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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2023

Saggi

Una politica per l’amministrazione condivisa. Gli usi possibili degli strumenti della riforma

Emanuele Polizzi


La riforma e le sue reazioni

L’introduzione nel nostro ordinamento degli strumenti amministrativi della coprogrammazione e della coprogettazione normati dall’articolo 55 del Codice del Terzo Settore ha suscitato molte aspettative nella società civile italiana. Si è cioè affermata l’idea che questa riforma costituisca una vera rivoluzione nei rapporti tra Pubbliche amministrazioni e Terzo Settore (Scalvini, 2023; Rossi, Fici, Sepio e Venturi, 2019). Di fronte ad attese così alte, diversi studi hanno invitato a guardare con maggiore realismo alla riforma (De Ambrogio e Marocchi, 2023; Fazzi, 2021; Scialdone 2023) mettendo in guardia dai rischi di un atteggiamento troppo focalizzato sul dettato di legge e poco attento alle dinamiche effettive che caratterizzano le relazioni tra gli attori pubblici e del Terzo Settore, assai più resistenti a trasformazioni radicali e repentine e molto più dipendenti dal percorso di ciascun contesto territoriale. Si è così sottolineato come l’eccesso di fiducia nella capacità di cambiamento dovuto alla novità delle norme rischi di far perdere di vista le cause più strutturali della difficoltà di collaborazione, l’eredità ancora forte della diffusione degli strumenti competitivi e le possibili piste di lavoro, meno dirompenti e più incrementali, che attendono il cantiere dell’amministrazione condivisa sui territori (Fazzi 2023; Vesan, Razetti e Rapa, 2023).

Allo stesso tempo, però, si può intravedere un altro possibile rischio sulla via dell’introduzione della riforma, che inizia a serpeggiare in maniera ancora non del tutto esplicita, sotto forma di uno scetticismo di fondo, ma che potrebbe prendere piede in maniera più consistente negli anni prossimi come vera e propria critica radicale, con l’emergere di più frequenti difficoltà diffuse nei processi di coprogrammazione e coprogettazione sui territori. Si tratta della tendenza a evidenziare alcune problematiche e contraddizioni nell’implementazione di tale riforma come segni di un suo strutturale fallimento, finendo così per reputarla come un tradimento del vero spirito partecipativo, in una accezione più progressista, o addirittura, in un’accezione più reazionaria, come una fuorviante illusione rispetto ai più “meritevoli” strumenti competitivi. Da uno scenario di fiducia eccessiva nella riforma, si passerebbe così ad uno scenario di sfiducia eccessiva. Sarebbe, peraltro, la ripetizione di un film già visto venti anni fa, quando l’avvento della programmazione e progettazione partecipata introdotta dalla legge 328/2000 generarono enormi aspettative, seguendo la medesima parabola di eccitazione e fiducia quasi messianica nel primo periodo di applicazione, per lasciare posto, nel giro di pochi anni, ad un'altrettanto forte disillusione, in seguito alla diffusa incapacità di molte amministrazioni locali e di tradurre quel disegno in prassi effettiva, se non in limitati casi (Busso e Negri, 2012; Paci 2008; Mosca, 2008; Polizzi, Tajani e Vitale, 2013).

Le retoriche di critica della riforma

Allo scopo di analizzare questa dinamica di critica alla riforma, è utile ricorrere alle categorie che Albert Hirschman, uno dei maggiori scienziati sociali del XX secolo, usò nel suo oramai classico studio sulle retoriche della reazione alle riforme, tradotto in italiano con l’espressione “retoriche dell’intransigenza” (1991). Lo studioso tedesco individuò infatti tre tipi di retoriche generalmente mobilitate nel discorso pubblico, politico e scientifico per criticare una riforma di segno progressista e di fatto propendere per la sua abolizione e il ritorno o addirittura il rafforzamento dell’assetto precedente.

La prima retorica critica è quella della perversione ed è apparentemente la più benevola. Non critica infatti tanto le ragioni di una riforma, quanto i suoi possibili effetti perversi. Nel caso della riforma dell’amministrazione condivisa, tale critica potrebbe essere quella di chi evidenzia come la strutturazione della coprogettazione e della coprogrammazione sotto forma di procedura amministrativa finisca per irrigidire la dinamica partecipativa e burocratizzarla in atti troppo circoscritti nei tempi e nei modi per rendere possibile un vero sviluppo della partecipazione, la quale richiederebbe invece tempo, flessibilità e libertà di azione ampie per mettere in discussione gli assetti esistenti e i potenziali anche critiche che provengono dalla cittadinanza organizzata. Nata quindi con l’idea di coinvolgere maggiormente gli attori del territorio, questa riforma finirebbe per ingabbiarli in meccanismi asfittici, alienando quindi dal processo partecipativo proprio gli attori del territorio più radicati nella comunità che si volevano includere. Si tratta di una critica che ha avuto ampio corso nella stagione precedente di programmazione partecipazione e in generale nella stagione partecipativa che ha caratterizzato il primo decennio del 2000 nel nostro paese (Moini, 2013; O’Miel, 2016).

La seconda retorica di critica alle riforme individuata da Hirschman è quella della futilità. Anch’essa non discute tanto gli obiettivi generali delle riforme, quanto la loro efficacia, asserendo che gli strumenti messi in campo per modificare l’assetto esistente siano troppo leggeri e innocui per operare un reale cambiamento, dimostrandosi così, in ultima analisi, futili. È di questo tipo la critica all’amministrazione condivisa secondo cui la coprogettazione e la coprogrammazione non riescono a mettere in discussione le modalità classiche di ideazione di politiche e servizi, in primo luogo perché il ricorso a tali strumenti e il perimetro della loro attivazione saranno comunque sempre decisi discrezionalmente dalle amministrazioni pubbliche, e in secondo luogo, perché a tali arene di condivisione finiranno comunque per prevalere soprattutto gli attori già “in affari” con le amministrazioni pubbliche e comunque spinti anche da interessi economici, in quanto fornitori di prestazioni. Anche in questo caso, la critica è già ampiamente presente nel dibattito sulle forme partecipative introdotte in Italia negli ultimi venti anni (Gasparre 2012; Paone e Alietti 2012).

L’ultima retorica critica di Hirschman è quella della “messa a repentaglio” e afferma sostanzialmente il pericolo che una riforma abbia conseguenze peggiorative su precedenti conquiste, come, ad esempio, fu la critica al welfare state di matrice liberale, secondo cui la conquista dei diritti sociali nel Novecento avrebbe minacciato le libertà civili e politiche conquistate nei decenni precedenti, rendendo contradditorio il percorso di progresso lineare tra i tre tipi di diritti analizzato da T.H. Marshall (1950). La riforma inoltre minaccerebbe il sistema in quanto non sarebbe sostenibile economicamente e organizzativamente. Nel caso dell’amministrazione condivisa, la critica di messa a repentaglio che può emergere è duplice. La prima è quella secondo cui una sua applicazione metterebbe in discussione il principio della democrazia rappresentativa, cioè la titolarità dei governi locali democraticamente eletti (direttamente o indirettamente) nel decidere le politiche. Si tratta di un’argomentazione utilizzata in generale per delegittimare le forme di partecipazione nel policy making e che oggi potrebbe essere accostata agli argomenti tipicamente populisti per i quali l’elezione diretta legittima ogni scelta dell’eletto e gli permette, o addirittura gli impone, di saltare la mediazione con i corpi intermedi (Serughetti, 2023). La seconda forma che questa critica può assumere è più sottile e riguarda il fatto le organizzazioni di Terzo Settore, pur mosse dalle migliori intenzioni, esprimono più facilmente istanze di una fetta soltanto della popolazione: o quella più capace di rappresentarsi autonomamente, come per esempio le rappresentanze delle persone con disabilità, o quelle la cui inclusione è meno problematica perché riguarda persone vulnerabili ma non ancora gravemente emarginate, specialmente nella misura in cui vengono usati indicatori di impatto sociale che si focalizzano sui risultati di breve periodo. Di conseguenza, i tavoli di coprogrammazione e coprogettazione rischierebbero di dirottare risorse sui target più capaci di avere rappresentanza e advocacy, lasciando più scoperti quelli più deboli nella rappresentanza e più complessi.

Ora, la tesi di Hirschman riguardo alle retoriche della reazione non consiste tanto nel confutare la loro fondatezza, quanto nel mostrare che un atteggiamento intransigente verso le riforme, che cioè le boccia radicalmente proponendone la totale abolizione, può rivelarsi in realtà pigro, prevenuto e incapace di reale analisi empirica, cioè di valutare le dinamiche innescate dalla riforma e le condizioni contestuali e politiche che la rendono possibile (Floridia e Bobbio, 2017). Per esempio, rispetto alla retorica della perversione, Hirschman asserisce la necessità di considerare non solo gli effetti della riforma, più o meno perversi, ma anche gli effetti della mancata adozione della riforma, mostrando come essi potrebbero portare a conseguenze anche più dannose dei suoi eventuali effetti perversi. Mutuando questa posizione nel caso nostro, potremmo per esempio dire che non attuare la riforma significherebbe sancire che la programmazione e la progettazione dei servizi siano lasciati alla totale discrezionalità dei soli amministratori pubblici e il loro affidamento venga sottoposto alle sole logiche competitive. Ciò potrebbe rendere i servizi così costruiti ancora più rigidi, standardizzati e incapaci di intercettare le esigenze dei territori e delle loro comunità di quanto non lo farebbe la partecipazione dalle nuove procedure, ancorché troppo rigidamente normata.

Rispetto alla tesi della futilità, Hirschman spiega che spesso le forze storiche che hanno spinto per la riforma sono talmente radicate da non poter essere impedite con la semplice conservazione delle regole esistenti e ad essere futile è dunque il sottovalutare la portata di tali tendenze, non il riconoscerle e il regolarle. Con riferimento all’amministrazione condivisa potremmo dire che la scelta del Terzo Settore, soprattutto dell’impresa sociale, di riacquistare un’autonomia e una capacità ideativa, rifiutando un ruolo di solo esecutore di prestazioni è talmente profonda e radicata che sarebbe futile ignorarla, poiché porterebbe il Terzo Settore non già ad una più stretta integrazione tra impresa sociale e volontariato o tra funzione di fornitura di servizi e azione di advocacy, ma semmai ad un distacco ancora maggiore del Terzo settore più professionalizzato dalla sfera pubblica e dall’ibridazione con la componente volontaria, per consegnarlo sempre più alla sfera della sola filantropia, nella migliore delle ipotesi, o del mercato for profit.

Da ultimo, rispetto alla tesi della messa a repentaglio, Hirschman sostiene che spesso le riforme più recenti non vanno tanto a minacciare le precedenti conquiste che vanno nella stessa direzione, ma tendono semmai a rafforzarle, come è avvenuto storicamente nei paesi occidentali rispetto agli istituti della democrazia politica e del welfare state. Nel caso qui analizzato si può mutuare tale posizione interpretando le forme di coprogrammazione e coprogettazione come occasioni per dare ai gruppi più deprivati della società una chance in più di entrare dentro al processo di policy making e così rafforzarne le istanze e la capacità di rappresentanza democratica. Anche rispetto alla seconda variante della critica si può ribattere che la voce dei più poveri è di norma assai più marginalizzata nelle elezioni delle istituzioni locali che non nei luoghi di partecipazione normati dalla riforma del Terzo Settore e dunque la possibilità di partecipare a questi ultimi non andrebbe in conflitto con il momento elettorale, anzi potrebbe aiutarli ad aumentare la loro capacità di influenza sulla sfera politica.

Come si vede, l’esercizio proposto dallo studioso tedesco non intende tanto neutralizzare le critiche alla riforma, quanto mostrare la possibilità di una loro discutibilità sulla base di un lavoro di indagine empirico attento alla complessità delle dinamiche interne ed esterne ai contesti e agli attori della riforma stessa. Dietro l’intransigenza delle critiche egli svela così come sovente si celi una sorta di pigrizia intellettuale e di chiusura preventiva rispetto al novero delle possibilità che la realtà può presentare. La conseguenza dell’atteggiamento hirschmaniano è dunque quello di non esorcizzare le critiche bensì indagarle empiricamente, seguendo l’effettivo dispiegarsi delle riforme, con attenzione ai diversi usi che nella realtà ne fanno gli attori nei contesti locali.

Provando ad assumere un tale atteggiamento rispetto al caso specifico della riforma dell’amministrazione condivisa proverò qui a sostenere, sulla base di quanto sta emergendo dalla letteratura empirica e da casi direttamente studiati, che molte delle critiche della reazione hanno diversi elementi di fondatezza, ma che uno sguardo limitato al solo strumento amministrativo previsto dalla riforma non riesce a cogliere la pluralità di usi che se ne possono fare, rischiando di autoadempiere le profezie negative sul suo conto. Se invece consideriamo non più il solo strumento amministrativo, ma la politica che complessivamente può essere messa in campo dagli attori, pubblici e privati, per accompagnare la sua implementazione, allora possiamo intravedere esiti anche molto differenti nei territori. Per spiegare questa ipotesi è utile anzitutto mettere a fuoco la storia e la natura della coprogrammazione e della coprogettazione come strumenti amministrativi.

La novità degli strumenti di amministrazione condivisa

È stato già ricordato come la coprogettazione e la coprogrammazione siano entrati nel vocabolario delle politiche pubbliche italiane già con la legge 328/2000 e che dunque non ci troviamo di fronte ad una novità assoluta. Come è noto, però, l’articolo 55 del Codice del Terzo Settore e gli atti normativi che l’hanno seguito (sentenza 131/2020 della Consulta e Decreto Ministeriale 72/2021 che approva le “Linee guida sul rapporto tra Pubbliche Amministrazioni ed enti del Terzo Settore negli artt. 55-57 del d.lgs. n.117/2017 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali”) hanno rappresentato un salto di qualità netto rispetto alla stagione precedente. Se, infatti, prima la partecipazione del Terzo Settore e in generale degli attori del territorio era solo un obiettivo generale fissato dalla norma, ma senza che vi fossero particolari disposizioni su come attuarla, ora il contributo di tali attori viene precisamente normato e regolato nelle sue fasi, fino a diventare un vero e proprio procedimento amministrativo. Questo passaggio rappresenta un’evoluzione assai significativa, che risponde ad alcune delle principali problematicità che erano emerse nella precedente stagione. Quando infatti coprogrammare o coprogettare erano solo obiettivi generali, il livello di discrezionalità delle pubbliche amministrazioni nel gestirli era pressoché totale: potevano decidere anzitutto se attivarle tramite tavoli o con altre forme, come farle eventualmente funzionare, con quali gradi di apertura e di trasparenza, con quale modalità decisionali, con quali livelli di approfondimento e con quali obblighi rendicontativi. Proprio questa natura discrezionale delle modalità attuative aveva lasciato ai Comuni italiani ampi margini di elusione dallo spirito della norma. Se certamente non erano mancate amministrazioni che erano riuscite a costruire assetti condivisi, inclusivi ed effettivi (Ciarini, 2012; Paci, 2008), l’esito più diffuso è stato la semplice attuazione formale della norma, attivando momenti partecipativi assai ridotti in numero e soprattutto nella sostanza del coinvolgimento prodotto, finendo per renderli molto spesso momenti vaghi e solamente consultivi, se non addirittura esclusivamente informativi (Cataldi e Gargiulo, 2010; Fazzi, 2009; Polizzi, 2008). Nella maggior parte dei casi, questa scarsa regolazione delle forme di coinvolgimento ha fatto sentire gli attori del territorio dei puri spettatori, privi di reali possibilità di incidere nei programmi e nei progetti e l’ha esposta ad una ancora maggiore fragilità quando le risorse a disposizione della pianificazione territoriale del welfare si sono drammaticamente ridotte con la crisi del 2008 e la seguente stagione di austerità (Polizzi, Tajani e Vitale, 2013). Ciò ha creato un clima di delusione in ampia parte del Terzo Settore, specialmente quello meno mosso da istanze anche economiche, facendo rifluirne molti in quella opzione che Hirschman avrebbe chiamato di defezione (exit) anziché di protesta (voice) (Hirschman 1970). Ma, sempre per rimanere nelle categorie hirschmaniane, quella della ricerca di forme partecipative più effettive da parte del Terzo Settore è una storia di shifting involvements (1983), nella quale stagioni di forte impegno pubblico si alternano a stagioni di maggior impegno sul piano più strettamente economico o privato. Se dunque il decennio che va dalla seconda metà degli anni 2000 alla metà degli anni Dieci ha visto quasi scomparire l’attenzione verso i temi della collaborazione programmatoria e progettuale, attorno al 2014, essa ha trovato nuove forme di rilancio, non più tanto nella forma dei Piani di Zona, oramai considerati poco aperti all’apporto degli attori del territorio nella grande maggioranza dei casi, quanto nella coprogettazione di singoli interventi, spesso al di fuori della programmazione contemplata dai Piani di Zona, ma anche fuori dal perimetro degli stessi enti locali. In particolare è stato il mondo della filantropia, e specialmente delle Fondazioni bancarie, il grande soggetto promotore di progettualità innovative e pensate insieme agli enti di Terzo Settore, solitamente con la forma dei bandi per progetti (Guidetti, 2023; Marocchi, 2023). Questa nuova stagione ha trovato un’occasione di istituzionalizzazione in occasione del dibattito attorno alla riforma del Terzo Settore, che nel 2017 ha dato luogo alla nota formulazione del nuovo Codice, che all’articolo 55 ne rilancia gli strumenti partecipativi. Tale riforma, interpretando lo spirito dell’epoca di rilancio dell’impegno pubblico del Terzo Settore, ha coniato una nuova forma di partecipazione nella quale il coinvolgimento del Terzo settore sia meno assoggettato alla discrezionalità del decisore pubblico e possa così vedere una più precisa e cogente modalità di ingaggio. È da questo punto di vista che la riforma ha costituito un deciso passo avanti nel configurare una relazione meno asimmetrica tra pubbliche amministrazioni e soggetti del Terzo Settore. Quell’indeterminatezza degli obiettivi che generava discrezionalità completa da parte delle pubbliche amministrazioni e delusione da parte del Terzo Settore è stata dunque decisamente più vincolata da norme che istituzionalizzavano la partecipazione e la rendevano più in grado di garantire diritti di parola, di proposta e di critica agli attori del territorio.

Tale istituzionalizzazione ha d’altra parte implicato che la riforma fosse interpretata dal legislatore nella maniera più frequentemente assunta dalla cultura politico-amministrativa italiana: quella che vede l’attenzione dei policy maker soffermarsi soprattutto sul momento giuridico amministrativo dell’innovazione, occupandosi della sua regolamentazione amministrativa e lasciando più in ombra altri aspetti di ordine organizzativo e sociale. Come osserva infatti una delle più importanti studiose di policy making in Italia, Gloria Regonini, “la logica giuridica si conferma la risorsa più potente nel framing dei problemi e delle soluzioni, perché può vantare una immanente affinità con il modo in cui sono organizzati i processi decisionali nelle istituzioni, una precisa funzione nei momenti cruciali del law making, una facile interfacciabilità con le competenze della stragrande maggioranza dei dirigenti amministrativi e di larga parte dei politici, oltre alla capacità di fornire uno scudo contro l’intervento della magistratura” (Regonini, 2018, 349). Questa logica tende a spostare l’attenzione dei policy maker non tanto sul regolare l’azione nella sua complessità, cioè adottare strumenti diversi per promuovere gli obiettivi desiderati, quanto, più riduttivamente, sul regolamentarla, cioè definirne le modalità amministrativamente corrette, tramite precise indicazioni e divieti (Regonini, 2012). Ciò non significa che ai vari livelli di attuazione della riforma (ministeriale, regionale o locale), non si possa abbinare tale strumento ad altri strumenti di accompagnamento della partecipazione, come un previo lavoro di integrazione tra più aree di programmazione congiunta, un supporto tecnico dei lavori dei tavoli, un tempo ampio di preparazione, delle forme di comunicazioni che garantiscano un accesso ampio ai tavoli, etc. Queste opzioni però non sono in sé messe a disposizione dal disegno della riforma, bensì dipendono dalla libera iniziativa politica delle singole amministrazioni pubbliche chiamate ad attuare la riforma.

La riforma, dunque, specialmente nella versione portata a compimento formale con le linee guida del Ministero del lavoro del 2021, ha determinato un’impostazione della coprogrammazione e della coprogettazione soprattutto come strumenti amministrativi e in particolare come procedure codificate, tali da renderne possibile una verifica della correttezza formale. Se considerati nella loro natura di strumenti, tali modalità di costruzione della collaborazione tra pubblica amministrazione e Terzo Settore possono essere viste con le lenti dell’analisi degli strumenti del governo (Lascoumes e Le Galès, 2005). Secondo questa prospettiva analitica, gli strumenti di governo non sono puri mezzi, totalmente malleabili in relazioni alle finalità con le quali sono stati istituiti. Essi, infatti, incorporano frame cognitivi e normativi e così regolano implicitamente l’azione degli attori (Bifulco, 2015). In questo modo gli strumenti “orientano i rapporti tra società politica […] e società civile […] tramite intermediari sotto forma di dispositivi che combinano componenti tecniche (misurazione, calcolo, regole, procedure) e sociali (rappresentazioni, simboli)” (Lascoumes e Le Galès, 2007, 8). Sono dunque delle istituzioni sociali nel senso sociologico del termine, cioè delle norme esplicite e implicite che regolano l’azione in un preciso e selettivo inquadramento. Essi si presentano apparentemente come dei mezzi neutri, cioè dei puri contenitori tecnici, ma in realtà finiscono per orientare l’azione operando scelte di fatto su quali azioni sono legittime e quali no. Vanno quindi studiati nella loro azione di indirizzamento di fatto della realtà su cui si applicano. Da questo punto di vista, ci possiamo domandare come gli strumenti delle procedure amministrative della coprogrammazione e della coprogettazione vincolino l’azione, come delimitino il campo di gioco degli attori, cosa vedano degli attori, sulla base di quali requisiti decidano la legittimità a partecipare e come ne organizzino i possibili contributi.

I nodi critici emersi dalle ricerche e da uno studio di caso

Le indicazioni che giungono dalle prime ricerche empiriche sull’implementazione di tali istituti (Euricse 2023; Scialdone, 2023; Fazzi 2023; De Ambrogio e Marocchi, 2023) ci forniscono risposte non univoche e che risentono di forti differenze contestuali. Da una parte, infatti, esse mettono in luce alcuni dati problematici ricorrenti. I principali nodi critici riscontrati sono: la netta prevalenza dei processi di coprogettazione su quelli di coprogrammazione, nei quali viene così a mancare l’elemento di indirizzo strategico che dovrebbe precedere quello della progettazione; la scelta di coprogettare su attività, magari innovative, ma laterali rispetto al nocciolo duro dei servizi più radicati e più stabilmente finanziati; la struttura ancora gerarchica del processo, con ampia predefinizione, da parte delle pubbliche amministrazioni, degli oggetti e dei contenuti delle coprogettazioni stesse; la scarsa permeabilità di fatto al processo per i soggetti del Terzo Settore più piccoli e meno professionalizzati; la ridotta disponibilità di tempo per dispiegare a pieno l’apporto degli attori del territorio e la loro scarsa flessibilità rispetto a elementi o attori non previsti all’inizio della procedura; la pressione da parte delle pubbliche amministrazioni a richiedere ai soggetti partecipanti alle coprogettazioni una compartecipazione ai costi assai onerosa (frequentemente fino al 20%) e spesso senza copertura dei costi indiretti. Una recente ricerca svolta dall’Università di Milano Bicocca offre diversi elementi di conferma di questi nodi problematici. Essa è il frutto di uno studio qualitativo su tutti i passaggi processuali di un percorso di co-programmazione e di uno di coprogettazione nel territorio di una città di medie dimensioni del nord Italia. Non è possibile, in questa sede, entrare nei dettagli del lavoro di ricerca, ma possiamo individuare sinteticamente le principali caratteristiche della vicenda.

Il percorso partecipativo attivato in questo Comune parte con grandi ambizioni nel 2018 con l’idea di costruire un percorso di coprogrammazione e uno di coprogettazione, articolato su tre tavoli tematici (minori e famiglia, anziani e disabilità) e con l’obiettivo di promuovere il welfare di comunità sul territorio. Tale percorso nasce però del tutto separato da altre sedi di programmazione nel campo del welfare, che pure riguardano molti degli stessi attori convocati su questa arena, a cominciare da quella dei Piani di Zona. La fase di coprogrammazione, inoltre, viene fin dall’inizio strettamente circoscritta sul piano temporale, essendo ridotta a soli quattro incontri, nell’arco di tre mesi. Tra le adesioni ai tre tavoli sono dominanti le presenze di enti di dimensioni medio-grandi, con una consolidata struttura organizzativa di tipo professionale e capace già autonomamente di erogare servizi. Solo il tavolo sulla disabilità, campo tradizionalmente più presidiato dalle associazioni di advocacy, ha visto una presenza rilevante anche di associazioni di utenti e familiari. Nel corso dei primi incontri dei tavoli di coprogrammazione, le tematiche sollevate hanno riguardato problematiche trasversali, quali l’integrazione sociosanitaria, l’occupabilità di soggetti con disabilità, la devianza giovanile e l’uso di sostanze. Proprio per questa trasversalità, la richiesta emersa dai partecipanti è stata quella di coinvolgere tutti gli attori rilevanti del territorio coinvolti in esse, assenti dalle prime convocazioni: aziende sanitarie, scuole, istituzioni della formazione professionale, etc. Su tali temi i rappresentanti dell’Amministrazione si sono impegnati a riconvocare in futuro tali enti sul tavolo coprogrammatorio, ma finito il periodo di tre mesi e dei quattro incontri previsti fin dall’inizio, il tavolo non ha più avuto convocazioni e dunque questa apertura ad altri attori non ha avuto modo di essere attuata. L’aver disatteso tale impegno preso ha avuto ripercussioni negative in termini di fiducia di molti degli attori convocati, minando fin dall’inizio la possibilità di un loro investimento di ampia portata su tali tavoli. Lo strumento co-programmatorio, pur intrapreso correttamente e posto a monte di quello coprogettuale, ha dunque sofferto di sindromi abbastanza tipiche di tale fase: mancato collegamento con altre politiche e altri attori decisivi del territorio, frammentazione rispetto ad altre sedi programmatorie, eccessiva rigidità e rapidità del percorso.

Per quanto riguarda il processo di coprogettazione, esso ha preso avvio tramite un avviso pubblico che ha stabilito gli ambiti di intervento ed i relativi bisogni prioritari emersi in sede di coprogrammazione, specificando in modo piuttosto stringente le forme che dovevano assumere i progetti presentati, i quali dovevano prevedere un coinvolgimento diretto di soggetti attivi sul quartiere (come ad esempio associazioni, comitati, cooperative, parrocchie, istituti scolastici), la presentazione del progetto nelle consulte di quartiere ed un’attività di fund raising da reinvestire nelle attività del progetto. Per quanto concerne le risorse economiche l’avviso ha previsto un cofinanziamento da parte del partenariato pari al 20% del valore complessivo del progetto.

Sul piano dell’inclusività del processo, non vi sono stati dei vincoli di natura amministrativa che hanno limitato una presenza ampia sui tavoli vista la semplicità nel proporre la propria adesione. Tuttavia, la possibilità di ricevere finanziamenti su progetti che avevano una natura tecnica complessa ha attirato al tavolo prevalentemente attori professionalizzati e con una struttura organizzativa complessa e già abituata alla grammatica amministrativa. Le realtà più piccole e meno professionalizzate, come spesso è accaduto in passato nei tavoli partecipativi dei Piani di Zona, si sono trovate meno coinvolte e meno in grado di interloquire sul piano tecnico. Anche in questa fase, dunque, si è assistito ad un progressivo disinvestimento di molte realtà di Terzo Settore dai tavoli, i quali hanno visto una diminuzione di quasi il 40% delle presenze nel corso delle riunioni. Dal punto di vista contenutistico, inoltre, il progetto scaturito dal processo non si è discostato significativamente dai servizi già esistenti, anche se ha avuto la capacità di individuare alcune modalità più informali per radicarsi maggiormente nei contesti di vita ordinaria delle persone.

Guardando allo stile di conduzione delle arene partecipative si può evidenziare come tutti i tavoli siano stati condotti da operatori pubblici, senza la presenza di un soggetto terzo come facilitatore, su impalcature con poco margine di variabilità ed un orientamento di fondo prestabilito. Inoltre, il ruolo assunto dai conduttori dei tavoli, che lì rappresentavano l’ente pubblico, è stato caratterizzato da buona capacità di sintesi e tenuta dei lavori ma non ha assunto tanto un ruolo di mediazione, bensì di rappresentazione dei dati di contesto, di conduzione del dibattito e di messa in luce dell’efficacia delle policy già poste in atto dal Comune. Poco o nulla del lavoro dei tavoli è stato dedicato alla discussione sui punti problematici sollevati dagli attori invitati.

Con riguardo all’esito del processo, delle tre progettualità previste, solo quella sulla disabilità ha generato un vero esito, tramite due progetti che sono stati discussi congiuntamente per un totale di due incontri e poi entrambi finanziati. Le proposte progettuali sono state infatti ritenute rispondenti agli elementi dell’avviso, il quale aveva già una natura molto specifica e non vi sono stati tentativi di ricomposizione delle due progettualità presentate. La fase di coprogettazione si è così concretizzata prevalentemente in un avallo tecnico, amministrativo ed economico dei progetti, operando delle modifiche minime in uno solo dei due progetti. I soggetti proponenti erano peraltro tutti già gestori di altri servizi con la medesima amministrazione. In tal senso, si registra un impatto assai limitato in termini di nascita di nuove collaborazioni e/o presenza di maggiori opportunità di partecipazione per sviluppare nuove idee.

Quello che emerge da tale percorso di coprogettazione mostra dunque come, pur nel tentativo di costruire un percorso partecipativo usando tutte le specificità del nuovo strumento messo a disposizione dalla riforma dell’art.55, la potenzialità innovativa indotta dal processo sia stata assai ridotta. La predefinizione delle forme del servizio da progettare ha lasciato poco spazio per la creatività del processo progettuale, il quale ha visto una semplice giustapposizione delle proposte presentate sulla base dei vincoli stringenti dell’avviso. Il coinvolgimento è stato ristretto di fatto a pochi attori già in rapporti consolidati con il Comune e la gestione del processo è stata influenzata dalla ricerca di legittimazione dei servizi e degli interventi già posti in essere dall’Amministrazione.

Ciò che appare da questo quadro non è tanto una mancata applicazione dello strumento coprogrammatorio e coprogettuale richiesto dalla riforma e delle Linee guida del Ministero, quanto una sua declinazione riduttiva, per la quale il percorso partecipativo viene di fatto usato per confermare scelte già fatte, non operando effettive innovazioni in termini di nuovi intrecci tra politiche, tra servizi e tra attori del territorio, ma ricalcano schemi compartimentati già esistenti. La maggiore cogenza del processo stabilita dalla riforma, dunque, costituisce sì un’opportunità di maggiore accountability del processo partecipativo, ma da sola non garantisce un’effettiva pratica di ascolto del territorio, di apertura ai suoi attori e di integrazione tra servizi e politiche.

D’altronde, le ricerche empiriche (Euricse 2023; De Ambrogio e Marocchi, 2023) mostrano anche l’esistenza di casi decisamente differenti, con tendenze verso uno sviluppo di dinamiche più innovative. In territori come quello di Trento o di Rho (Cervelleri e Gabellini 2023; Gaudimundo 2023) o di Caluso (Marocchi, 2021) possiamo vedere alcuni elementi di segno opposto a quelli del caso studio sopra esposto: una relazione più organica tra coprogrammazione e coprogettazione; un maggior supporto tecnico e politico messo a disposizione del processo partecipativo; un tempo più ampio per il lavoro di coprogettazione; una maggiore flessibilità organizzativa per poter intercettare e coinvolgere anche attori del territorio ma non parte del welfare tradizionalmente inteso e una capacità di mobilitare nuove risorse. Da quanto si può osservare anche negli ultimi mesi, alcuni Comuni iniziano a sottoporre alla procedura amministrativa di coprogrammazione e coprogettazione anche servizi tradizionali e non solo innovativi del welfare locale[1].

Un uso strategico e politico dell’amministrazione condivisa

Non è ancora possibile affermare se stiano prevalendo dinamiche riduttive o più inclusive e integrate dell’amministrazione condivisa e in quale misura. Il tempo trascorso dall’applicazione dei nuovi strumenti è ancora troppo ridotto e le ricerche estensive e approfondite sul territorio nazionale ancora poche[2]. Quel che possiamo però notare dal quadro diversificato e dinamico che sta emergendo è la possibilità di evitare tanto l’incensamento acritico della riforma, quanto le retoriche della reazione preventiva e intransigente, per concentrarsi invece sulle sue possibili declinazioni più virtuose e sulle condizioni che le rendono possibili. Sono condizioni che, come già notato da Busso, Reggiardo e Sciarrone (2023), sono contestuali, in quanto figlie di culture e prassi locali radicate nel tempo e che determinano significative dipendenze dal percorso, in virtù delle quali laddove già prima dell’esistenza della riforma dell’amministrazione condivisa vi erano stili di governo che prestavano attenzione alla programmazione e alla progettazione come momenti importanti del policy making, solide tradizioni cooperative sia internamente alle diverse istituzioni locali e ai vari mondi del Terzo Settore, sia tra le due componenti, lì i nuovi strumenti collaborativi hanno avuto una maggiore capacità di integrazione e di approfondimento. Eppure, individuare i contesti più favorevoli ad un’applicazione non significa ipotizzare una path dependency di così lungo periodo da condannare alcuni territori e salvarne altri per caratteristiche contestuali troppo profondamente radicate per essere superabili. È utile, in questo senso, riprendere lo spirito della ricerca che reagì alla lettura delle “Tradizioni civiche nelle regioni italiane” di Putnam (1993), il quale vedeva nelle differenti capacità amministrative delle regioni italiane una dipendenza dal percorso radicata addirittura nel periodo medioevale e che non considerava quindi fattori di cambiamento più recenti. Una ricca stagione di ricerche (Bagnasco, 2003; Trigilia, 2005; Tarrow, 1996; Sabetti, 1996; Jackman e Miller, 1998) mise invece in luce che anche laddove gli attori hanno ereditato dal passato di un territorio buone tradizioni collaborative, queste tradizioni non sono un dato permanente, ma sono state costruite in precise circostanze, in modo incrementale e spesso in mezzo a molte contraddizioni, e riprodotte poi nel tempo per precise scelte di attori sociali, politici e amministrativi locali e sovralocali. Ciò ha reso possibile vedere come si possano dare esempi di innovazione significativa anche in contesti che avrebbero avuto un retroterra sfavorevole, e privo di precedenti tradizioni collaborative (Barbera, 2001). L’esistenza di condizioni contestuali è quindi non solo un’eredità che grava, in positivo o in negativo, sui territori, ma una possibilità che può essere prodotta e riprodotta, in relazione alla scelta, tutta politica, degli attori del territorio, pubbliche amministrazioni in primis ma anche rappresentanze del Terzo Settore, di investire sul processo di accompagnamento all’uso degli strumenti dell’amministrazione condivisa.

La sfida che si pone per le amministrazioni che vogliano usare la coprogettazione e la coprogrammazione come una opportunità di innovazione effettiva è allora quella di praticare non solo l’applicazione del suo strumento amministrativo, la quale è facilmente riducibile, nella sua versione minimale, ad una ratifica di fatto di cosa già decise, bensì una vera politica dell’amministrazione condivisa, cioè una strategia complessiva che investa su questi strumenti come occasioni di reale ripensamento dell’assetto dei propri servizi. Una tale strategia è stata almeno in parte già praticata in alcuni casi (De Ambrogio e Marocchi, 2023) e anche in base a questi si possono delineare alcune caratteristiche di una tale politica, che la distinguono da un uso puro e semplice, e quindi riduttivo, dello strumento coprogettuale e coprogrammatorio (Polizzi e Castelli, 2023).

Costruire una politica dell’amministrazione condivisa significa, anzitutto, promuovere forme di integrazione tra servizi, tra istituzioni e tra attori del territorio. Ciò richiede di affrontare in modo sistematico il problema della frammentazione e quindi non aggiungere nuove sedi di programmazione a quelle esistenti ma piuttosto integrarle, in una visione di insieme che comprenda non solo il principale luogo di programmazione delle politiche sociali, quale è il Piano di Zona, ma integri tale programmazione con quella delle politiche sanitarie, educative, abitative, urbanistiche e culturali che insistono sullo stesso territorio. Un tale obiettivo implicherebbe una riforma istituzionale che rendesse possibile superare l’eccesso di frammentazione che in Italia tiene generalmente separate le diverse filiere tra servizi sociali, sanitari, abitativi, educativi, lavorativi, etc.[3]. Tuttavia, anche in assenza o in attesa di riforme istituzionali che rendano possibile tale integrazione, con la leva dell’amministrazione condivisa si apre la possibilità di legittimare maggiormente i tentativi più locali di collegare le diverse programmazioni costruendo alleanze, invitando gli attori istituzionali e di Terzo Settore a partecipare e rendendo il percorso connesso in modo sistematico e non episodico.

Una seconda caratteristica di una strategia politica dell’amministrazione condivisa è quella dell’ascolto attivo del territorio. Si tratta cioè di rendere davvero le sedi di coprogettazione e coprogrammazione dei luoghi capaci di comprendere e raggiungere le voci di chi vive sul campo: le voci della cittadinanza tradizionalmente escluse da questi processi (Osborne, Radnor e Strokosch, 2016; Fazzi 2021), ma anche i gruppi formali e informali che non partecipano facilmente ai tavoli istituzionali e richiedono un’attitudine proattiva da parte di chi gestisce lo strumento collaborativo. Per questo è necessario non vincolare eccessivamente il lavoro dei tavoli nei tempi e nelle modalità di ingaggio. Non si intende con ciò pretendere che i bandi di coprogettazione includano formalmente tutti gli attori interessabili da tale processo. Esso include solo gli enti di Terzo Settore formalmente riconosciuti dal RUNTS ed è noto come le organizzazioni più piccole e meno professionalizzate facciano fatica ad avere tempo e codici tecnici e linguisitici per partecipare (Citroni, Lippi e Profeti, 2016; Gasparre e Bassoli, 2020), ma nessuna regola amministrativa impedisce di mettere in campo anche sessioni aperte di ascolto parallele a quelle del procedimento amministrativo in senso stretto e di svolgere attività di conoscenza attiva sul campo da parte dei tavoli di coprogettazione. Naturalmente ciò richiede tempi più lunghi e operazioni non facili di indagine e non sempre le procedure di coprogettazione consentono questa flessibilità. Lo strumento cioè, pur malleabile, ha una sua rigidità intrinseca. È tuttavia possibile affiancare o far precedere il lavoro di coprogettazione con una indagine specifica i cui risultati possano essere portati al tavolo di coprogettazione. Una tale apertura al territorio significa inoltre lavorare non tanto e non solo sul problem solving delle singole questioni ma prima ancora sul problem setting, cioè una lettura a monte dei problemi che si interroga su come vengono impostate non già le risposte, ma le domande (Bifulco e Centemeri, 2008; Lanzara 1993). Ciò implica ascoltare anche le voci dissonanti rispetto alla cornice preventivamente posta, eventualmente anche le critiche, le contestazioni (Negrogno, 2023). La storia dei Piani di zona e di molti casi di coprogettazioni studiati ci dice infatti che facilmente i tavoli tendono a emarginare le critiche e a mettere in maggiore luce gli elementi che producono consenso. Eludere le critiche, tuttavia, è uno dei principali motivi di delusione degli attori del territorio e di abbandono delle arene partecipative (Polizzi, Tajani e Vitale, 2013). L’exit prevale allora sulla voice e rischia così di perdersi il principale valore aggiunto della coprogettazione, cioè l’incorporare nei progetti i punti di vista diversi e farli diventare motivo del loro arricchimento. Certamente la coprogettazione, per come è regolata dal dispositivo amministrativo formulato dalle linee guida ministeriali, fa fatica a muoversi su coordinate non rigide, ma proprio per questo è opportuno che essa sia preceduta ex ante, accompagnata in itinere e valutata ex post da percorsi di ascolto ed eventualmente di messa in questione delle prospettive adottate.

Un altro elemento reso necessario da una impostazione complessa e strategica della riforma è il supporto tecnico al processo, cioè la presenza di competenze e infrastrutture per l’accompagnamento di tali processi, ossia di persone e sedi messe a disposizione ad hoc per esso, che possibilmente non coincidano con il personale della stessa amministrazione convocatrice della coprogettazione, per evitare non solo il conflitto di interessi tra l’essere mediatori ed essere parte, ma l’eccessivo onere organizzativo su servizi già normalmente stressati dallo svolgimento dell’attività ordinaria. Altri contributi hanno già messo bene in luce la necessità che il processo partecipativo venga accompagnato con le competenze necessarie per riequilibrare le asimmetrie di potere e di capacità, per creare fiducia tra i partecipanti, per implementare le operazioni di approfondimento conoscitivo e per fornire un sostegno anche pratico nelle operazioni di convocazione, pubblicizzazione, gestione delle procedure collaborative (De Ambrogio, 2023). Non esiste una unica forma per svolgere queste funzioni: in alcuni territori è stata usata una struttura tecnica creata ad hoc dalle amministrazioni, come nel caso di Trento (Cervelleri e Gabelllini, 2023), in molti altri casi vengono usate organizzazioni di consulenza esterne (Euricse, 2023). Queste ultime però possono svolgere il lavoro con efficacia laddove abbiano un ingaggio non episodico e che consenta loro di mettere in campo operazioni conoscitive e di mediazione dal tempo medio-lungo.

Ultima, ma non ultima, tra le condizioni per impostare tali strategie di sostegno all’amministrazioni condivisa, è la scelta di investire risorse economiche specifiche per tali processi. La riflessione sull’innovazione nella pubblica amministrazione (Donolo, 2006) ha spesso messo in luce come non siano in alcun modo realizzabili riforme a costo zero, dato che proprio la necessità di operare trasformazioni di metodo richiede che investite risorse precisamente per l’apprendimento e per la messa a regime delle innovazioni. Oltre che per l’accompagnamento al processo, le risorse aggiuntive sono un elemento essenziale per evitare che la coprogettazione venga scelta con l’obiettivo, non dichiarato, di risparmiare risorse o di recuperare quelle mancanti tramite l’apporto degli attori del territorio, come sembra accadere quando la soglia di cofinanziamento viene alzata eccessivamente. Se viene dunque a mancare la disponibilità di risorse almeno per la fase nascente e per il primo consolidamento per radicare queste pratiche nelle amministrazioni e nei territori, l’implementazione di una riforma di ampia portata come quella dell’articolo 55 del Codice del Terzo Settore, finisce per riprodurre l’approccio riduzionista già osservato in molti casi di prima applicazione. 

Strumenti necessari ma non sufficienti

Gli strumenti dell’amministrazione condivisa sono dunque dispositivi che da una parte istituzionalizzano la partecipazione e la sottraggono al regime di discrezionalità nella quale erano immersi i tavoli della stagione inaugurata con la legge 328/2000, dall’altra la costringono dentro alle forme rigide e selettive che qualunque procedimento amministrativo implica. Questa caratteristica degli strumenti amministrativi rende spesso il processo partecipativo assai limitato negli obiettivi, nell’apertura e negli apprendimenti per gli attori coinvolti, prestando il fianco a molte delle critiche di perversione, futilità e messa a repentaglio di cui la riforma dell’amministrazione condivisa è passibile. Una politica che però adotti una visione complessiva e strategica per accompagnare tali strumenti ad assumere un carattere più aperto, proattivo e flessibile, può invece aiutare a usare le procedure amministrative della coprogrammazione e della coprogettazione come un innesco per attivare delle dinamiche partecipative più effettive e più sistemiche. Tali politiche per l’amministrazione condivisa sono allo stesso tempo ambiziose, nella misura in cui puntano a cambiamenti del modo di ragionare del policy making, e pragmatiche, nella misura in cui lo fanno attraverso strumenti molto concreti e calibrati per accompagnare le procedure amministrative collaborative. Sono politiche che non possono però costruirsi solo sulla dimensione locale, spesso troppo deboli e privi di risorse per poter investire su tali processi di accompagnamento, bensì richiedono un concorso di tutti i livelli istituzionali: quello locale per costruire soluzioni artigianalmente adattate a ciascun contesto territoriale; quello regionale per infrastrutturare di supporti e di competenze i territori; quello nazionale per finanziare, monitorare e sostenere gli apprendimenti tra regioni all’interno di una vera e propria strategia nazionale di promozione di un’effettiva amministrazione condivisa.

 

DOI: 10.7425/IS.2023.04.04

 

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[1] Si veda, ad esempio, l’avviso del Comune di Milano sulla coprogrammazione finalizzata alla riprogettazione delle funzioni dei centri socio ricreativi culturali (CSRC) nell’ottica dell’active ageing e dell’apertura alla comunità.

[2] È auspicabile che l’istituzione dell’Osservatorio Nazionale sull’Amministrazione Condivisa (decreto ministeriale n. 169 del 07.10.22) possa gettare maggior luce su questo nei prossimi anni.

[3] In questo senso l’attuale cantiere di riforma della sanità territoriale, con l’istituzione delle Case di Comunità, degli ospedali e dei Centri Operativi Territoriali, costituisce una finestra di opportunità favorevole per questo tentativo.

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