Vegni F. (2018), Oltre la solidarietà. La Federazione Nazionale delle Pubbliche Assistenze (1970-1991), Unicopli, Milano.
Agile e ben strutturato, il libro di Francesco Vegni ricostruisce con efficacia un tema ancora poco studiato come quello della Federazione Nazionale delle Pubbliche Assistenze. Lo fa adottando un taglio metodologico convincente, sfruttando la ricchezza dell’archivio storico Anpas per ampliare l’esigua storiografia sul tema.
La capacità dell’autore di sollevare interrogativi e questioni di rilievo è riconducibile ad un filone di ricerca che, negli ultimi anni, ha contributo a fornire una prima base metodologica allo studio del volontariato e del terzo settore in Italia. Recuperando e arricchendo il solido lavoro di Fulvio Conti (I volontari del soccorso. Un secolo di storia dell’Associazione nazionale pubbliche assistenze, Marsilio, Venezia, 2004), Vegni non si limita infatti ad una mera ricognizione della parabola della Federazione; egli tenta piuttosto di comprenderne le traiettorie, aprendo un dialogo costruttivo con alcuni dei grandi nodi dell’Italia repubblicana. A dimostrarlo è l’arco di tempo sul quale si concentra lo studio: tra il 1970 e il 1991 il volontariato italiano conobbe alcune delle sue evoluzioni più significative, allestendo un tavolo di confronto continuo tra le pulsioni della società civile e gli sforzi di risposta istituzionali. Certo, lo sfondo politico e sociale di queste vicende viene dato talvolta per scontato, togliendo un minimo di solidità alla ricostruzione. Resta però estremamente interessante il modo in cui l’autore si mostra in grado di indicare nuove piste d’indagine, sollecitando spazi di riflessione che qui vorrei riassumere in tre punti di ampio respiro.
In primo luogo, come sottolineato nella sua prefazione da Nicola Labanca, il saggio ha il merito di spostare lo sguardo sul ruolo delle Pubbliche assistenze nel riformismo statale degli anni Settanta. Nello specifico, avanza un’ipotesi tutt’altro che infondata: ovvero che, in una cornice animata da insoliti fermenti di progressismo politico e da un significativo fervore civico, l’attuazione del principio costituzionale di diritto alla salute (art. 32) non avrebbe potuto trovare la sua piena concretizzazione senza il supporto dell’associazionismo e delle organizzazioni di volontariato. Nella sua complessità e vastità interpretativa, questo aspetto consegna uno spunto di grande importanza per esaminare a fondo quel processo di riconoscimento che nel 1991 avrebbe portato al varo della legge 266. Da un lato ne traccia i prodromi istituzionali, ricordando l’impegno politico della presidente della Commissione sanità Maria Eletta Martini verso l’inserimento del volontariato nel Servizio Sanitario Nazionale del 1978; dall’altro ne ricerca le motivazioni dal basso, puntualizzando il ruolo dei mezzi di soccorso, dei presidi sanitari e dei volontari (dalle Pubbliche assistenze alle Misericordie) nel rendere il volontariato una necessità imprescindibile. Fu proprio questa progressiva convergenza tra la spinta proveniente dalla società e la macchina statale a denotare una delle peculiarità del welfare italiano, animato da una serie di riforme che – almeno in un primo momento – si trovarono a differire dalla riorganizzazione neoliberale che stava toccando l’Europa del tempo[1]. Una dimensione specifica che annoverava tra le sue ragion d’essere anche l’onda lunga del biennio 1968-1969 e l’iniziativa produttiva e propulsiva dei diretti interessati, di quelle soggettività collettive e nuove attratte dalla «introduzione di modelli profondamente innovatori»[2].
Certo, ciò avvenne nell’ambito di posizioni eterogenee sia sul piano programmatico che su quello ideologico. In particolare, le molteplici espressioni organizzative della società civile si trovarono a confliggere con una cultura governativa protesa ad inquadrare i servizi socioassistenziali all’interno di soluzioni prevalentemente statali, relegando l’iniziativa delle istituzioni private ad una mera funzione coadiuvante. Eppure, come sottolineato da Vegni, fu proprio questo schema a conoscere graduali trasformazioni tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta. Da una parte l’avvicinamento operativo tra le varie istituzioni di volontariato contribuì a mutare assetti apparentemente consolidati, costringendo le vecchie organizzazioni a favorire la «creazione di una nuova base sociale lontana dalle ideologie e dai condizionamenti politici» (p. 18). Dall’altra la crescita di un confronto con le forze governative portò le organizzazioni stesse a maturare una diversa consapevolezza del loro ruolo rappresentativo, lasciando alla componente politica il compito di carpire – attraverso queste ultime – il riflesso di «bisogni diffusi» e sempre più manifesti nella società. Di conseguenza, in questa prospettiva bilaterale non trova senso solo il rapido passaggio che il volume compie sullo sviluppo della Protezione civile[3], ma assume una rilevanza ancor più specifica il racconto di quel lungo percorso di avvicinamento tra organizzazioni laiche e cattoliche destinato a trovare concretizzazione politica tanto nei rapporti con le componenti istituzionali (con riferimento a casi esplicativi, come la discussione attorno alla proposta di legge finanziaria del governo durante il Consiglio nazionale del volontariato del 24 settembre 1989), quanto – in una lettura di lungo periodo – nella pressoché unanime convergenza di voti con la quale sarebbe stata accolta in sede parlamentare la legge quadro sul volontariato nell’agosto del 1991 (382 voti favorevoli su 385 presenti, con soli 3 astenuti).
Invero, in questa cornice si intrecciano almeno tre aspetti che l’economista Jean Gadrey – pur riferendosi al contesto francese – aveva già evidenziato nel 2007: una forte spinta da parte dell’economia sociale coinvolta nella produzione di servizi a ricercare un’identità di settore in grado di beneficiare di alcune agevolazioni fiscali sotto il cappello della pubblica utilità; l’espandersi – anche nell’Italia degli anni Ottanta – del tornante neoliberale precedentemente accennato, destinato a contemplare la necessità amministrativa di uno Stato leggero, sempre meno responsabile della produzione di servizi ma – al contempo – capace di gestirli attraverso la delega privata; l’accrescimento di forme di azione collettiva, soprattutto locali, orientate a rivendicare un’autonomia più o meno marcata nei confronti dell’azione pubblica. Risiede forse qui lo spunto più importante, nelle pieghe di un interesse generale rinnovato e fondato su un’iniziativa di matrice pubblica e privata (terreno sul quale una parte del Parlamento, intuendo evoluzioni future, continuava a palesare perplessità anche nel 1991). Nel volume – senza pretesa di assegnare a Vegni compiti che non si era prefissato – manca forse una lettura più dettagliata di questa dimensione, la quale potrebbe trovare ulteriori margini di approfondimento nelle conseguenze della crescita della spesa pubblica (con effetti noti sul debito pubblico nazionale e sulla proliferazione di fini clientelari) e nel ruolo indiretto giocato dalla flessibilità occupazionale.
Viceversa, dalla ricostruzione di Vegni emerge il modo in cui il tentativo di regolamentare – attraverso la sua istituzionalizzazione – il volontariato sia riuscito a scorgere l’esigenza civile di un welfare decentrato, territoriale e a misura di cittadino, in grado di rimarcare l’atavico legame delle esperienze caritative e mutualistiche con la realtà locale. Un concetto complesso, già ribadito tra il 1975 e il 1977 nei primi convegni organizzati dalle Pubbliche assistenze, dalla Caritas e dal Movimento di Volontariato Italiano, proiettato a conferire più autonomia all’ente locale (come avrebbe sancito la legge n. 142 dell’8 giugno 1990) e destinato a trovare uno snodo decisivo nella Riforma costituzionale del 2001. Fu proprio quest’ultimo provvedimento, di fatto, a favorire una redistribuzione delle funzioni relative alla protezione dei diritti sociali verso ambiti territoriali non centrali, privilegiando soprattutto gli enti politici – in primis regioni e comuni – ed aprendo il sistema all’idea di «non uniformità, dunque di differenziazione» (Balboni, 2003). Allo stesso tempo, attraverso il caso specifico dell’Anpas risalta però anche un processo tendenzialmente inverso: ovvero, la capacità di raccogliere gli spunti locali e le diversità sociali per concretizzare il passaggio dalle varie federazioni ad associazioni coordinate.
Nello spazio delle possibilità economiche e del sostegno governativo, il bel lavoro di Vegni si dimostra quindi capace di cogliere buona parte di quella serie di intrecci che connotarono la crescente «utilità sociale» del volontariato. Capire queste dinamiche implica ripercorrerne la storia, definirne gli snodi e gli sviluppi; non solo in ottica nazionale, ma anche e soprattutto comparata. Valutare come e quanto gli specifici contributi offerti dalle associazioni, dallo Stato, dagli enti amministrativi e dalle imprese for profit abbiano promosso e favorito la produzione di servizi di utilità lungo l’intero territorio e per tutta la popolazione, calibrarne l’impatto e le evoluzioni di fronte a fratture sociali sempre più profonde. Per fare questo, gli storici potranno avvalersi di fonti orali (la cui importanza è facilmente individuabile nella bella intervista di Vegni a Patrizio Petrucci, presidente dell’Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze dal 1978 al 1994) e documentarie, esplorando – tramite un dialogo multidisciplinare – un terreno ad oggi solo sondato. Forse, oltre a ricostruire con precisione e capacità la storia dell’Anpas, il principale merito dello sforzo di Vegni è proprio questo: aver recuperato l’interesse verso un campo di studi di grande rilievo per comprendere più a fondo le trasformazioni sociali e lo sviluppo del terzo settore nella costruzione, nelle trasformazioni e nelle crisi del welfare repubblicano.
DOI: 10.7425/IS.2021.03.10
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