Al pari di quanto accade nel ciclo di vita di qualsiasi impresa, anche per la cooperazione sociale di inserimento lavorativo si è assistito a diverse fasi evolutive: dalla nascita, negli anni Ottanta e soprattutto sotto la spinta della L.381/1991; alla crescita, sostenuta anche da politiche pubbliche e del lavoro che hanno portato risorse al settore; alla fase della maturità, con un consolidamento della mission aziendale, dei settori produttivi e soprattutto delle tecniche e dei processi dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. In questa evoluzione, il numero di cooperative sociali si è moltiplicato, al pari delle loro dimensioni, raggiungendo nel 2018 ben 5.886 unità (dati dell’Albo nazionale del MISE aggiornati in base ai bilanci depositati presso la Camera di Commercio) ed occupando oltre 30 mila lavoratori svantaggiati (su un totale di quasi 100 mila lavoratori dipendenti). Sebbene non si possa di certo affermare che, rispetto a questa ciclicità, si stia assistendo anche alla fase del declino della cooperazione sociale, vi sono tuttavia segnali che fanno intravvedere possibili rischi, tra cui la registrazione nell’ultimo triennio di una certa diminuzione del numero complessivo di cooperative sociali attive (diminuite secondo i dati Istat del 4,2%).
Il primo rischio è la riduzione delle risorse pubbliche, acuita da un aumento della competitività intra-settoriale. Le cooperative sociali hanno così reagito o ricercando altri committenti e mercati o costituendo associazioni temporanee con altri potenziali competitor per l’accesso ai bandi pubblici, relazionandosi in modo diverso con altre cooperative sociali o altre imprese.
Altro concreto rischio è quello di non riuscire a garantire un sufficiente turnover ai lavoratori svantaggiati inseriti e formati. Nonostante l’obiettivo del collocamento esterno degli svantaggiati non si debba ritenere come prioritario e assoluto per le cooperative sociali di inserimento lavorativo, una conseguenza dello stato di maturità del settore è che non si riesca a rispondere ad una domanda continua (e crescente) di occupazione per soggetti svantaggiati e per nuove categorie di soggetti deboli sul mercato del lavoro.
È di fronte a queste evoluzioni di sistema e per dare risposta a queste dinamiche esterne (ed interne) che la reazione imprenditoriale di molte imprese è stata il cambiamento e l’innovazione.
Negli ultimi anni le cooperative sociali hanno puntato alla crescita di qualità delle proprie produzioni, si sono esposte anche a significativi investimenti materiali e di processo, hanno puntato alla ricerca di nuovi ambiti di operatività e di nuovi mercati, in un’ottica di prevenzione del declino e di riprogettazione. Nonostante la presenza ancora molto elevata nel panorama nazionale di cooperative sociali di piccolissime dimensioni, molte altre hanno cominciato ad innovare prodotti e processi, ad esplorare nuovi settori, cercando di differenziare le proprie attività produttive e approcciandosi a nuovi mercati ed acquirenti basando la propria competitività su un vincente equilibrio tra qualità della produzione e impatto sociale. Ciò ha significato spostarsi da una prevalenza di rapporti con il pubblico al decisivo incremento di risorse generate dal rapporto con i privati: in base ai dati del Censimento delle Istituzioni Nonprofit del 2018, il 73% delle cooperative sociali derivava più della metà delle proprie entrate dalla vendita di servizi a soggetti privati (Istat, 2020); secondo alcune recenti ricerche di Euricse su estesi campioni di cooperative sociali trivenete (metodo ImpACT 2018) le entrate sarebbero più nello specifico costituite mediamente al 42% da ricavi da vendita di beni e servizi ad altre imprese.
Lo studio delle modalità con cui le cooperative sociali si relazionano tra loro e soprattutto con le imprese risulta di particolare interesse e può essere oggi considerato anche nel suo potenziale di ulteriore innovazione e generazione di cambiamento. Le modalità (tempi, vincoli, livelli di scambio) con cui le relazioni si strutturano incidono infatti sulla sostenibilità economica e sulla possibilità di recupero degli investimenti, sulle necessità di professionalizzazione e di stabilizzazione delle persone svantaggiate inserite, sui risultati di breve periodo ma soprattutto sulle ricadute di lungo periodo, produttive, occupazionali e sociali.
Per tali ragioni, si è recentemente posta l’attenzione (Euricse, 2021) sulle modalità e sugli strumenti giuridici che possono consolidare le relazioni tra cooperative sociali e tra queste e le imprese, guardando in particolare all’applicazione di contratti di rete e al loro potenziale nel rafforzare le relazioni esistenti quantitativamente e qualitativamente. Lo stato attuale del ricorso a contratti di rete è alquanto sorprendente: nonostante tale istituto sia in generale disciplinato già dal 2009, attualmente esistono in Italia solo 24 contratti di rete tra cooperative sociali e 8 contratti tra cooperative sociali e imprese che hanno ad oggetto anche l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Si tratta quindi di un modello giuridico ancora poco praticato, forse per la scarsa conoscenza delle sue caratteristiche, forse per il timore che esso si presenti come troppo vincolante per le sottoscriventi e, guardando alle imprese, forse anche per le loro basse motivazioni e sensibilità alla dimensione sociale ed occupazionale della relazione. Al contrario delle possibili credenze comuni, invece, la volontà del legislatore nel definire il contratto di rete è stata quella di garantire un’elevata autonomia contrattuale delle parti e di consentire quindi forti adattamenti e modulazioni del contratto in base alle esigenze delle sottoscriventi e degli obiettivi che le stesse vogliono condividere. Obiettivi produttivi, ma anche occupazionali o sociali.
Con il presente contributo – avvalendosi dei risultati raggiunti grazie alla conduzione di oltre 40 casi studio a livello nazionale – si intende analizzare nel dettaglio le modalità con cui si regolano oggi in modo usuale le relazioni tra cooperative sociali ed imprese e si tenta di definire ambiti di pratica, limiti e vantaggi di ciascuna modalità di relazione, guardando ai possibili elementi migliorativi che la strutturazione di un contratto di rete potrebbe apportare e giungendo quindi a formulare delle conclusioni rispetto alla capacità di generare innovazioni e cambiamenti al sistema che portino ad una nuova spinta, alla crescita e al rilancio del settore.
Le relazioni tra cooperative sociali di inserimento lavorativo ed imprese sono oggi alquanto diffuse e si intersecano con funzioni produttive e imprenditoriali sempre più strutturate. Non è tuttavia da ciò desumibile che tutti i rapporti abbiano anche una rilevanza strategica per cooperative sociali ed imprese e riescano a generare innovazione e cambiamento: le relazioni sono infatti diversificate sia per tipologia ed intensità delle motivazioni che stanno alla base dell’insorgere del rapporto, sia per possibilità e capacità di incidere sulla progettazione e programmazione delle attività delle parti.
L’analisi approfondita di una quarantina di casi studio selezionati nel panorama nazionale per continuità e intensità dei rapporti (Euricse, 2021)[1], permette di fotografare possibili situazioni-tipo in cui si struttura la relazione con le imprese. Le dinamiche che determinano l’insorgere delle diverse tipologie di relazione sono essenzialmente due: esse dipendono dalle motivazioni (individuali e collettive) delle parti e dagli strumenti giuridici di cui esse si sono avvalse (o si potevano avvalere in coerenza con gli obiettivi produttivi e/o sociali della relazione).
Leggendo così in primo luogo le motivazioni delle parti nella realizzazione degli scambi, si possono intercettare 4 macro-tipologie, in base all’intensità bassa o alta delle motivazioni rispettivamente produttive e sociali (intese queste ultime in senso ampio e quindi inclusive delle motivazioni occupazionali) (Tabella 1).
Tabella 1. Tipologie di relazione per motivazioni e intensità.
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Funzione produttiva |
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bassa |
alta |
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Funzione sociale / occupazionale |
bassa |
commessa |
filiera orizzontale o verticale |
alta |
commerciale (marketing, brand) volontà/vincoli occupazionali |
responsabilità sociale assunzione post-formazione |
Nel primo cluster, a bassa motivazione sociale e produttiva, sono identificabili tutti quei rapporti che si basano su relazioni in cui l’oggetto esclusivo è l’assegnazione della realizzazione di servizi o di semilavorati dall’impresa alla cooperativa, in un rapporto quindi di commessa. Qui la funzione sociale (ed occupazionale) giace totalmente nell’ombra del rapporto, è propria solo della cooperativa sociale e quindi talvolta non è nemmeno nota alla controparte che quindi basa la relazione solo su un processo di valutazione del rapporto qualità/prezzo rispetto all’oggetto dello scambio. La relazione può giungere in taluni casi ad una certa stabilizzazione (passando dall’acquisto ad un contratto anche pluriennale), ma in ogni caso espone la cooperativa sociale ad alcuni chiari rischi imprenditoriali di cui essa si dovrà fare completamente carico: rispetto dei tempi di esecuzione e di ogni clausola contrattuale, rispetto degli standard di qualità richiesti, costi di investimento nell’acquisto di opportune attrezzature e macchinari di supporto alla realizzazione, costi di investimento nella professionalizzazione dei lavoratori e per il miglioramento delle procedure, rischio di mancato rinnovo dei contratti/delle commesse. Il vantaggio indotto della relazione sulla funzione sociale ed occupazionale per le cooperative sociali è semplicemente quello della possibilità di acquisire risorse che permettono nuove o più stabili assunzioni di persone svantaggiate, ma di ciò non vi è garanzia non essendo la dimensione occupazionale al centro della relazione con l’impresa.
Nel secondo cluster, a bassa motivazione sociale ed alta motivazione produttiva, la funzione produttiva diviene più specifica, legata a processi di esternalizzazione di fasi integrate del ciclo produttivo o alla co-produzione di parte delle stesse. La relazione tra cooperativa sociale e impresa è quindi motivata dalla condivisione di una filiera, sia essa verticale (con cooperativa sociale e impresa che lavorano su fasi a monte e a valle della produzione) oppure orizzontale (incentrata cioè sulla stessa fase produttiva, con condivisione in tal caso usualmente della fase della commercializzazione del bene finale, ma con possibili filiere orizzontali anche sulla fase di produzione come nel caso più diffuso della produzione agricola). La relazione in filiera ha come caratteristica e vantaggio il condividere attraverso la relazione anche conoscenze e tecnologie: essendovi cioè una finalità di produzione condivisa, le parti tenderanno a (o dovranno) mettere in condivisione elementi di processo e ciò porterà o alla realizzazione congiunta anche degli investimenti funzionali alla loro acquisizione e realizzazione (investimento in tecnologie, in strumenti condivisi) o talvolta alla messa a disposizione da parte dell’impresa (soprattutto se di grandi dimensioni) di tecnologie, strumenti e conoscenze da essa adottati a favore della cooperativa sociale.
In questa relazione, una prima contaminazione tra le imprese sotto il profilo produttivo può portare: (i) a ridurre (i.e. portare a livelli controllati) i rischi a carico della cooperativa sociale in termini di investimenti e (almeno parzialmente) di costi della professionalizzazione del proprio personale; (ii) a raggiungere alcune economie di scala, funzionali alla riduzione dei costi sia per la cooperativa sociale che per l’impresa; (iii) a sviluppare nuove idee ed innovazioni nei processi o anche nei prodotti, e ciò tanto più al crescere della contaminazione reciproca tra le parti.
La funzione sociale ed occupazionale, si osserva tuttavia, è ancora un risultato indotto, anche se può assumere più spessore di quanto generato nella presedente cluster: l’occupazione non è contemplata infatti negli obiettivi della relazione, ma trova un suo rafforzamento grazie al fatto che la relazione si stabilizza, che la cooperativa cresce e che i suoi lavoratori acquisiscono competenze più spendibili anche sul mercato del lavoro esterno. Il lavoratore svantaggiato resta tuttavia esclusivamente in capo alla cooperativa sociale, in termini contrattuali, di costi della formazione, di collocamento continuo.
Nel terzo cluster, caratterizzato da una bassa funzione produttiva ed un’alta funzione sociale, si collocano quelle relazioni in cui l’impresa conosce la funzione sociale ed occupazionale della cooperativa e valorizza questo elemento nella relazione, ma non investe invece in un rapporto produttivo strutturato. La motivazione sociale/occupazionale diviene quindi funzionale ad uno specifico obiettivo dell’impresa, non comportando la necessità delle parti di condividere fasi produttive o agire in modo condiviso. La motivazione sociale non va intesa tuttavia in questa cluster esclusivamente in senso “alto”, ovvero legato ad etica ed obiettivi pro-sociali: spesso la volontà dell’impresa di rivolgersi ad una organizzazione per il suo contributo sociale è funzionale anche semplicemente all’acquisizione di un “marchio etico”, di un brand, o di visibilità sociale; oppure alla realizzazione di occupazione a favore di soggetti svantaggiati in cooperativa. Soltanto in alcuni casi l’obiettivo diverrà l’inclusione del lavoratore svantaggiato – già formato o affiancato da un tutor – nel contesto produttivo dell’impresa e con assunzione da parte dell’impresa. Rispetto al lavoratore svantaggiato, quindi si potranno avere casi di dipendenza dalla cooperativa e supporto economico esplicito al suo inserimento da parte dell’impresa, o casi di assunzione nell’impresa con costi formativi a carico della cooperativa. In entrambi i casi, il costo del lavoratore è quindi parzialmente “ammortizzato” (rispettivamente per la cooperativa e per l’impresa), ma la sua gestione resta in modo nettamente prevalente a carico esclusivamente di un suo unico datore di lavoro. Il rischio, quindi, è che pur nel condiviso obiettivo sociale o occupazionale, e nonostante i possibili vantaggi economici per la cooperativa, non si prospettino sviluppi nella capacità produttiva o innovativa degli enti, che sono invece stimolati laddove vi è una condivisione maggiore delle funzioni produttive.
Nell’ultimo cluster, dove sia la funzione produttiva che quella occupazionale e/o sociale sono al centro della relazione, cooperativa sociale ed impresa condividono l’agire dell’impresa sociale. Le motivazioni comuni possono essere quindi identificate in modo basilare nella responsabilità sociale di cui entrambe le parti si vogliono dotare (o sono dotate), che si desidera caratterizzi i processi produttivi in termini di equità e con cui si vogliono identificare (almeno alcuni dei) propri prodotti. La motivazione può essere comunque anche esplicitamente quella di generare occupazione a favore di fasce deboli, in una prospettiva più “filantropica”, benché caratterizzata da uno scambio economico e da funzioni produttive strutturate.
Infine, l’obiettivo occupazionale può divenire obiettivo e risultato finale del processo produttivo condiviso: a seguito della formazione e professionalizzazione del lavoratore svantaggiato e della verifica della sua resa produttiva, è possibile prevedere che il lavoratore sia assunto dall’impresa. Nonostante le diverse modalità e motivazioni secondo cui la relazione può avere luogo, è possibile affermare che in questo cluster, affinché la relazione tra produzione e occupazione sia bilanciata, tra le parti si deve generare una necessaria reciproca contaminazione (come precedentemente denominata) e diffusione di conoscenze, tecnologie (non solo produttive ma anche occupazionali e relative all’inserimento lavorativo), prevedendo ove opportuno anche trasferimento o condivisione di risorse e creazione di gruppi di lavoro condivisi.
La relazione così strutturata può portare quindi a co-progettare le produzioni o loro fasi mettendo ciascuna parte a disposizione conoscenze ed idee, o persino a co-governare il sistema ed i processi. In queste situazioni il costo è di certo intercettabile nella complessità dell’organizzazione dei processi (produttivi ed occupazionali), soprattutto laddove le parti acquisiscano un ruolo paritario e quindi quando si riducono le autonomie rispetto alle relative decisioni produttive ed occupazionali. La relazione può inoltre esporre le parti a maggiori rischi d’impresa condivisi (poiché può richiedere anche investimenti mirati a ciascuna), ma può portare con sé anche maggiori probabilità di innovazione, di crescita, di creazione di prodotti differenziati dai competitors sul mercato finale. La relazione può inoltre godere dei descritti vantaggi della filiera produttiva, con economie di scala e conoscenza.
Dietro alle descritte situazioni e tipologie di relazioni, le parti fanno ricorso a dispositivi giuridici e commerciali per la loro formalizzazione. In modo interessante anche secondo quanto emerso dai casi studio condotti, non è possibile identificare una relazione assolutamente univoca tra motivazione e dispositivo adottato (Tabella 2). Pratica e teoria declinano talvolta in modo diverso l’uso del dispositivo.
Tabella 2. Tipologie di relazione per dispositivi applicati.
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Funzione produttiva |
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bassa |
alta |
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Funzione sociale / occupazionale |
bassa |
contratti commerciali |
accordi pluriennali, ATI, |
alta |
marchio artt. 12 e 12 bis L. n. 68/1999 art. 14 D.lgs. n. 276/2003 |
contratti di rete |
Così, se per i rapporti a bassa intensità produttiva ed occupazionale (primo cluster) è di certo sufficiente e prevalente il ricorso ad un contratto commerciale, un’assegnazione di commessa, quando la funzione e la filiera produttiva divengono più rilevanti (secondo cluster) le parti possono diversamente convenire o alla stipula di accordi pluriennali, o alla formalizzazione di ATI o RTI. La formalizzazione in un contratto di rete non è caso estraneo: la rete ha tuttavia in questo caso al centro dell’azione solo il rapporto produttivo e non coglie quindi opportunità e motivazioni sociali ed occupazionali.
Guardando a dispositivi giuridici come l’art.14 D.lgs. n. 276/2003, esso è di certo pensato come lo strumento che pone al centro della relazione l’occupazione della persona svantaggiata, impegnando l’impresa a sostenerne indirettamente l’impiego in cooperativa (posizionando quindi lo stesso come dispositivo applicabile nel terzo cluster, ossia in circostanze di elevate finalità occupazionali e basse finalità produttive). Nonostante questa definizione e finalità di fondo, si verifica nei casi studio che la motivazione sociale/occupazionale è nella maggior parte dei casi del tutto secondaria o comunque non interiorizzata dall’impresa e la relazione dal punto di vista pratico ha tutte le caratteristiche di una relazione commerciale. Il dispositivo dell’art. 14 sembra in tali casi esclusivamente la causa scaturente, ma non riesce a rafforzare la motivazione sociale dell’impresa. Situazione opposta si verifica invece in molti casi di fronte al ricorso a dispositivi produttivi e commerciali come la creazione di un marchio etico o sociale condiviso, magari specifico per una linea di prodotti: molto spesso esso trova la sua motivazione scaturente nella possibilità di rafforzare i risultati produttivi ed economici delle parti e nei confronti del mercato, ma può anche sottendere (o portare nel tempo a) la condivisione di motivazioni etiche e quindi pro-sociali.
Il contratto di rete è infine lo strumento che, per caratteristiche, può meglio rispondere alla formalizzazione di relazioni in cui sono alte sia le motivazioni economico-produttive che quelle occupazionali-sociali. Il contratto di rete può tuttavia assumere giuridicamente svariate forme e si presenta infatti come uno strumento flessibile (Cafaggi e Iamiceli, 2020). Per definizione con tale contratto “più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa” (art. 3, commi 4-ter e seguenti, del d.l. n. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito in legge 9 aprile 2009, n. 33).
Sicuramente il contratto di rete si applica quindi in quei casi (e relativi cluster) in cui sono molto alte le finalità produttive. Esso non implica tuttavia per definizione che anche le motivazioni occupazionali e sociali siano alte. Come già presentato nell’introduzione, ad oggi esistono solo 11 contratti di rete registrati tra cooperative sociali di tipo B o plurimo ed imprese e di questi 8 menzionano espressamente l’inserimento lavorativo nell’oggetto del contratto[2]. Esistono quindi nella pratica contratti di rete più “semplici” che in sostanza formalizzano la relazione di filiera produttiva, orizzontale o verticale, ponendo la cooperativa sociale al centro della rete, ma non ponendo l’obiettivo occupazionale al centro delle strategie e scelte organizzative. Questa finalità continua ad essere propria in modo quasi esclusivo della cooperativa sociale e per tale ragione sembra possibile affermare che le scelte strategiche delle parti potranno portare ad un rafforzamento della competitività sul mercato e della capacità innovativa rispetto al prodotto (come previsto anche giuridicamente nello scopo del contratto di rete), ma a minori ricadute sociali, nel senso che ancora queste saranno un risultato indotto più che predeterminato e strategico della rete. Inoltre, il rischio di un’applicazione “parziale” del contratto di rete, ossia in cui l’obiettivo strategico è solo produttivo, è quello di non integrare realmente le motivazioni delle parti e poter veder insorgere costi e fallimenti nel processo decisionale e di governance nel momento in cui comunque una parte degli obiettivi resta diversa o addirittura contrapposta (obiettivo sociale verso economico)[3].
Il contratto di rete strutturato invece come strumento finalizzato sia alla condivisione delle conoscenze e delle produzioni che all’inserimento lavorativo porta ad includere nella funzione produttiva delle imprese l’obiettivo di massimizzazione della qualità dei processi di inserimento e occupazione accanto a quello produttivo e commerciale. In tal caso il contratto verrà realizzato nella sua funzione più completa, richiedendo una collaborazione tra le parti più estesa e una programmazione e gestione delle attività in cui lo scopo è di certo collettivo[4]. Da un punto di vista produttivo, attraverso la strutturazione di una relazione di lungo periodo[5], si rafforza contrattualmente anche la possibilità di reciproci impegni economici e investimenti delle parti. Da un punto di vista sociale ed occupazionale, il contratto potrà avvalersi di – e regolare al suo interno – istituti giuridici ulteriori quali nello specifico il distacco o la codatorialità, prevedendo quindi forme di assegnazione temporanea di lavoratori ordinari o svantaggiati dalla cooperativa sociale all’impresa o viceversa, nonché addirittura l’assunzione congiunta di parte dei lavoratori (Zilio Grando, Biasi, 2014). Gli scambi tra le organizzazioni retiste si intensificano in contenuto (beni patrimoniali e strumenti di lavoro, conoscenze tecnologiche e di processo, ecc.) e per modalità di formalizzazione, prevedendo ad esempio specifiche modalità di gestione del processo decisionale (del governo della rete), la nascita talvolta di una rete con propria personalità giuridica, nonché un programma di rete articolato su livelli sia produttivi che occupazionali.
Una suddetta articolazione del rapporto tra cooperativa/e sociale/i e impresa/e[6] presenta notevoli vantaggi per le cooperative sociali, poiché la funzione occupazionale è internalizzata nella rete e quindi condivisa negli obiettivi strategici delle parti tutte. A queste potenzialità del contratto di rete è quindi opportuno guardare nel dettaglio, anche in comparazione con gli altri modelli di relazione sin qui descritti.
L’analisi del contratto di rete come strumento applicabile nella relazione tra cooperative sociali di inserimento lavorativo ed imprese porta ad evidenziare notevoli vantaggi per le cooperative sociali, ma anche decisi elementi di miglioramento del risultato economico e sociale complessivo, dell’impatto sociale, rispetto alla strutturazione di relazioni basate esclusivamente su scambi commerciali o produttivi o alla mera condivisione di finalità sociali.
Partendo da situazioni in cui le motivazioni sia produttive che sociali sono basse, è possibile affermare che la strutturazione di un contratto di rete trasforma in modo radicale il tipo di relazione instaurata. Per tale ragione, di certo serviranno ragioni forti per convincere la controparte delle opportunità che un contratto di rete può portare con sé e sarà necessario agire in modo significativo sulle motivazioni all’origine. Ciononostante, è chiaramente concepibile che tale trasformazione porti con sé una stabilizzazione del rapporto, trasferimenti di conoscenze e di risorse che non potrebbero passare in un mero rapporto commerciale, elementi quindi che permettono in primo luogo alla cooperativa sociale di migliorare le performance, la produttività, ma da qui anche la sua capacità di risposta alle reali esigenze della controparte. Sarà inoltre di certo più facile pensare ad una conversione del rapporto in contratto di rete quando l’assegnazione di commessa riguarda attività (produzioni o servizi) con un certo contenuto tecnico e professionale, che quindi spiega il valore aggiunto della realizzazione da parte della cooperativa nei confronti dell’impresa committente e che può delineare anche possibili strategie di formazione e inclusione al lavoro delle persone svantaggiate anche pro-occupazione nell’impresa. Dove invece il rapporto riguarda servizi o fasi produttive dal basso valore aggiunto, l’esternalizzazione da parte dell’impresa con forme come contratti e commesse resta di certo il dispositivo prevalente poiché meno costoso per le parti (in termini di impegni e rischi reciproci) rispetto ai limitati vantaggi che comunque il contratto di rete apporterebbe in termini di miglioramento della qualità e della produttività delle attività oggetto di scambio.
Quando sin dall’origine della relazione le motivazioni produttive sono alte e quelle sociali basse, è già stato osservato che il contratto di rete può rappresentare una reale alternativa per la formalizzazione del rapporto. Le parti ricorrono infatti in tal caso ad un istituto che permette di condividere sia i processi decisionali che i processi produttivi dalle fasi della pianificazione a quelle della realizzazione e spesso della commercializzazione. La co-progettazione tra soggetti privati fa confluire in ogni fase informazioni specifiche ed eterogenee che permettono tipicamente di migliorare gli elementi di analisi e di riuscire a rispondere in maniera più efficace alle richieste del mercato nonché di innovare. Va infatti tenuto presente che la rete ha proprio l’esplicito obiettivo di combinare e far condividere alle imprese retiste competenze e risorse, lasciando rispettive autonomie, ma portando ad una cooperazione “strategica” e quindi funzionale al miglioramento dei risultati di entrambe le parti. La stesura di un contratto di rete che abbia tuttavia “ad oggetto e funzione l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate” compie un passo ulteriore: pone negli obiettivi della cooperazione strategica non solo la filiera produttiva, ma anche la filiera occupazionale.
Benché l’applicazione dei dispositivi giuslavoristici della codatorialità o del più semplice distacco non siano obbligatori per redigere un contratto di rete con i descritti obiettivi occupazionali, quantomeno le parti dovrebbero iniziare a riflettere strategicamente anche sulla possibilità della rete di (i) stabilizzare i contratti dei lavoratori svantaggiati inseriti (ii) aumentare le ricadute occupazionali in termini quantitativi, agendo con innovazioni funzionali ad assumere più persone svantaggiate (iii) estendere le tipologie di persone svantaggiate cui offrire opportunità occupazionali, pensando ad esempio anche a soggetti con gradi di svantaggio e disabilità diversi per studiare possibili collocamenti diversi (iv) investire nella professionalizzazione dei lavoratori svantaggiati su abilità più spendibili sul mercato del lavoro aperto o nelle stesse imprese della rete (v) condividere quindi anche filiere di inserimento lavorativo interno alla rete, tale a collocare persone svantaggiate formate nelle imprese della rete. Tali esempi permettono chiaramente di identificare un valore aggiunto di reti che rafforzano l’obiettivo occupazionale accanto a quello produttivo anche senza “gravarsi” (se questa fosse la percezione delle parti) dei costi di istituti come appunto la codatorialità. Sarà comunque da considerarsi se – dato il livello di alto valore aggiunto e di innovatività delle produzioni in filiera – la codatorialità non possa essere quantomeno considerata per figure e professionisti a più alto livello, dove quindi un impegno condiviso e coordinato su più imprese della rete potrebbe portare a vantaggi economici e di risultato per l’intera produzione e rete.
Quando le motivazioni produttive sono basse e quelle sociali alte, la realizzazione di un contratto di rete può essere o un rafforzativo a dispositivi già adottati, come il marchio, cui quindi si assegnerà non solo una certificazione di qualità sociale, ma anche una certificazione di qualità produttiva e di processo; oppure il contratto di rete può essere il passaggio verso una contaminazione più completa anche delle riflessioni strategiche attorno al prodotto o al servizio. Muoversi verso il contratto di rete dovrebbe quindi stimolare innovazioni e cambiamenti, ma in modo speculare è anche possibile affermare che sarà quindi difficile pensare a convertire la relazione tra le parti in un contratto di rete se le stesse non intravvedono possibilità ed interessi per la realizzazione di nuovi servizi, di nuove modalità operative e produttive e se quindi resta bassa la possibilità di conferire al prodotto/all’oggetto dello scambio innovazione.
La conclusione non è, quindi, che, in modo assoluto, il contratto di rete debba essere perseguito e sostituito agli esistenti dispositivi, ma esso va studiato come alternativa con costi e vantaggi per le parti, ovvero ed ancor più come evoluzione delle relazioni tra le parti, soprattutto quando queste sono già sufficientemente complesse ed eterogeneamente motivate.
Inoltre, può essere osservato anche che, proprio per la sua estrema flessibilità, il contratto di rete potrà prevedere equilibri diversi al suo interno: diverso peso tra la finalità produttiva e quella occupazionale o sociale, diverso peso delle parti (cooperative e imprese) all’interno del sistema di governance e produttivo della rete. La cooperativa sociale non va considerata, in tal senso, soltanto come il soggetto “beneficiario” del contratto di rete, la parte debole delle alternative relazioni contrattuali e quindi che più delle altre si gioverà in modo più esplicito e diretto dei vantaggi del contratto di rete, con sviluppi in termini di apprendimento e crescita. È già stato descritto come le cooperative sociali e le altre le imprese sociali, siano sempre più esse stesse portatrici di innovazioni (sociali ma non solo), siano flessibili e investano su cambiamenti e crescita proprio perché guidate anche dalla volontà di avere ricadute sociali ed occupazionali per il proprio territorio. Esse godono di informazioni e conoscenze anche indirette apportate dai diversi (tipicamente più numerosi rispetto alle imprese profit) stakeholder con cui si relazionano e sono inserite in sistemi di reti anche informali che possono apportare ulteriori conoscenze e risorse.
Per questo, sarà nelle stesse strategie della cooperativa sociale anche l’intercettare la rispondenza del contratto di rete alle proprie aspettative e ai propri obiettivi di sviluppo: se la cooperativa sociale è detentrice di tecnologie produttive e queste sono funzionali alla valorizzazione degli inserimenti lavorativi, il contratto di rete potrà essere considerato come il modo per cercare partner stabili e condividere in modo paritario i processi, continuando a lavorare come elemento centrale sulla funzione produttiva; se la cooperativa sociale è più concentrata sulla funzione occupazionale e sociale, vedendo come funzionale a tale crescita anche lo sviluppo produttivo, potrà cercare nelle imprese e tra le imprese le detentrici di quelle tecnologie, di quei processi e di quei prodotti che la formula sociale potrebbe essere in grado di valorizzare ed innovare grazie ad un brand etico e ad una visibilità sociale di rete.
È alla luce di tali diverse opportunità, che l’analisi del contratto di rete nella sua fattispecie generale e nelle sue possibili diverse declinazioni divengono di stimolo per un concreto cambiamento nelle modalità con cui le cooperative sociali di inserimento lavorativo (ma non solo) si stanno sempre più aprendo alla relazione con i soggetti privati.
DOI: 10.7425/IS.2021.03.08
Cafaggi F., Iamiceli P. (2020), “Il contratto di rete. Commento alla normativa”, in Alpa G., Mariconda V. (a cura di), Codice dei contratti commentato, Wolters Kluwer, Milano.
Euricse (2021), Reti tra imprese per l’inserimento lavorativo. Applicabilità e potenzialità del contratto di rete, Euricse Research Reports, n. 21|2021. Autori: C. Borzaga, M. Borzaga, S. Depedri, C. Ferrari, E. Gubert, P. Iamiceli, M. Mazzetti, Euricse, Trento.
Istat (2020), Struttura e profili del settore non profit. Anno 2018, Istat, Roma.
Zilio Grandi G., Biasi M. (a cura di) (2014), Contratto di rete e diritto del lavoro, CEDAM, Padova.
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