le Amministrazioni pubbliche coinvolte stiano sempre più estendendo la platea dei consulenti e dei formatori coinvolti oltre l’ambito giuridico-amministrativo, includendovi figure professionali specializzate in facilitazione di processi partecipativi complessi e definizione ed accompagnamento di strategie di cambiamento. Numerosi sono gli esempi noti, e probabilmente altrettanti ve ne saranno di meno noti. Personalmente ho avuto modo, da solo o in collaborazione con professionisti come Luciano Gallo ed altri, di accompagnarne di estremamente promettenti e potenzialmente generativi, avvenuti a monte di specifici procedimenti di coprogrammazione e coprogettazione, proprio allo scopo di preparare il terreno all’utilizzo di tali strumenti. Per citarne solo due, una Amministrazione importante come quella della Città di Parma ha proposto nella prima parte del 2023 una formazione interna di oltre 15 ore sull’amministrazione condivisa come processo strategico di cambiamento, dapprima rivolta a tutti i dirigenti e funzionari in posizione organizzativa di tutti i settori della civica amministrazione e immediatamente dopo estesa, in un confronto ampio ed approfondito, a tutti i soggetti di terzo settore della città. Se certamente Parma è una realtà all’avanguardia in tema di consuetudine ai processi partecipativi e capacità di intervento pubblico, analoga esperienza ho avuto modo di svolgerla nell’estate 2023 a Bagnolo Piemonte, un piccolo Comune delle Prealpi Piemontesi, che, con la collaborazione dell’impresa sociale MeWe Abitare Collaborativo ed un finanziamento privato, ha proposto una formazione del genere per un periodo di alcuni mesi a funzionari, amministratori, rappresentanti degli ETS di tutto il comprensorio territoriale, inclusi i Comuni limitrofi, che stanno ora misurandosi con la possibilità di affrontare con gli strumenti dell’amministrazione condivisa alcune importanti sfide di rigenerazione territoriale.

In ambedue queste occasioni, come in molte altre in cui mi sono trovato coinvolto come formatore, è stato particolarmente utile ed arricchente affiancare alla formazione giuridico-amministrativa, elementi di visioning, modelli di lettura dei processi territoriali di creazione del valore, nozioni e pratiche di teoria del cambiamento e di teoria dell’impatto, confronto diretto o indiretto con esperienze di altri territori.

Esiste dunque realmente un “primo tempo” dell’Amministrazione condivisa, che non è del tutto riassumibile nel procedimento di coprogrammazione che pure l’art. 55 del Codice del Terzo Settore non a caso nomina per primo, e comunque non sempre vi coincide. Si tratta di un tempo e di una serie di momenti caratterizzati da processi di apprendimento e socializzazione che hanno una forte natura di tipo politico, nei quali il territorio, magari riscoprendo o valorizzando pratiche già note in passato, comincia o riprende a fare strategia in modo condiviso, individuando nella creazione di una cultura contributiva da parte di tutti i soggetti coinvolti la prima e più importante leva per sviluppare processi sociali ed economici sostenibili e generativi.

Come bene illustra Fabio Cecchinato nella sua opera più recente, un trentennio di neomanagerialismo spinto e competitivo, nel privato come nella pubblica amministrazione, ha depauperato le capacità collaborative diffuse che nell’Italia del dopoguerra erano lentamente generate, contribuendo tanto al boom economico del Paese quanto alla strutturazione del sistema di welfare di cui ancora disponiamo. Non si può fare finta che questo fenomeno non sia accaduto, tanto nella pratica, quanto nei processi formativi della classe dirigente. Per utilizzare al meglio l’amministrazione condivisa occorre rigenerare questa capacità, che, a livello territoriale, spesso ma non sempre, è insita nel genius loci locale e che, in ogni caso, richiede un lavoro di emersione e consolidamento in linea con i tempi nuovi che stiamo attraversando.

È proprio durante queste fasi che alcune comprensioni e caratteristiche fondamentali per un utilizzo appropriato ed efficace dell’Amministrazione Condivisa possono acquisire una fisionomia riconoscibile e consolidarsi all’interno di un territorio: emergono saperi e competenze dei quali non si aveva piena contezza o che non venivano riconosciuti come tali, nel Terzo Settore, tra i cittadini, nelle imprese come nella PA; ci si rende conto che per agire generativamente occorre saper andare oltre i “capitolati”, ossia un modo di concepire ed impostare il public procurement rigido e preordinato; emerge il desiderio dei partecipanti di prendere parte ai processi, non solo la loro competenza tecnica, e quel desiderio impara a prendere le forme di un cambiamento generativo e di una innovazione sociale; si fa strada la necessità di condividere e significare insieme le regole del gioco, per poterle non solo rispettare ma soprattutto utilizzare al meglio per gli scopi cui sono preordinate; può prendere corpo un vero e proprio purpose territoriale, ossia uno scopo comune verso il quale non la sola PA o i soli ETS, ma un intero sistema locale possono sentirsi vocati e orientati.

È la presenza o meno di elementi come questi prima che si avviino i procedimenti amministrativi previsti dagli articoli 55-56-57 del CTS che determina, nella maggior parte dei casi, la possibilità che i medesimi abbiano un esito soddisfacente e positivo.

Per buona parte del 2023 l’ATS di Bergamo, in collaborazione con i Comuni e il Terzo Settore del proprio comprensorio, ha portato avanti un processo preliminare di questo tipo per preparare un lavoro fortemente innovativo da implementare attraverso forme penetranti di Amministrazione Condivisa nell’ambito del sostegno ai caregiver di persone non autosufficienti e fragili. Il Comune di Novara sta conducendo un percorso simile con gli ETS e le altre realtà pubbliche e private che sul territorio della Provincia si occupano di persone senza dimora, immaginando di utilizzare risorse e processi del PNRR non solo per migliorare le capacità di risposta del territorio alla grave emarginazione adulta, ma anche per costituire una infrastruttura giuridica e sviluppare pratiche esemplari che possano sempre piò orientare verso l’amministrazione condivisa i processi territoriali del sistema di welfare locale nel suo insieme. I Comuni di Milano e di Como hanno adottato, dopo aver seguito differenti procedure di condivisione con il terzo settore (audito con attenzione a Milano, addirittura coinvolto in una procedura di coprogrammazione specificamente dedicata a Como) regolamenti municipali sull’Amministrazione Condivisa, allo scopo di rendere chiare a tutti le regole del gioco e di specificarne la valenza strategica per lo sviluppo locale. Si tratta di alcuni processi tra i tanti in corso, partiti a prima vista con il piede giusto; sarà interessante, anche avvalendosi del nascente Osservatorio Nazionale sull’Amministrazione Condivisa, seguirne lo svolgimento per provare a comprendere sempre di più e sempre meglio, al di là delle teorie, cosa è importante che funzioni in questo “primo tempo” perché anche il secondo ed il terzo funzionino adeguatamente.

Laddove il “primo tempo” continui ad essere guidato da una pubblica amministrazione che segue logiche solo apparentemente efficientiste, ma in realtà orientate ad un mero contenimento dei costi, e partecipato da un Terzo Settore imbevuto e condizionato dallo spirito competitivo e dalle conflittualità interne tra soggetti abituati da oltre trent’anni a gareggiare tra loro, ben difficilmente tale esito funzionale sarà possibile. In tal senso è di certo utile la formazione, specie se congiunta, tra decision makers ed operatori pubblici e privati, ma ancora di più lo sono il dialogo sociale diffuso e la possibilità di confrontarsi con esperienze esemplari che consentano di “toccare con mano” quanto un territorio che cambia paradigma e diviene collaborativo finisca con l’essere anche maggiormente generativo e capace di conseguire impatti, non solo sociali, in modo efficiente ed efficace.

Il secondo tempo

Il “secondo tempo” dell’Amministrazione Condivisa è quello del procedimento amministrativo, ossia di quel complesso di fasi, atti, relazioni e momenti che vanno dalla emanazione di un atto di avvio del procedimento sino all’adozione dei suoi atti conclusivi.

È il momento più propriamente “tecnico”, nel quale si applicano le regole dettate dal legislatore e le norme applicative individuate dalle autorità competenti. Sui modi e le forme dell’Amministrazione Condivisa è stato detto e scritto molto; si tratta di un corpus di esperienze in divenire, che ancora solo parzialmente sono state sottoposte ad un vaglio giurisdizionale e sulle quali dunque non esiste ancora una giurisprudenza sufficientemente consolidata da offrire riferimenti e precedenti di sicura solidità, almeno relativamente ad alcuni aspetti (es. rendicontazione); è dunque un ambito in cui l’interpretazione e la capacità generativa stanno in dialogo fecondo con il diritto amministrativo e nel quale sono spesso le persone, con le loro qualifiche professionali, le loro competenze, il loro coraggio e il loro desiderio a fare la differenza.

È questo secondo tempo il momento del processo nel quale cultura, valore condiviso e relazioni possono esprimersi al meglio ed emergere come fattori decisivi per una collaborazione efficace.

Il panorama attuale delle procedure di amministrazione condivisa è in lenta evoluzione e non mancano le criticità. Osservando la maggior parte degli avvisi pubblici in merito pubblicati negli ultimi anni non è facile cogliere, negli atti formali e nelle pratiche effettive, i segni di una effettiva e generalizzata maturazione della cultura collaborativa nei rapporti tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore in Italia. Questa rivista negli ultimi anni ha offerto spazi importanti alla ricerca, al confronto e allo studio di questo tema ed è certamente tra le voci che maggiormente hanno contribuito e stanno contribuendo ad accompagnare l’evoluzione dell’Amministrazione Condivisa[1]. Il dialogo sociale e la cultura sul tema, nonostante le tante occasioni formative che fortunatamente si moltiplicano, non appaiono tuttavia ancora al passo con la velocità con la quale l’applicazione dell’amministrazione condivisa va diffondendosi, con la conseguenza che, in molti territori del Paese, anche l’Amministrazione Condivisa corre il rischio di scivolare lungo una china di tipo burocratico e utilizza la collaborazione come maschera per un riconoscimento ancora troppo debole del ruolo, delle competenze e dei saperi specifici del Terzo Settore, svilendone la percezione e forse in parte ancora sfruttandone il carattere di potenziale erogatore a basso costo di prestazioni di cui non si pesa così tanto la qualità; e tutto ciò non favorisce un clima di fiducia. Anche per fronteggiare rischi di questo genere è necessario, nel “secondo tempo” uno sforzo culturale di carattere tecnico, giuridico e amministrativo per dare coerenza e qualità agli atti che si compiono e comprendere sino in fondo che non si può utilizzare l’Amministrazione Condivisa come un surrogato low cost del codice dei contratti pubblici.

Senza entrare in tecnicalità inerenti coprogrammazione, coprogettazione, convenzioni ex art. 56 e 57, patti di collaborazione (che, pur non rientrando tra gli istituti previsti dal D. Lgs. 117/2017, rappresentano a pieno titolo, tanto ai sensi della legge 241/1990 quanto dei numerosissimi atti regolamentari locali e leggi regionali che li disciplinano, una particolare specie del genus dell’amministrazione condivisa, anche quando non ricompresi in procedure esplicitamente previste dal Codice del Terzo Settore), dal dibattito più qualificato emergono due elementi fondamentali a connotare la qualità di un buon “secondo tempo” dell’Amministrazione Condivisa:

  • La centralità del procedimento di coprogrammazione;
  • La necessità di una conduzione dei lavori professionale, capacitante e facilitante la postura contributiva e collaborativa.

La coprogrammazione, che sia promossa dalla Pubblica Amministrazione o avviata su istanza di parte di uno o più ETS, è nevralgica e centrale perché riguarda, prima che entri in gioco la negoziazione di risorse economiche da allocare tra i partecipanti ed in forme che l’art. 55 e il D.M. 71 lasciano volutamente aperte ed elastiche, il momento in cui Pubblica Amministrazione ed Enti di Terzo Settore sono chiamati a compiere alcuni passaggi fondamentali per rivelare da dove quel processo di amministrazione condivisa proviene e dove può condurre.

In primo luogo, nel corso di una coprogrammazione le parti sono chiamate a condividere formalmente una visione del territorio in cui collocare il tema che intendono affrontare; una lettura che riguarda rischi, bisogni, desideri e possibilità di futuro. Abbiamo visto quanto sia importante, nel primo tempo dell’Amministrazione Condivisa, che Pubblica Amministrazione ed ETS abbiano modo di sperimentarsi e confrontarsi nel costruire visioni di questo tipo; la coprogrammazione è il momento in cui esse, entrando nel procedimento amministrativo, si fanno azione sul piano politico oltre che sociale. Appare dunque chiaro quanto un territorio in cui non si sia maturato a sufficienza un clima collaborativo nel primo tempo, possa fare fatica ad affrontare compiutamente una coprogrammazione e si spiega forse anche così perché molte coprogrammazioni abbiano tempi molto lunghi oppure perché, in molti, troppi casi ancora, la coprogrammazione sia omessa per aprire direttamente, spesso in modo affrettato ed approssimativo, la fase di coprogettazione. Ciò rappresenta una criticità notevole in molti casi, e va evitata, vuoi imparando a usare al meglio lo strumento della coprogrammazione, vuoi, ove sia comunque necessario attivare una coprogettazione in tempi brevi, dedicandone la prima fase in modo attento a recuperare quei determinanti elementi di sfondo che non si sono potuti approfondire in precedenza.

In secondo luogo, nella coprogrammazione le parti sono chiamate ed hanno la possibilità di definire insieme le regole specifiche del loro gioco. Ovviamente l’ordinamento giuridico nazionale, regionale e locale traccia un perimetro già sufficientemente strutturato per l’Amministrazione Condivisa; tuttavia, in quanto procedura contestuale e situata, grazie all’autonomia organizzativa degli enti locali e alla capacità propositiva degli enti di terzo settore, questa fase dell’Amministrazione Condivisa può essere declinata in molti, moltissimi modi differenti e venire incontro in modo molto personalizzato alle esigenze delle parti e del territorio. È interessante, ad esempio, che il Comune di Como abbia deciso di ricorrere proprio ad una procedura di coprogrammazione per coinvolgere gli ETS nella scrittura di quel particolarissimo programma di azione condivisa che è stato il Regolamento Comunale dell’Amministrazione Condivisa del Comune di Como[2]. Importante è sottolineare come di tali regole del gioco faccia parte anche la condivisione delle modalità di facilitazione dei lavori e conduzione dei tavoli di lavoro. Non dedicare in coprogrammazione sufficiente spazio a questi aspetti può condurre, e spesso conduce, a fraintendimenti ed ambiguità che corrono poi il rischio di riverberarsi in maniera via via più amplificata nei procedimenti di coprogettazione o nelle procedure successive. Una buona attività di facilitazione che accompagni la procedura è utile anche per aiutare le parti a dedicare il giusto tempo ed attenzione a questa propedeutica ma fondamentale impostazione del lavoro condiviso.

In terzo luogo, nella coprogrammazione le parti possono fare strategia, e farlo ciascuna portando attivamente il proprio contributo. Esse sono cioè chiamate, nello specifico della questione affrontata, a condividere e concertare una specifica organizzazione di mezzi, strumenti e risorse in funzione del raggiungimento di un obiettivo condiviso, che spesso, trattandosi di processi di innovazione sociale, è o può essere un vero e proprio obiettivo trasformativo nel senso in cui lo intendono le teorie del cambiamento. È questo il momento in cui emerge la parte più propriamente contributiva dell’Amministrazione Condivisa, quella che distingue in modo strutturale le procedure collaborative da quelle competitive, ossia la dichiarazione da parte di ciascun soggetto partecipante del contributo che può e intende fornire al perseguimento dell’interesse generale rappresentato dal perseguimento di quello specifico obiettivo che insieme ci si pone. Tale contributo può essere dato in risorse economiche, personale, volontariato, immobili, beni materiali e immateriali, ma in ogni caso avrà un valore, che le linee guida ministeriali indicano anche come valorizzare economicamente. È questo il “giacimento di risorse” che i partner condividono e mettono a disposizione per affrontare i rischi e i bisogni sociali cui l’Amministrazione Condivisa si rivolge, non, come ancora molti pensano, il solo budget economico messo a disposizione dall’amministrazione procedente. Qualora la coprogrammazione sia propedeutica ad una coprogettazione, sarà da quel giacimento comune che si dovrà attingere per determinare le risorse disponibili per il progetto, non solo dal bilancio pubblico. È questo un principio chiave dell’Amministrazione Condivisa, ed è in questa fase che esso può avere la sua più tangibile e concreta emersione e condivisione. Sono sempre più chiare le coordinate interpretative che possono aiutare a qualificare e quantificare le risorse a disposizione; meno chiare sono, per il momento, le procedure di contabilizzazione e rendicontazione, ma solo iniziando in maniera diffusa a sperimentare sul campo forme di “contabilità dell’amministrazione condivisa” e a richiedere pareri e interpelli alle autorità competenti si potrà pervenire ad un corpus via via più stabile ed omogeneo di riferimenti, utili anche per comprendere sempre meglio cosa l’Amministrazione Condivisa davvero è e quanto può valere, oltre che per gestirne le singole procedure.

Da ultimo, in questa fase le parti possono decidere insieme cosa considerare “risultato” per la loro comune azione strategica. In una coprogrammazione è possibile, ancor prima ed ancor meglio che in una coprogettazione, definire insieme indicatori e modalità di misurazione degli impatti che si vogliono ottenere e in base ai quali considerare efficaci o meno le azioni da mettere in campo, per riorientarle se necessario. Non trattandosi di una procedura competitiva, nulla vieta infatti di condividere senso e metriche di ciò che, insieme, si potrà successivamente misurare come un risultato positivo o meno, anche ai fini di valutare come agire sempre meglio e come allocare eventuali premialità in termini di risorse aggiuntive che si ritenesse di mettere a disposizione, ad esempio in una coprogettazione, di coloro che concorrano meglio e di più ad ottenere risultati superiori alle aspettative. È questa una opportunità particolarmente importante e significativa di orientare in senso contributivo, sostenibile ed efficiente i processi di amministrazione condivisa, che ancora poco è colta ed utilizzata ma che è destinata a conoscere una espansione progressiva con l’estendersi della cultura outcome based tra i decisori della PA.

Importante e non scontato è ricordare qui che l’esito di una coprogrammazione non deve necessariamente essere una coprogettazione, anche se prima facie potrebbe apparire essa la più naturale e logica conseguenza di tale procedimento. Una coprogrammazione compiuta secondo le modalità più appropriate può benissimo esitare, per le ragioni viste sopra, in una concorde scelta delle parti per una “veste giuridica” diversa alla coprogettazione per passare alla fase esecutiva dei programmi adottati (è sempre con la adozione di un atto programmatorio, come lo si voglia definire, che un procedimento amministrativo di coprogrammazione si conclude). Esistono molte forme, dai contratti ad impatto agli appalti innovativi, che possono avere molto da dire in ambito sociale e che, in specifiche condizioni e contesti, se concordati tra i partners pubblici e privati, potrebbero non solo rispettare lo spirito dell’Amministrazione Condivisa, ma fornire addirittura ad essa migliori e più solide opportunità di raggiungere i propri obiettivi trasformativi, anche se la coprogettazione resta sempre la strada maestra cui fare riferimento. Sarebbe oltremodo utile, anche per superare alcune barriere nel coinvolgimento contributivo di soggetti che non sono ETS iscritti al RUNTS in procedimenti di interesse generale evidente e tangibile, approfondire tali possibilità e la possibilità di fare un uso ibrido di codice del terzo settore e codice dei contratti pubblici, che riserva probabilmente in se grandi possibilità generative per il bene comune.

Il secondo elemento fondamentale che, nel “secondo tempo” dell’Amministrazione Condivisa, emerge come decisivo è la modalità attraverso la quale i procedimenti sono condotti. Graziano Maino e Marco Cau, su questa rivista, hanno recentemente condotto una accurata e analitica disamina di quanto una facilitazione efficace e professionale possa giovare ad un processo di amministrazione condivisa. Qui non vi è molto da aggiungere, se non che, nella logica dei “tre tempi”, il facilitatore di un tavolo, specie se esterno alle parti coinvolte e formato professionalmente, può avere un ruolo straordinario nel far emergere a canalizzare il “potenziale contributivo” dei partecipanti, che rientra, a ben vedere, tra gli aspetti anche tecnici e non solo valoriali verso i quali l’Amministrazione Condivisa è orientata.

In una lunga e articolata procedura di coprogettazione in tema di sostegno all’autonomia delle persone con disabilità finanziata con fondi PNRR e tenutasi su avviso pubblico del Comune di Padova nel corso dell’anno 2023, è stato assai interessante e particolarmente significativo osservare come la facilitazione abbia favorito, ben oltre le intenzione dei facilitatori, l’emersione tra le parti di una attitudine a collaborare attivamente che esse stesse all’inizio del processo non ritenevano scontato raggiungere.

In ogni caso, il “momento della verità” di una procedura di amministrazione condivisa, per dirla con una celebre espressione di Richard Normann, è quando il procedimento si chiude e apre le proprie serrande sul bisogno, ossia quando si stipulano gli accordi operativi mediante convenzioni che allocano le risorse disponibili e comincia la fase esecutiva di quanto si è programmato e progettato.

Il terzo tempo

Se è vero che i procedimenti amministrativi relativi all’Amministrazione condivisa si chiudono sempre con un atto amministrativo, che può avere la forma di un programma, di un piano, di una convenzione discendente da un progetto ex art. 55, o da una convenzione ex art. 56 e 57, è altrettanto vero, come detto all’inizio, che il processo di amministrazione condivisa non termina con il procedimento, ma con il raggiungimento o meno dell’obiettivo trasformativo che ci si era proposti.

È per questa ragione che si può parlare a buon diritto di un “terzo tempo” dell’amministrazione condivisa, che è quella fase in cui le parti, mantenendo o meno vivo e agendo o meno lo spirito contributivo e collaborativo che le ha ispirate nel procedimento, ne sviluppano le conseguenze e ne valutano progressivamente, nei modi e nei periodi convenuti, efficacia e impatto.

Ciò che accade in questa fase è tanto più rilevante quanto più si consideri una caratteristica peculiare dei procedimenti di amministrazione condivisa: essi sono, per loro stessa natura, anche giuridica, di fatto sempre “rivedibili”, ossia possono essere costantemente riaperti dalle parti per comune volere per modificare, rivedere, riorientare, sempre a risorse pubbliche date (altrimenti si correrebbe il rischio di violare l’evidenza pubblica nell’assegnazione di nuovi contributi), le azioni concordate, per rendere più e meglio rispondenti all’obiettivo da perseguire. Nulla vieta neppure alle parti, qualora le risorse disponibili vengano esaurite prima del previsto o non di rivelino sufficienti, di aprire la procedura a nuovi partner e di fare insieme fund raising e nuove progettazioni per integrare con risorse nuove di provenienza esterna alla pubblica amministrazione il giacimento di risorse inizialmente esistente. Solo nel caso siano necessarie nuove risorse pubbliche occorrerà un nuovo avviso pubblico, altrimenti, nel periodo di esecuzione concordato, è il consenso delle parti a guidare lo sviluppo del progetto ed i suoi accrescimenti ed impatti.

Tanto più questo “terzo tempo” sarà corretto, aperto e conviviale nello stile, tanto più i partecipanti al processo potranno inoltre rafforzarsi nella loro attitudine collaborativa, propensione contributiva e cultura dell’Amministrazione Condivisa, rinforzando così nel territorio in modo graduale e progressivo la sussistenza di quelle precondizioni che renderanno sempre più solidi ed evoluti anche i “primi tempi” ed i “secondi tempi” nei processi e nelle procedure successive.

Se è vero che in questa fase non occorre probabilmente presupporre la presenza costante di facilitatori professionali come quelli utili invece nel momento precedente, è vero anche però che, sia in caso di riapertura dei tavoli, sia nei momenti periodici di valutazione, sia in sede di valutazione di impatto, anche in questo terzo tempo la presenza ad hoc di figure professionali competenti può essere assai utile ed efficace.

Anche se non sono ancora molte, soprattutto per ragioni cronologiche, le esperienze di amministrazione condivisa che si siano evolute e concluse con valutazioni di impatto solide e partecipate e che abbiano generato eredità culturali importanti sui territori, in molte parti del Paese cominciano a consolidarsi segnali importanti in questo senso. Particolarmente utili per facilitare questa emersione potrebbero essere, tra le altre, le comunità di pratiche tra partecipanti a processi di amministrazione condivisa che il Forum nazionale del Terzo Settore, all’interno del programma FQTS, sta cominciando a promuovere.

Conclusioni

In conclusione, nell’attesa che in Italia le esperienze di Amministrazione Condivisa concepite e condotte in modo appropriato evolvano e si consolidino, costituendo un deposito ed una eredità esemplare per gli altri territori, possiamo dire che sin d’ora l’Amministrazione Condivisa, cui guardano con interesse molti altri Paesi Europei, può essere considerata come una straordinaria e potente infrastruttura giuridico-amministrativa per costruire territori capacitanti e contributivi, nei quali il welfare locale sia considerato davvero una leva per lo sviluppo locale e possa trovare nella capacità contributiva degli attori sociali del territorio, il fattore decisivo per la propria sostenibilità.

DOI: 10.7425/IS.2023.04.03

 

References

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Watzlawick P. , Weakland J.H., Fisch R., (1974), Change, principles of problem formation and problem resolution, New York.

 

[1] Si vedano, da ultimo e tra gli altri, i pregnanti contributi raccolti sul numero 3/2023 della rivista, disponibile su www.rivistaimpresasociale.it

[2] Si veda la deliberazione n. 37 R.G. del Consiglio Comunale di Como del 2 ottobre 2023, in https://www.comune.como.it/export/sites/default/it/doc/partecipazione/amministrazione-condivisa/REGOLAMENTO-AMMINISTRAZIONECONDIVISA-CONSIGLIO-COMUNALE-DEL-02.10.23.pdf

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