Tra i tanti fenomeni connessi alla vorticosa diffusione di iniziative di coprogettazione, vi è una deriva che merita alcune riflessioni.
Tale deriva consiste nella povertà del pensiero politico e strategico su questi temi o, meglio, nell’appiattimento, soprattutto nell’ambito dell’impresa sociale, di tale pensiero su un’agenda definita da istanze tecniche. Il pensiero strategico, cioè l’elaborazione consapevole circa la direzione verso cui andare in coerenza con obiettivi di medio lungo periodo, tipica di chi esercita la leadership di un movimento, tende a dissolversi, lasciando che a dettare la linea siano considerazioni di tecnici, avvocati, commercialisti o di operatori che hanno come unico riferimento le proprie situazioni contingenti.
Va premesso che di pensiero tecnico c’è sempre bisogno e che la produzione di contributi su questo piano è di per sé assai utile: si pensi ad esempio a pubblicazioni che mettono a disposizione modelli per gli avvisi pubblici e gli altri atti di un procedimento di amministrazione condivisa, al contributo di chi ha professionalità ed esperienza nella gestione dei gruppi di lavoro, a chi si occupa di valutazione, a chi affronta questioni fiscali e contabili circa le questioni legate alla rendicontazione, ecc. Tutte cose utilissime. Il problema nasce appunto quando la tecnica assorbe e orienta il pensiero politico e strategico e dove quindi quest’ultimo si atrofizza.
Facciamo un esempio. Il “tecnico” afferma: «se l’ente pubblico ha già deciso cosa fare, deve ricorrere ad un appalto; se ritiene opportuno che il “cosa fare” sia definito insieme al Terzo settore, valorizzandone le sensibilità, le idee e le proposte, ha senso coprogettare». Corretto.
Il problema è che manca la frase successiva, quella di chi esprime un pensiero strategico e che dovrebbe argomentare i buoni motivi per cui la seconda opzione è, di norma, preferibile alla prima. E di qui, dopo che il pensiero politico e strategico ha tracciato la direzione, ha senso ritornare, in coerenza con tale orientamento, al pensiero tecnico: “e dunque, dal momento che si auspica la seconda opzione, come devono essere scritti gli avvisi, come vanno condotti i tavoli di lavoro, come va impostata la rendicontazione, ecc.”. Ma se il passaggio politico e strategico latita, se si gioca sulle corde di una malintesa neutralità, tutto diventa asettico e, in ultima analisi, conservativo. Le questioni sono trattate in modo “neutro”, magari rappresentando con competenza i problemi, ma senza poi avere indirizzi sulla base dei quali lavorare alle soluzioni; e restituendo quindi ai practitioners un’immagine di intricata complessità.
Così, anche se non mancano esempi imprese sociali protagoniste dei migliori esempi di amministrazione condivisa, non è infrequente ascoltare posizioni che paiono quasi compiacersi delle difficoltà esistenti, non solo senza impegnarsi nel cercare soluzioni, ma anche con il malcelato intento di alludere al fatto che, in fondo, l’amministrazione condivisa generi troppi problemi e che quindi sia meglio abbandonarla (o marginalizzarla in ambiti magari stimolanti e creativi, ma del tutto periferici) per ritornare agli scenari precedenti dominati dagli appalti.
Ma davvero si può porre in modo asettico l’alternativa tra 1) la perpetuazione di sistemi di intervento connotati da carenze sostanziali e in cui il Terzo settore è chiamato spesso a conferire personale a basso costo (questa è la realtà di molti affidamenti) e, dall’altra parte, 2) lo sforzo congiunto da parte di un’alleanza dei soggetti – pubblici e di terzo settore – di interesse generale volta a migliorare le condizioni dei cittadini? Davvero, per fare un esempio, fornire personale ad una casa di riposo con tutte le intrinseche violenze che caratterizzano questo tipo di struttura (Fazzi L., (2021), Il maltrattamento dell'anziano in RSA. Analisi del fenomeno, strumenti per l'individuazione, strategie di prevenzione, Feltrinelli, Milano) è un’opzione sullo stesso piano rispetto al darsi uno spazio per immaginare – enti pubblici e terzo settore insieme – prospettive di maggior benessere per i nostri anziani? Davvero si può guardare con tecnica neutralità alle questioni fondamentali per la vocazione di chi opera per l’interesse generale? Insomma, come può avvenire che cooperatore sociale possa con distacco affermare che “se l’ente pubblico è alla ricerca di un fornitore di servizi faccia un appalto, se è alla ricerca di un partner faccia una coprogettazione” senza però al tempo stesso entrare pesantemente in campo per sostenere le buone ragioni della seconda opzione?
Ciò non significa che i richiami alle “prospettive di senso” possano assorbire i tanti problemi quotidiani che la pratica propone, e che dunque la visione qui proposta porti a sottovalutare le tante circostanze, effettive o potenziali, che rischiano di azzoppare l’amministrazione condivisa, come se il richiamo al “bene superiore” debba rappresentare già in sé un elemento decisivo per derubricare ogni difficoltà a questione minuta e irrilevante. Al contrario, chi ha a cuore una prospettiva di trasformazione e di cambiamento è del tutto coinvolto ad affrontare, con pazienza e determinazione, ad uno ad uno i problemi che si pongono nell’attuazione pratica dell’amministrazione condivisa. Proprio perché ritiene tale prospettiva politicamente e strategicamente decisive, studia, si arrovella, si documenta, sperimenta, scrive, parla e comunica con l’intento di comprendere e, poi, di affrontare e risolvere tutte le problematicità che si presentano nella pratica; ciò mentre altri le enumerano per concludere frettolosamente che quindi l’amministrazione condivisa “non si può fare”.
Così, quando capita di leggere o ascoltare posizioni problematiche rispetto all’amministrazione condivisa, è necessario attivare il proprio senso critico. E riconoscere che non tutte le posizioni sono sovrapponibili. Proviamo a spiegarci con un esempio che presenta taluni tratti simili al tema di cui qui si tratta.
Possiamo ascoltare la frase “l’applicazione della legge Basaglia è stata problematica” da parte di persone che hanno in mente due prospettive radicalmente diverse: da parte di chi si rammarica della sua applicazione timida e insufficiente e che vorrebbe un più radicale superamento della tradizionale psichiatria segregante e quindi più risorse per affrontare i problemi di salute mentale sul territorio; o da chi, in cuor suo, ritiene che i matti debbano essere rinchiusi in manicomio. Di nuovo, a meno di non appiattire ogni pensiero politico e strategico, queste due posizioni non sono la stessa cosa. Possono constare di parole critiche che, astratte dal contesto del discorso, presentano espressioni simili, ma hanno a mente prospettive diametralmente opposte. Molti sarebbero gli esempi di questo tipo, con la complicazione che nel mondo del sociale i “critici del primo tipo”, quelli del “non abbastanza e non ancora” sono spesso delusi dalle tante e troppe promesse mancate e quindi talvolta la loro disillusione si fa critica radicale e distruttiva; e con l’altra complicazione che i critici del secondo tipo, i conservatori, non di rado prendono a prestito maliziosamente argomentazioni del campo avverso per ammantare le loro teorie di una rispettabilità altrimenti assente.
Ritornando a noi: in un mondo complesso ci capiterà di leggere o ascoltare chi, pur desideroso di coinvolgersi in esperienze di amministrazione condivisa, è deluso da esperienze di coprogettazione andate male, si lamenta dello scarso coinvolgimento del Terzo settore, del fatto che, a dispetto delle retoriche collaborative, l’ente pubblico avesse già deciso tutto, ecc.; e che può anche infine affermare con rammarico che “se questa è la coprogettazione, era meglio fare un appalto”, è più coerente, più pulito. E, dall’altra parte, ci può capitare di sentire posizioni che, magari contrabbandandosi nei tecnicismi già sopra richiamati, sono originate dalla convinzione che veramente la competizione degli appalti sia la cosa migliore: quella che meglio si adatta ad un terzo settore muscolare, che si è attrezzato ed ha investito per competere e sovrastare, che ha introiettato appieno l’ideologia mercatista, che considera gli altri enti del territorio competitor da battere alla prossima gara (o con cui allearsi per sovrastare meglio altri).
Ecco, queste due posizioni non sono la stessa cosa!
Consideriamo ora un altro parallelo, nella speranza che ci aiuti a capire la capacità di visione che oggi troppo diffusamente manca. Immaginiamo un gruppo di cooperatori sociali il giorno dopo l’approvazione della 381/1991 che, letta la legge, esprimono dubbi e perplessità: “Nella mia cooperativa ci sono più del 50% di volontari, devo forse scacciarli?” “Nel mio consorzio vi sono molte associazioni dei famigliari e altre associazioni del territorio, devo forse espellerle?” “Noi abbiamo sia attività di cura della persona, sia di inserimento lavorativo, devo rinunciarvi?” “Noi inseriamo al lavoro persone segnalate dai servizi, ma sono casi sociali, non li vedo tra le categorie svantaggiate, come facciamo?” Tutte queste perplessità (alcune delle quali espresse anche nel numero di Impresa Sociale pubblicato poco dopo l’approvazione della legge) avevano una base assolutamente reale, rappresentavano e in parte rappresentano questioni effettive che meritavano di essere affrontate (e in parte lo sono state). Ma, in quella fase, il movimento cooperativo nel suo complesso, anche coloro che per le motivazioni sopra citate sperimentavano talune difficoltà nella nuova normativa, non dubitava dell’orizzonte in cui la nuova legge era collocata: non vi era dubbio che si trattasse di un passaggio epocale, di un evento di cesura che avrebbe lanciato l’impresa sociale verso traguardi prima impensabili. Ciò non significava trascurare le questioni eventualmente problematiche, ma avere la capacità di collocarle correttamente in una prospettiva più ampia.
Ecco, questo oggi manca ad una parte non secondaria delle imprese sociali: manca la capacità di percepire che si è di fronte, trent’anni dopo, ad un nuovo e altrettanto importante evento, fondamentale e potenzialmente dirimente, ad un momento che marca – che potrebbe marcare - un “prima” e un “dopo”; ad una fase, quindi, in cui, dopo decenni, si definisce finalmente un quadro capace di inserire in modo coerente nelle politiche pubbliche le decine di migliaia di organizzazioni nate in questi anni dall’auto organizzazione della società civile. Tutto ciò, ovviamente, se si ha la consapevolezza di vivere questo particolare frangente, se il movimento delle imprese sociali sceglie per primo di farne una bandiera, un elemento fondante e costitutivo delle proprie strategie e del proprio percorso evolutivo. Cosa che, appunto, fatica notevolmente a verificarsi, pur essendovi significativi casi virtuosi di segno opposto.
E questo, purtroppo, non stupisce. Veniamo da una lunga fase di ideologia mercatista che ci ha cambiati profondamente. Ad un giovane che si rivolge ad un incubatore per farsi aiutare a mettere in piedi una cooperativa per aiutare persone con disabilità, viene proposto un foglio Excel in cui fare un business plan e un questionario in cui gli si chiede “chi sono i tuoi competitor” (!) riferendosi ad altre cooperative o associazioni che operano per le stesse finalità, “In cosa la tua impresa può essere più competitiva delle altre”, e così via. Non è infrequente che, descrivendo la propria impresa sociale in una relazione o in un convegno, si usino grafici con istogrammi in crescita, affermazioni circa la propria leadership, espressioni comparative (“siamo la più grande impresa…”). Le parole non sono neutre, indicano chiaramente i riferimenti culturali in cui siamo immersi. I trent’anni passati dall’art. 1 della 381/1991, in cui si delineava un soggetto il cui fine è “la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini” hanno visto al tempo stesso l’affermazione di modelli ferocemente competitivi, talvolta vissuti come vincolo esterno ineliminabile, talvolta anche come valore stesso cui aderire.
In tale panorama, quindi, le idee su come affrontare meglio i bisogni dei cittadini sono un asset da proteggere e non una proposta da condividere, l’ente pubblico è una controparte, l’altra impresa sociale è un concorrente. Tutto ciò, nel corso dei decenni, non si è limitato a costruire il teatro d’azione, ma ha dato forma alla cultura, alla mentalità, all’organizzazione delle imprese sociali e alla mentalità di chi le guida. Così il mondo dell’impresa sociale, pur non esimendosi da una qualche formale critica del sistema degli appalti, ne ha pienamente introiettato i codici, ha investito in figure utili a primeggiarvi, ha strutturato i propri uffici per rispondere in modo energico alle sollecitazioni caotiche del mercato. Ha imparato a sgomitare e si è convinta non solo che ciò fosse necessario, ma anche che fosse giusto, relegando voci contrarie ad occasioni convegnistiche o culturali di poca o nulla pregnanza pratica. Ha marginalizzato la vocazione originaria ad essere costruttrice di trasformazione sociale, collocando di buon grado oneri e onori delle scelte politiche sull’amministrazione. Ha, nei casi peggiori, sviluppato una sorta di indifferenza morale rispetto al proprio operato, considerando come potenziale “commessa di lavoro” tanto un intervento finalizzato all’accoglienza e integrazione dei migranti quanto a gestire una loro espulsione.
In questo panorama è entrata in scena l’amministrazione condivisa. Cosa mai può rappresentare la possibilità di contribuire ad orientare le politiche pubbliche per un’impresa sociale cresciuta nel panorama sopra delineato? La risposta è semplice: un campo di gioco meno conosciuto e forse meno gradito, da valutare rispetto ad aspetti tecnici che possono renderlo più o meno appetibile. Ad esempio, da valutare come meno appetibile perché più oneroso in termini di rendicontazione o di partecipazione ai tavoli di lavoro. Attenzione, come già detto: non perché i problemi rendicontativi o di fatica dei tavoli non esistano e non meritino di essere attenzionati. Ma, se manca la prospettiva, la direzione, la chiarezza strategica, allora la risposta non è quella costruttiva che ci aspetteremmo (“troviamo i migliori esperti in materia di rendicontazione o di gestione dei tavoli e facciamo girar loro il paese, impariamo dalle migliori prassi e diffondiamole, ecc.”), ma un mero soppesare elementi di convenienza e sconvenienza per decidere se, a conti fatti, questo nuovo tecnicismo procedurale chiamato “coprogettazione” sia vantaggioso o meno.
Ecco allora la necessità, imprescindibile e decisiva, che chi è nelle condizioni di giocare un ruolo nel formare la coscienza delle imprese sociali si faccia avanti, evitando che la poca consapevolezza lasci spazio al tecnicismo asettico. È il momento in cui i leader, a tutti i livelli, dal nazionale al locale, devono farsi sentire, con posizioni nitide, che non cavalchino o ricalchino il malcontento per le tante esperienze problematiche – “si stava meglio quando si stava peggio” -, ma guidino impresa sociale e terzo settore a superare con determinazione le criticità esistenti e a investire intelligenze e risorse nelle prospettive aperte dall’amministrazione condivisa.
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