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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-4-2023-i-rapporti-giuridici-cooperativi-tra-pubbliche-amministrazioni-e-ets-imprese-sociali-potenzialita-e-criticita

Numero 4 / 2023

Saggi

I rapporti giuridici cooperativi tra pubbliche amministrazioni e ETS/imprese sociali. Potenzialità e criticità

Alceste Santuari


Abstract

Gli istituti giuridici cooperativi contemplati dal Codice del Terzo settore rappresentano un metodo di azione delle pubbliche amministrazioni e degli Enti del Terzo settore, individuando procedure innovative per affrontare, tra l’altro, alcune sfide che interessano e interesseranno anche in futuro i servizi di welfare. Gli istituti in parola identificano uno “schema di gioco” giuridico e programmatorio diverso da quello più tradizionale degli appalti pubblici. Sia la pubblica amministrazione, sia gli ETS che partecipano ai vari tavoli di co-programmazione, di co-progettazione ovvero sottoscrivono convenzioni sono chiamati non soltanto a modificare il “loro vissuto culturale”, ma anche ad accettare un rapporto non più soltanto di committenza-erogatore, bensì costruito sulla condivisione di obiettivi e, quindi, caratterizzato da un elevato grado di solidarietà. In questo senso, non è marginale che l’azione congiunta di P.A. ed ETS sia funzionale alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione. L’articolo che segue intende analizzare le esperienze di co-programmazione, co-progettazione e convenzionamento avendo quale focus quello del giurista che supporta gli enti pubblici e gli ETS a comprendere, applicare e valutare gli istituti giuridici cooperativi.

 

Una premessa di fondo (e d’obbligo)

Per la loro organizzazione, gestione, erogazione e, quindi, fruizione, le attività, le prestazioni e gli interventi di interesse generale, specie quelli rivolti alle persone fragili, in difficoltà, con disabilità et similia possono risultare oggetto di procedure alternative a quelle tipicamente impiegate per relazionarsi con gli operatori di mercato. Ne discende che gli istituti giuridici cooperativi non possono trovare nelle regole competitive il loro fondamento giuridico: i primi, rispetto alle seconde, rappresentano, quindi, un paradigma alternativo, in quanto alla concorrenza e alla competizione antepongono la collaborazione e le partnership[1]. Le difficoltà della pubblica amministrazione, ma anche, come si vedrà, del Terzo settore, a metabolizzare questa novità decisiva sono uno degli elementi alla base delle resistenze che saranno trattate nella seconda parte di questo contributo. In questa prima parte, l’intenzione è quella di inquadrare dal punto di vista della riflessione giuridica e istituzionale il nuovo paradigma collaborativo, affinché le procedure amministrative e la prassi applicativa che verranno dettagliate nella seconda parte del contributo trovino una loro naturale collocazione e comprensione.

E ciò, a fortiori, se si considera che non esiste una chiara linea di demarcazione tra quanto è riconducibile sic et sempliciter alla sfera dell’evidenza pubblica di natura competitiva e a quella collaborativa. Ciò che influenza la scelta di una procedura in luogo di un’altra è l’obiettivo ovvero gli obiettivi che le pubbliche amministrazioni intendono conseguire. In quest’ottica, in linea teorica, una pubblica amministrazione potrebbe anche considerare “neutri” i meccanismi selettivi ovvero comparativi, ma tale neutralità dovrà necessariamente risultare cedevole nei confronti dell’azione, degli interventi, e, anzi, forse più di tutto, del metodo che la pubblica amministrazione intende promuovere. Se, per esempio, l’intenzione di una azienda sanitaria locale ovvero di un comune o altro ente pubblico territoriale è quella di coinvolgere in modo attivo gli enti del terzo settore, in quanto detto coinvolgimento è ritenuto un “plus” in termini di costruzione di risposte efficaci nella costruzione di un moderno welfare locale, le procedure competitive non sono in grado di per sé di conseguire questo obiettivo. Per contro, se la finalità delle medesime pubbliche amministrazioni è quella di reperire determinati servizi ovvero prodotti sul mercato dei fornitori privati, gli istituti giuridici cooperativi non sembrano adeguati a realizzare la finalità in parola, in quanto le pubbliche amministrazioni dovranno selezionare i soggetti fornitori (anche) sulla base della convenienza economica delle loro offerte.

Conseguentemente, la pubblica amministrazione individuerà i processi collaborativi quale “strada maestra” ogni qualvolta l’obiettivo perseguito non sia identificabile con la selezione di un unico soggetto erogatore. Da un lato, infatti, gli istituti cooperativi di cui al Codice del Terzo settore si prestano alla realizzazione di obiettivi condivisi tra pubbliche amministrazioni ed Enti del Terzo settore: le prime non esercitano la funzione di committenza, mentre i secondi partecipano al procedimento amministrativo[2]. Dall’altro, le procedure di cui al Codice dei Contratti pubblici, informate al principio di concorrenza di derivazione eurounitaria, risultano obbligatorie quando le pubbliche amministrazioni svolgono la loro attività di committenza al fine di individuare sul mercato concorrenziale l’operatore economico privato affidatario della produzione di un bene ovvero dell’erogazione di un servizio[3].

Nel quadro sopra brevemente delineato, il paragrafo che segue intende contribuire alla comprensione del principio di sussidiarietà quale “framework” teorico-giuridico a sostegno dell’azione e delle attività degli Enti del Terzo settore. In quest’ottica, infatti, il principio di sussidiarietà deve considerarsi in antitesi ai processi competitivi, tipici dell’azione delle pubbliche amministrazioni quando queste ultime si rivolgono al mercato degli operatori economici privati per ottenere prestazioni per le quali gli enti pubblici si impegnano a versare un equo corrispettivo.

La sussidiarietà quale principio legittimante gli istituti giuridici cooperativi

Gli istituti di natura cooperativa, che derivano la loro legittimazione normativa dal principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, u.c. della Costituzione, affermano un paradigma di azione della pubblica amministrazione, caratterizzato da una propria autonomia[4] e orientato al coinvolgimento di tutti gli enti non profit (non soltanto degli Enti del Terzo settore) della società civile in progetti, interventi e attività prive di un sinallagma ossia progetti, interventi e attività che non risultano connotati da prestazioni corrispettive[5].

Quando si affronta il principio di sussidiarietà, prima facie, si può correre il rischio di trovarsi a ripetere concetti, formule ovvero paradigmi risaputi e persino scontati, non solo perché molti aspetti del principio in parola sono noti, ma anche perché spesso si ritiene che essi non possano effettivamente incidere sui rapporti che si instaurano, ovvero che possono instaurarsi tra pubbliche amministrazioni ed enti non profit[6].

Da un lato, la sussidiarietà può essere interpretata alla stregua di un criterio di apertura e favore nei confronti delle varie manifestazioni degli individui singoli e delle formazioni sociali e delle attività che da questi sono esercitate autonomamente. E ciò, conseguentemente, comporta anche un dovere in capo ai decisori pubblici di non intervenire laddove l’azione dei corpi sociali sia rivolta a realizzare gli stessi fini perseguiti dagli enti pubblici. Dall’altro, la sussidiarietà implica un intervento sostitutivo delle istituzioni pubbliche nei casi in cui i singoli cittadini e le collettività minori non riescano a svolgere in modo adeguato i compiti di cura degli interessi collettivi[7]. Da questi due profili del principio di sussidiarietà discende che il sussidio che l’entità maggiore deve dare a quella minore subisce delle limitazioni: quando la prima abbia portato la seconda a un livello tale che la stessa possa proseguire con le proprie forze al fine di soddisfare i propri bisogni, la maggiore deve ritirarsi e intervenire solo quando la minore si trovi nuovamente nelle condizioni di essere aiutata[8]. Il principio di sussidiarietà orizzontale presuppone, in definitiva, che la società nelle sue varie forme (come comunità di persone a livello sub-statale, statale e internazionale) si ponga al servizio della persona umana considerata sia singolarmente sia nelle varie formazioni sociali in cui può esplicarsi la sua personalità (secondo la massima: civitas propter cives, non cives propter civitatem).

In questa prospettiva, si coglie pienamente il collegamento tra la sussidiarietà e il principio del pluralismo sociale, espresso all’art. 2 Cost., che identifica i corpi intermedi ovvero le istituzioni della società civile[9]. Principio di solidarietà e di sussidiarietà, pertanto, definiscono un nuovo paradigma[10] in cui collocare i rapporti di natura cooperativa e collaborativa tra pubbliche amministrazioni e soggetti non profit[11] nel perseguimento di finalità di interesse generale[12], escludendo conseguentemente le regole di mercato, che, invece, caratterizzano le relazioni sinallagmatiche a prestazioni corrispettive[13].

Un’analisi delle esperienze vissute

Alla luce delle necessarie premesse di contesto giuridico e di metodo sopra richiamate, si intende di seguito evidenziare alcune osservazioni che nascono dall’esperienza. Nello specifico, si intende fare qui riferimento all’attività di supporto giuridico-amministrativo svolta a favore di alcune pubbliche amministrazioni - enti locali ed aziende sanitarie - nella predisposizione degli avvisi di co-programmazione e di co-progettazione, delle convenzioni con le organizzazioni di volontariato e di promozione sociale, nonché nella predisposizione della regolamentazione interna per disciplinare i rapporti giuridici tra enti pubblici ed enti del terzo settore. Di seguito si provano ad elencare alcuni dei profili / aspetti riscontrati nell’attività sopra descritta.

La diffidenza “culturale” nei confronti degli istituti cooperativi

In primo luogo, almeno in una prima fase, si avvertiva una sorta di ritrosia culturale nei confronti degli istituti giuridici disciplinati dal Codice del Terzo settore, poiché gli “addetti ai lavori” sono stati formati, anche nelle aule universitarie, e poi educati nell’ambito lavorativo alla logica contrattualistica. In sostanza, almeno nella prima fase di vigenza del Codice del Terzo settore, permaneva la convinzione che fosse più “prudente”, più “sicuro”, in ultima analisi, più aderente a criteri di legittimità normativa utilizzare gli strumenti del Codice dei Contratti pubblici. Questo, paradossalmente, anche in casi in cui l’Ente pubblico riconosceva i buoni motivi della collaborazione, anche se considerava preziosa l’interlocuzione con gli Enti di Terzo settore. Ma, contraddittoriamente, al momento di tradurre questa sintonia in atti concreti, spesso optava per una apparentemente più prudente “gara d’appalto”, magari auspicando che il suo esito confermasse le preesistenti relazioni collaborative. Ciò non significa che tali enti non abbiano praticato da anni strumenti quali le “convenzioni”, da lungo tempo diffuse nei rapporti tra pubblica amministrazione e soggetti non lucrativi, in particolare con quelli dove è più rilevante l’azione volontaria gratuita. Queste convenzioni, tuttavia, non hanno – anche per la loro stessa natura – attirato troppa attenzione, poiché riguardano profili marginali nell’organizzazione complessiva delle attività e dei servizi (in specie di welfare territoriale). Pertanto, accettare che ci possano essere strumenti e modalità di raccordo con le organizzazioni non profit fondate su elementi non competitivi risulta prima facie difficile da comprendere.

La difficoltà di “accettare” che anche nei rapporti giuridici con gli ETS rilevi il contenuto economico

In secondo luogo, conseguenza diretta della diffidenza culturale sopra richiamata, risulta la compresenza di attività, servizi, interventi e progetti realizzati insieme con gli enti del terzo settore, per i quali, comunque, l’ente pubblico deve prevedere un quadro economico di riferimento, che, tuttavia, non contempla la corresponsione di risorse economiche all’ente/agli enti coinvolti. Si tratta di una difficoltà che, peraltro, è stata alimentata in passato anche dall’azione interpretativa della giurisprudenza amministrativa (cfr. per tutti il parere consultivo del Consiglio di Stato del 2018) e da prassi amministrative consolidate secondo le quali i rapporti con gli enti del terzo settore dovrebbero essere ispirati alla “gratuità”, intesa come assenza di contenuti economici o come sua radicale limitazione, nella convinzione che il contenuto economico ricondurrebbe quegli stessi rapporti nell’alveo dei contratti a prestazioni sinallagmatiche. In sostanza, si assiste a casi in cui una pubblica amministrazione accetta di discutere insieme al Terzo settore strategie e interventi da adottare e si mostra ben disposto a riconoscere il suo ruolo di partner; ma al tempo stesso appare riluttante a dar corso alla conseguente allocazione di risorse necessaria per realizzare quanto insieme convenuto. Tale riluttanza può assumere forme radicali, laddove, porti, in omaggio a tale malinteso principio di gratuità, ad escludere ogni flusso economico verso il Terzo settore o comunque a rifiutare l’utilizzo di risorse pubbliche ad indennizzo dei costi sostenuti per assicurarsi i “fattori produttivi” quali il personale. In altri casi, tale diffidenza si esprime in termini più blandi, ma comunque significativi, ad esempio escludendo i costi indiretti dalle spese ammissibili a rendiconto o imponendo quote di cofinanziamento talvolta anche molto alte. In sostanza, così facendo la collaborazione è in via teorica ammessa e magari anche apprezzata, ma di fatto resa insostenibile. Questa circostanza è, tra l’altro, alla base della ritrosia che, a sua volta, una parte del Terzo settore, e specificamente la sua componente imprenditoriale, esprime nei confronti dell’amministrazione condivisa, ritenendola appunto in linea di principio auspicabile, ma di fatto non praticabile se non in forme marginali.

Può essere utile citare, rispetto a questo tema, una vicenda che ha riguardato le forme di attuazione del PNRR, missione 5, investimento 1.1.1. Inizialmente, l’Agenzia per la Coesione aveva pubblicato una FAQ in cui, appunto, si precludeva la possibilità di ammettere, in caso di coprogettazioni, la rendicontazione di costi sostenuti dal Terzo settore per voci quali le spese di personale; a seguito dell’interlocuzione con il Forum Nazionale del Terzo settore, subito intervenuto ad evidenziare l’incoerenza con l’evoluzione normativa degli ultimi anni, l’Agenzia per la Coesione Territoriale (settembre 2023), affermava con propria nota che la presenza di flussi economici, compresi quelli che vanno a compensare le spese di personale o di altro genere sostenute dagli Enti di Terzo settore, non può essere considerata una contraddizione nei percorsi di amministrazione condivisa. E ciò sia perché gli interventi e le azioni da realizzare necessariamente coinvolgono investimenti, finanziamenti e “rischi” imprenditoriali sia perché i soggetti di terzo settore diversi dalle organizzazioni di volontariato e di promozione sociale possono legittimamente ambire a vedersi riconosciuti contributi adeguati alla loro attività.

Una errata percezione delle procedure

In terzo luogo, si è potuta avvertire la difficoltà di considerare anche gli istituti giuridici cooperativi alla stregua di procedure ad evidenza pubblica, come se queste ultime fossero appannaggio e definissero soltanto il public procurement tradizionalmente inteso. In altri termini, si avverte una contraddizione tra il ricorso alle procedure ad evidenza pubblica e la disciplina di rapporti con soggetti giuridici che non fondano il loro agire su meccanismi competitivi. Sino a tempi recenti, era quindi diffusa la convinzione che, mentre gli appalti richiedono di rivolgersi in modo imparziale e trasparente a tutti i soggetti potenzialmente interessati e aventi i requisiti per partecipare, il principio di collaborazione comportasse in sé un’attenuazione delle necessità di evidenza pubblica, quasi che per il fatto di optare per una coprogettazione o una coprogrammazione sia autorizzati, nella forma più estrema, a scegliere direttamente e arbitrariamente i propri interlocutori o, in forme attenuate, a inserire negli avvisi pubblici criteri di individuazione dei partecipanti (es. avere già lavorato con l’amministrazione procedente) che nessun amministratore pubblico ipotizzerebbe mai di inserire in un capitolato d’appalto. L’idea che l’amministrazione condivisa implichi una possibilità di attenuazione dell’evidenza pubblica è, a ben vedere, coerente con le altre due resistenze prima richiamate, perché è evidente che se coprogrammazioni e coprogettazioni sono terreno dell’opacità, esse non possono che essere limitate a interventi residuali e secondari.

Simmetricamente, la conseguita consapevolezza che, al contrario, l’amministrazione condivisa non porta con sé alcuna attenuazione della trasparenza, ha portato non pochi enti pubblici a considerare il momento dell’individuazione dei partecipanti alla stessa stregua della selezione da operarsi in una gara d’appalto, misconoscendo il carattere fondamentalmente diverso delle due operazioni: nel caso di una coprogrammazione o di una coprogettazione, l’individuazione, attraverso criteri predeterminati, di quali Enti di Terzo settore possono effettivamente contribuire in modo adeguato a cooperare con altri Enti di Terzo settore e con la pubblica amministrazione alle finalità condivise; nel caso di una gara d’appalto, l’assegnazione di una fornitura. Quando si vedono avvisi di coprogettazione fortemente selettivi, con avvisi strutturati in modo da mettere in competizione coloro che aspirano a coprogettare l’un contro l’altro, in cui non vengono esplorati i possibili terreni di collaborazione tra enti, si assiste ad un riduzionismo del secondo tipo qui considerato.

Come affrontare queste resistenze

Avuto riguardo ai tre elementi di difficoltà sopra brevemente descritti, si prova ora a proporre taluni accorgimenti che possono essere adottate per accompagnare gli operatori pubblici a superare e vincere le resistenze nei confronti degli istituti giuridici cooperativi.

La riscoperta della pazienza

Il primo atteggiamento da avere è quello della pazienza: poiché le procedure ad evidenza pubblica di natura competitiva sono a presidio degli affidamenti pubblici da decenni, non si può pretendere che sei anni (il tempo che ci separa dall’approvazione del Codice del Terzo settore) possano risultare sufficienti per “controbilanciare” una conoscenza più consolidata. A ciò si deve aggiungere la necessità di far comprendere che le procedure di cui gli artt. 55 e seguenti del Codice del Terzo settore, in larga parte, possono risultare flessibili e duttili. In questo senso, è pertanto utile dialogare e confrontarsi con gli operatori pubblici circa il grado di libertà e di iniziativa che essi intendono assumersi nel conseguimento degli obiettivi strategici che gli organi competenti hanno inteso favorire. A fronte di una manifestata volontà di adottare strumenti collaborativi, non si tratta quindi di proporre un percorso preconfezionato, ma di valutare un insieme di opzioni – sui cui criteri di ammissione al procedimento, di valutazione di chi ispira a parteciparvi, sulle forme di regolazione del lavoro dei tavoli, ecc. – tutte ugualmente legittime da un punto di vista giuridico, tutte non prive di conseguenze sulle caratteristiche che l’esperienza di collaborazione avrà. In questo senso, deve essere chiaro che le procedure collaborative richiedono più tempo, sono più complesse, possono risultare anche talvolta pesanti, rispetto alle tradizionali procedure di gare.

Va poi considerato che la necessità di essere pazienti non si esaurisce nella redazione degli atti del procedimento, ma investe il procedimento stesso e poi la fase attuativa. Il procedimento, in quanto non sempre risulta immediato inserire in uno schema sinergico visioni, sensibilità e anche interessi diversi dei partecipanti al tavolo. Si tratta molto spesso di cercare, appunto con pazienza, le soluzioni, di dare lo spazio adeguato alle istruttorie delle diverse questioni da affrontare. La fase attuativa, in quanto le esperienze documentano come molte volte l’assetto del progetto da realizzare venga più volte ridiscusso durante la realizzazione delle azioni, come salutare effetto di una valutazione dell’andamento, alla ricerca di soluzioni sempre più adeguate. Ma tutto questo, richiede appunto la pazienza di cercare le soluzioni un po’ per volta, consapevoli che più le sfide sono complesse, più saranno ampi i tempi per delineare un quadro di azioni soddisfacente; e di questo è necessario tenere conto anche quando si definiscono i tempi di vigenza dell’accordo, che devono essere congrui rispetto agli obiettivi di cambiamento ipotizzati.

L’adeguatezza del Terzo settore

Chiariti gli aspetti sopra indicati, l’esperienza maturata in questi ultimi anni porta ad affermare che le pubbliche amministrazioni, una volta assimilata la “funzionalità” degli istituti giuridici cooperativi, sembrano, in larga parte, ben disposte ad affrontare percorsi innovativi e diversi rispetto a quelli maggiormente invalsi e conosciuti. La condizione per realizzare questa “scelta” è tuttavia, in molti casi, dettata dalla presenza di Enti del Terzo settore preparati, ben disposti a collaborare e a condividere le responsabilità pubbliche. Un esempio è costituito da una azienda sanitaria locale che ha chiamato a raccolta le imprese sociali e gli Enti del Terzo settore del territorio chiedendo ai medesimi di condividere una fase transitoria che porterà il sistema dei servizi di welfare locale a traghettare da una impostazione prestazionale e contrattualistica ad una maggiormente fondata su logiche non competitive. Ora, è chiaro come il confrontarsi con sfide così rilevanti richiede un vero e proprio salto di qualità ad un Terzo settore che per decenni è stato ingaggiato nell’offrire prestazioni a fronte di un quadro definito dalla pubblica amministrazione, che già prefissava azioni da svolgere, professionalità, orari, ecc. L’assunzione di questo nuovo ruolo richiede volontà politiche, consapevolezza, scelta di investimento, che non possono essere dati per scontati e che è necessario impegnarsi a diffondere con una paziente azione formativa.

Un coinvolgimento esteso

Si potrebbe altresì aggiungere che nella costruzione e definizione degli strumenti partecipativi sia necessario, non opzionale, lavorare sul coinvolgimento di tutti gli operatori coinvolti. Le procedure non competitive richiedono, per loro stessa natura, la partecipazione di tutti gli attori, pubblici ed Enti del Terzo settore, che, nonostante non siano operatori economici di mercato, richiedono comunque, da parte delle pubbliche amministrazioni di essere valutate e selezionate, se del caso. Di qui la necessità di prevedere procedure ad evidenza pubblica, che rimangono tali, anche se diverse da quelle che informano i rapporti concorrenziali di cui al Codice dei contratti pubblici.

Senza entrare nel merito delle diverse e legittime opzioni in termini di criteri per individuare i partner di Terzo settore, va comunque tenuto a mente un principio generale: anche laddove, come sopra evidenziato, si operi una selettività al fine di assicurare la competenza dei partecipanti al tavolo o alla ricerca di un equilibrio tra ampiezza dei contributi e fluidità dei lavori, in generale va richiamato che i procedimenti collaborativi si nutrono per loro natura di pluralismo, dell’integrazione e della sintesi tra punti di vista e sensibilità diverse. Dunque, è sempre opportuno che l’elemento selettivo, quando presente, non mortifichi questa specifica caratteristica di apertura dell’amministrazione condivisa.

Amministrazione pubbliche coinvolte e consapevoli

Nel comparto pubblico (si pensi ad un comune ovvero ad un’azienda sanitaria) non sono pochi i soggetti che si interfacciano, a diverso titolo, con gli enti del terzo settore. Ecco, allora, che funzionari e dirigenti sono chiamati ad essere coinvolti nella definizione degli strumenti giuridici partecipativi. Nello specifico, per esempio, nella costruzione e definizione dei regolamenti interni alle pubbliche amministrazioni, la partecipazione e il confronto attivi tra uffici, competenze e sensibilità diverse hanno non soltanto arricchito il testo finale, ma hanno permesso soprattutto di evidenziare i potenziali rischi di una procedura innovativa ovvero hanno consentito di individuare potenzialità “locali” che, una semplice stesura “top-down” non avrebbero permesso. Da questo punto di vista, è evidente che il lavoro che gli uffici (o uffici e organi politici) realizzano congiuntamente per giungere alla definizione di un regolamento sull’amministrazione condivisa ha un doppio valore: da una parte, può rappresentare un effettivo momento di approfondimento che migliora la qualità dei futuri procedimenti da un punto di vista tecnico, dall’altra il fatto stesso di dedicare attenzione e riflessione al tema fa crescere la consapevolezza nell’utilizzo di tali strumenti. Inoltre, nei contesti amministrativi come i comuni dove è presente un livello tecnico e uno politico, l’approvazione di un regolamento costituisce un momento centrale per favorire la sintonia tra i due tipi di soggetti e per connotare l’amministrazione condivisa come una scelta politica e strategica dell’ente e non solo come iniziativa personale di specifiche persone.

Lasciare un reale spazio al contributo del Terzo settore

Un altro profilo di indubbio interesse è rappresentato dalla necessità di “riempire” gli avvisi di co-programmazione e di co-progettazione di contenuti coerenti con gli obiettivi prefissati dai medesimi istituti giuridici cooperativi. In altri termini, se gli avvisi ripercorrono, anzi “copiano” gli stessi contenuti di una procedura competitiva, specificando quindi in modo analitico le attività da svolgere – sino all’indicazione di profili professionali, monteore, ecc. – oltre a compiere un’azione assai discutibile da un punto di vista giuridico, si corrono due rischi: il primo consiste nella “co-progettazione andata deserta”, nel fatto cioè che gli Enti di Terzo settore, sentendosi svalutati nella loro progettualità e in qualche modo “traditi” rispetto all’enunciata volontà collaborativa, si tengano lontani dalla procedura o vi partecipino in modo dimesso; mentre il secondo rischio è quello di avere un soggetto di terzo settore che “vince la co-progettazione”, quindi che vi risponde al pari di come farebbe in un capitolato di appalto, senza quindi predisporsi ad un confronto con altri ma limitandosi a “proporre la propria migliore offerta” nella speranza di essere selezionato. Si è voluto, scientemente, indicare le espressioni effettivamente utilizzate da taluni protagonisti di coprogettazioni seppure siano tecnicamente inesatte, in quanto sono paradigmatiche di altrettante concettualizzazioni che è possibile registrare nella implementazione degli istituti collaborativi. Poiché le procedure previste dagli artt. 55 e seguenti del Codice del Terzo settore sono ispirate alla legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, che riconosce un significativo spazio di autonomia e libertà di movimento alle pubbliche amministrazioni, occorre impiegare tale spazio per definire avvisi che specifichino con chiarezza gli obiettivi dell’avviso, l’oggetto dello stesso, le modalità e i processi che si intendono attivare, nonché le risorse economiche che si intendono mobilitare.

Le convenzioni art. 56, queste sconosciute

Con riferimento alle convenzioni (art. 56 del Codice del Terzo settore), si è potuta registrare una diffusa distonia tra l’utilizzo delle medesime e gli obiettivi che i singoli enti pubblici intendono perseguire. Un esempio eclatante potrebbe essere così riassunto: un ente locale ha recuperato uno spazio inutilizzato, ha individuato le attività che in esso devono essere realizzate, conosce gli enti del terzo settore che sul territorio possono svolgere in modo più adeguato e proficuo quelle attività ed è altresì in grado di finanziare l’intero progetto. La procedura inizialmente individuata era stata quella della co-progettazione, scelta che appariva discutibile dal momento che non era chiaro perché co-progettare un intervento già definito a monte dalla pubblica amministrazione. Quando si è segnalata all’amministrazione la possibilità di ricorrere allo strumento della convenzione ex art. 56 del Codice del Terzo settore, nella quale sono previsti i rimborsi delle spese e tutti gli obblighi e i diritti del soggetto “attuatore” e dell’ente pubblico, nonché la possibilità di effettuare una valutazione comparativa delle organizzazioni di volontariato e di promozione sociale potenzialmente interessate alla gestione dello spazio, l’atteggiamento, in principio ostile dell’ente locale, si è trasformato in curiosità e intenzione di approfondimento di uno strumento ancora poco conosciuto tra quelli a disposizione degli enti pubblici per la realizzazione di finalità di interesse generale.

Valorizzare la corresponsabilità

A quanto sopra è forse necessario aggiungere che, in altri casi, le resistenze maggiori da parte degli enti pubblici sono derivate dalla mancanza di conoscenza delle potenzialità degli strumenti in parola. In particolare, si ignora ancora la possibilità che nell’ambito della co-programmazione e della co-progettazione, agli enti del terzo settore possa essere richiesto di apportare proprie risorse. È questo un tema delicato e forse ancora poco dibattuto: si tratta di un apporto volontario e non direttamente commisurato all’attività da svolgere. Non si tratta, pertanto, di un co-finanziamento – e tanto meno di un cofinanziamento vincolante, percentualizzato, talvolta, come si vede in taluni avvisi, con numeri a due cifre -, che la normativa non prevede e che risponde ad altre esigenze, diverse da quelle contemplate dagli istituti giuridici cooperativi, fondati, invece, sulla condivisione di obiettivi e di responsabilità. Si tratta in altre parole di riconoscere nel Terzo settore un partner da valorizzare non solo per gli aspetti operativi, ma in quanto capace di offrire sensibilità, competenze, idee che possono contribuire alla buona riuscita degli interventi, nonché dalla capacità – in fase di avviso e poi ancor più in fase di realizzazione degli interventi – di mobilitare risorse diffuse del tessuto sociale locale, nonché di attivarsi imprenditorialmente per costruire nell’ambito del partneriato le condizioni di sostenibilità del progetto.

Sarebbe a questo punto necessario considerare anche il “lato ETS”, in quanto anche essi non risultano scevri da atteggiamenti culturalmente e storicamente consolidati, che, in alcuni contesti, portano i percorsi collaborativi ad essere più faticosi, pesanti e, talvolta, anche frustranti per chi vi partecipa. Ci si riferisce in particolar modo all’atteggiamento che, in alcune aree territoriali, esprimono le imprese sociali. Queste ultime, per loro natura giuridica ed assetti gestionali ed organizzativi, e perché collocati in un sistema di welfare che, tradizionalmente, ha privilegiato i rapporti sinallagmatici nella gestione dei servizi socio-sanitari, si trovano a partecipare a processi collaborativi in cui la loro componente imprenditoriale è collocata in un contesto cooperativo e collaborativo con altri soggetti. Ne discende che le imprese sociali sono chiamate a svolgere un’azione proattiva e partecipativa, anziché concepirsi quali soggetti erogatori “di ultima istanza” come, al contrario, avviene nel sistema degli appalti pubblici.

Tuttavia, è bene precisare che le imprese sociali (nello specifico, le cooperative sociali), ancorché ricomprese nella nozione unitaria di Enti del Terzo settore, sono ontologicamente diverse dagli altri enti del terzo settore che partecipano ai tavoli di co-programmazione e co-progettazione. La loro membership estesa, il numero di dipendenti, la dimensione organizzativa e le risorse che esse mettono in campo, non possono non sollevare qualche dubbio sulla loro “equiparazione” con gli altri soggetti del terzo settore. Ancorché le imprese sociali possano “alternativamente” partecipare alle procedure competitive ovvero a quelle collaborative, qualora decidano di aderire agli avvisi di co-programmazione e co-progettazione, esse, più di altri Enti del Terzo settore, sono chiamate a considerare non soltanto gli investimenti da effettuare, ma anche la dimensione temporale degli stessi e i possibili scenari di sviluppo.

Sebbene non sia ad oggi ipotizzabile costruire percorsi diversi per i diversi ETS, lo svolgimento dei lavori dei tavoli di co-programmazione e di co-progettazione potrebbe contemplare una sorta di distinzione tra attività/interventi, valutando quali meglio si adattano/si addicano alle imprese sociali, in particolare.

Le coprogettazioni con accreditamento

Un ulteriore elemento che è utile portare all’attenzione di chi legge è quello relativo alla possibilità di ricorrere alla co-progettazione per realizzare procedure di accreditamento (libero). Si tratta di un istituto giuridico che contempla un titolo abilitativo che la pubblica amministrazione riconosce ai soggetti giuridici non profit, i quali sono ritenuti idonei a svolgere una certa attività ovvero ad assicurare l’erogazione di un servizio di interesse generale. Poiché la procedura in parola non sottende alcuna selezione e non risulta propedeutica all’affidamento di un servizio, essa risulta estranea non soltanto alle procedure competitive di matrice eurounitaria, ma anche rispetto all’invalsa erogazione di servizi socio-sanitari fondata sulla definizione di un contingente massimo di operatore accreditabili. L’accreditamento libero sottende comunque la predeterminazione dei criteri di affidamento del servizio e del relativo regime economico e, quindi, i criteri per selezionare i soggetti non lucrativi che più di altri possono risultare idonei a realizzare percorsi collaborativi stabili e duraturi nel tempo. L’interesse suscitato da questo approdo del percorso di co-progettazione deriva in particolare dal fatto che l’istituto in parola, inteso quale regime abilitante e autorizzatorio, risulta funzionale a identificare gli ETS che possono gestire anche servizi, oltre ad attività “singole”. Questo mi sembra il “valore aggiunto” del percorso in parola, atteso che, attraverso l’accreditamento libero, le aziende sanitarie e i comuni possono individuare una platea di soggetti idonei con i quali stabilire rapporti giuridici a medio-lungo termine.

Gli immobili come terreno di collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore

Si intende, infine, accennare alla possibilità di utilizzare la previsione dell’art. 71 del Codice del Terzo settore. In ossequio a questo articolo, gli enti pubblici sono autorizzati a destinare spazi, sedi, immobili di loro proprietà e non utilizzati a fini istituzionali all’utilizzo degli enti del terzo settore; questa disposizione appare di particolare interesse per gli enti locali, che spesso dispongono di locali inutilizzati e che potrebbero ragionevolmente individuare una sintonia tra i propri compiti e i possibili utilizzi realizzabili da Enti di Terzo settore. In molti casi, gli enti pubblici non sono avvertiti della possibile combinazione che l’art. 71 potrebbe avere nell’ambito di un percorso di co-progettazione, inteso come opzione da inserire quale “oggetto” di una co-progettazione territoriale. In altri termini, l’utilizzo e la gestione di uno spazio pubblico, anche recuperato dalla criminalità organizzata, diventa oggetto della proposta progettuale condivisa con gli enti del terzo settore.

Conclusioni

Le esperienze vissute e in progress permettono di individuare una P.A., da un lato, curiosa di comprendere come applicare le procedure e, dall’altro, ancora diffidente nei confronti degli istituti giuridici cooperativi. Si tratta di una diffidenza che, comunque, è spesso riconducibile ad una carenza di conoscenza delle potenzialità, della disciplina e delle possibili evoluzioni che gli artt. 55 e seguenti del Codice del Terzo settore contemplano. Da ciò discende, talvolta, un loro impiego non coerente o, comunque, non conforme al dettato normativo. Si pensi, al riguardo, ad avvisi di co-progettazione che contemplano clausole, requisiti e condizioni tipici dell’agire competitivo. Una delle conseguenze di questo approccio è quello di provocare disillusione negli ETS partecipanti, in quanto per loro stessa natura, conformazione e finalità, essi sono “vocati” a partecipare a processi collaborativi e non concorrenziali[14]. Si ritiene che la fiducia reciproca, tra pubbliche amministrazioni ed Enti del Terzo settore, si rafforzi, si promuova e, quindi, diventi generativa di processi virtuosi, si alimenti anche di procedure chiare negli obiettivi, nei percorsi da realizzare e, infine, nelle forme di coinvolgimento (chiaro ed attivo) degli attori non lucrativi.

Alla luce delle note che precedono, si possono individuare alcune linee di azione per il prossimo futuro, affinché le procedure di cui al Codice del Terzo settore possano invero produrre effetti positivi sulle comunità in cui esse si svolgono. In primis, occorre continuare ad investire in formazione “on the job”, intesa quale attività di sensibilizzazione circa gli strumenti giuridici cooperativi, anche ipotizzando percorsi formativi congiunti, che sappiano “far confrontare” e “dialogare” le pubbliche amministrazioni e gli Enti del Terzo settore. In secondo luogo, occorre prevedere forme e modalità di accompagnamento e supporto ai funzionari/dirigenti pubblici e ai responsabili / operatori degli Enti del Terzo settore, attraverso i quali favorire una approfondita conoscenza e, quindi capacità di valutazione, dei diversi strumenti a disposizione per realizzare obiettivi di interesse generale. In terzo luogo, si ritiene indispensabile agire sul fronte “interno” alle pubbliche amministrazioni, nel senso di prevedere modalità, formule e forme di "integrazione” tra diversi uffici, aree di responsabilità e posizioni organizzative, che contribuiscano a migliorare il dialogo e confronto in ordine alle procedure che si ritengono più adeguate per conseguire determinati obiettivi. Un simile approccio risulta viepiù necessario in quei contesti in cui si ritiene ovvero si è convinti che esiste soltanto una modalità, segnatamente, il paradigma competitivo. Conseguente a questo terzo profilo, se ne può registrare un quarto, che corrisponde alla capacità delle amministrazioni procedenti di coinvolgere gli Enti del Terzo settore in processi di cambiamento e di “traghettamento” da un sistema (competitivo) ad un altro (collaborativo).

Si tratta di “avvertenze” che discendono direttamente dal principio di sussidiarietà, analizzato nei paragrafi che precedono, che dimostra la propria “capacità di adattamento” in contesti in cui l’affermazione e la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni sono affidate all’agire condiviso e non solamente alle responsabilità delle istituzioni pubbliche.

DOI: 10.7425/IS.2023.04.02

 

 

References

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[1] La differenza ontologica tra gli “universi” sopra richiamati è stata confermata nella sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020: in quell’occasione, il Giudice delle Leggi ha identificato gli istituti giuridici collaborativi alla stregua di un “canale” di cooperazione tra ETS e pubblica amministrazione “alternativo a quello del profitto e del mercato» e capace di superare il tradizionale rapporto sinallagmatico.” La sentenza in argomento conferma dunque la piena legittimità di rapporti che non si fondano unicamente sulla relazione di scambio tra prestazioni erogate dagli ETS e corrispettivi previsti e versati dalla P.A. La diversità tra istituti giuridici di collaborazione e procedure di mercato è stata ribadita nel decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 72 del 31 marzo 2021, recante “Linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore negli articoli 55 -57 del decreto legislativo n. 117 del 2017”.

[2] Deve notarsi che la partecipazione dei soggetti privati al procedimento amministrativo è fortemente debitrice agli studi amministrativi “che la concepirono come una condizione essenziale al fine di adeguare il modello di amministrazione al nuovo quadro costituzionale”. Così, M. Cocconi, La partecipazione all’attività amministrativa generale, Padova, Cedam, 2010, p. 22.

[3] Le medesime procedure di mercato permettono in ragione delle finalità di interesse generale perseguite di restringere la concorrenza a taluni operatori economici. In quest’ottica, la Direttiva 24/2014/UE prevede uno specifico favor legis per quegli organismi che, in ragione delle finalità sociali perseguite e delle specifiche caratteristiche organizzative, risultano maggiormente idonei ad erogare i servizi individuati nell’art. 77, par. 1. Le organizzazioni in parola devono a) perseguire una missione di servizio pubblico legata alla protezione sociale che forma oggetto di gara; b) reinvestire i propri profitti in vista del conseguimento dell´obiettivo dell´organizzazione ovvero provvedere alla loro distribuzione sulla base di condizioni partecipative; c) presentare una struttura di gestione (management) o di proprietà (ownership) fondata sul principio di partecipazione dei dipendenti, degli utenti o dei soggetti interessati; d) non risultare affidatarie di un appalto per il medesimo servizio nel corso dell’ultimo triennio.

[4] Attenta dottrina ha inteso segnalare come appaia “utile preservare l’originalità di questi accordi già dalla loro denominazione, che sarebbe, viceversa, contraddetta se si lasciasse intendere che l’unico regime applicabile per gli accordi fosse quello del diritto pubblico”. Così, Giglioni, Nervi, op. cit., p. 17, i quali riferiscono di una corrente dottrinale che ha sostenuto il contrario per lungo tempo: in argomento, si veda A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1962, p. 382; P. Stella Richter, Atti e poteri amministrativi (tipologia), in Diz. amm., Milano, 1983, p. 396.

[5] Sul punto, il Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 26 luglio 2018, Numero affare 01382/2018, avente ad oggetto: Autorità Nazionale Anticorruzione – ANAC. Normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 e del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, ha evidenziato che il “concetto di onerosità, […] costituisce la linea di faglia fra i servizi economici di interesse generale, soggetti al Codice [dei contratti pubblici), ed i servizi non economici di interesse generale, viceversa in radice ad esso estranei. Concetto complementare a quello di gratuità già precedentemente esaminato.” In dottrina, si è segnalato che la gratuità, “quando si esprime in favore dell’amministrazione e nell’ambito della sua attività, dimostra un nesso con la realizzazione dell’interesse generale e con il dovere di solidarietà”. Così, D. D’Alessandro, Funzione amministrativa e causa negoziale nei contratti pubblici non onerosi, Napoli, ES, 2018, p. 10.

[6] In argomento, si veda G. Manfredi, La sussidiarietà orizzontale e la sua attuazione, in www.amministrazioneincammino.it, 30 novembre 2016.

[7] In argomento, si vedano G. Feliciani, Principio di sussidiarietà e organizzazioni non profit nella dottrina sociale della Chiesa, in G. Vittadini (a cura di), Il non profit dimezzato, Milano, Egea, 1997, p. 47 ss. e L. Rosa, Il “principio di sussidiarietà” nell’insegnamento sociale della Chiesa. La formulazione del principio e la sua interpretazione, in Aggiornamenti sociali, novembre 1962, p. 589 ss.

[8] P. Magagnotti, Il principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa, Bologna, 1991, p. 4.

[9] Questi “[…]sono il punto di sintesi di un’esperienza radicata nel territorio nel tempo e si caratterizzano per la capacità di focalizzare la propria azione sul tentativo di rispondere alle istanze e ai bisogni della società civile – intesa sia come singoli individui, ma anche nelle innumerevoli forme associative in cui è organizzata. La governance locale si caratterizza così per un rapporto paritario tra le istituzioni del settore pubblico, serventi, e le istituzioni della società civile, capaci di generare aggregazioni […]”. Ferrari 2009, 45. Sulla portata dell’art. 2 Cost., si veda, tra gli altri, S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Bari, 2014, p. 67, dove l’A. identifica il precetto costituzionale quale “criterio ordinante dell’insieme delle relazioni tra i soggetti, assumendo il valore di un connotato della stessa cittadinanza, intesa come insieme delle prerogative della persona. Letto in un contesto che attribuisce un ruolo essenziale all’azione delle istituzioni della Repubblica, l’accento posto sulla solidarietà non qualifica soltanto un principio fondamentale, ma mette pure in rilievo come l’azione istituzionale non esaurisca l’insieme delle azioni socialmente necessarie, chiamando così ogni cittadino alla realizzazione del programma costituzionale”.

[10] Indubbiamente, il principio di sussidiarietà rappresenta un elemento cruciale per l’individuazione di nuovi assetti di partnership tra enti pubblici e soggetti privati (non profit) e, in specie dopo le modifiche introdotte all’art. 118 Cost. è stato (ed è) impiegato molto spesso quale parametro di “giudizio” dell’intervento delle autorità pubbliche, da un lato, e dell’azione della società civile e delle sue aggregazioni, dall’altro. Tanto che, in punto di ironia, si è osservato che il principio di sussidiarietà è divenuto “un po’ come il prezzemolo, lo si può mettere un po’ ovunque, tanto non è quello che fa la differenza”. F. Giglioni, Servizi pubblici locali, sussidiarietà e mercato, in www.labsus.org., 29 settembre 2008.

[11] Sul rapporto tra enti locali e principio di sussidiarietà, vedi V. Tondi Della Mura, Sussidiarietà ed enti locali: le ragioni di un percorso innovativo, in www.federalismi.it, 20, 2007. Sempre sul tema, dello stesso A., si veda anche Della sussidiarietà orizzontale (occasionalmente) ritrovata: dalle linee guida dell’Anac al Codice del Terzo settore, in Rivista AIC, N°: 1/2018, 30 marzo 2018, in part. p. 7 ove l’A. segnala che il principio di sussidiarietà ha contribuito ad un’evoluzione dello Stato moderno nell’ambito del quale si riconosce “il diverso ruolo cui ora è chiamato il potere pubblico, così da esprimere un assetto sociale inteso non più in modo verticistico, ma nella pluralità di forme e contenuti che caratterizzano il tessuto comunitario; un assetto volto a ricondurre a sintesi la molteplicità delle istanze avanzate dall’insieme delle realtà, private e pubbliche, costituenti la “Repubblica”.

[12] Così recita l’art. 118, comma 4, Cost.: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.” In dottrina, si è sottolineato che la disposizione de qua non ha mancato di suscitare diversi e contrastanti interpretazioni: da una parte, quanti ne hanno svalutato la portata innovativa in quanto già ricavabile nel testo del 1948 e quanti sostengono che la stessa collocazione nel testo costituzionale determini l’impossibilità di considerare la disposizione alla stregua di un “principio di sistema”. Poiché esso è collocato nel Titolo V della Parte II della Costituzione, all’interno di un articolo riferito all’esigenza di razionalizzare l’allocazione delle funzioni amministrative, l’art. 118 u.c. non potrebbe assurgere a principio costitutivo di un modello di “Stato comunitario”. Dall’altra parte, invece, si registra la posizione di quanti, prescindendo dalla collocazione nel testo costituzionale ne rilevano la portata rivoluzionaria, tanto da fondare un nuovo paradigma pluralista e paritario” che sostituisce “quello bipolare e gerarchico tradizionale”. Così, P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, Bologna, il Mulino, 2018, pp. 48-49.

[13] Recentemente la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 131 del 2020) ha ribadito che l’art. 118, u.c. Cost. ha inteso valorizzare “l’originaria socialità dell’uomo”, superando “l’idea per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale e si è riconosciuto che tali attività ben possono, invece, essere perseguite anche da una «autonoma iniziativa dei cittadini» che, in linea di continuità con quelle espressioni della società solidale, risulta ancora oggi fortemente radicata nel tessuto comunitario del nostro Paese.” In questo modo, secondo il Giudice delle Leggi, “si è identificato così un ambito di organizzazione delle «libertà sociali» (sentenze n. 185 del 2018 e n. 300 del 2003) non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle «forme di solidarietà» che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese «tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (sentenza n. 309 del 2013).” Per una interessante lettura della sentenza n. 131 del 2020, in specie sotto il profilo del diritto tributario, si veda G. Boletto, La sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020. Il suo (possibile) impatto nel sistema di imposizione dei redditi del Terzo settore, in Impresa Sociale, 2/2021, pp. 7 ss.

[14] Sulla necessità che gli enti locali agiscano in modo coerente nell’ambito degli istituti giuridici cooperativi, si veda Tar Lombardia, sez. I, sentenza 3 aprile 2020, n. 593, con la quale i giudici amministrativi hanno richiamato gli enti locali ad esperire procedure idonee e adeguate alle finalità che la P.A. intende conseguire.

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