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ISSN 2282-1694
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Numeri

Quando si parla di numeri

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Le cooperative sociali prima e durante il Covid-19

Giuseppe Giulio Calabrese, Greta Falavigna

Startup innovative a vocazione sociale

Alessandro Laspia, Davide Viglialoro, Giuliano Sansone, Paolo Landoni

La complessità del sistema sanitario e assistenziale

Eddi Fontanari

Organizzazione

Le imprese sociali e la loro organizzazione

Redazione

Il contratto di rete tra cooperative sociali

Sara Depedri

Age-management nella cooperazione sociale

Giuseppe Guerini, Emmanuele Massagli, Maria Sole Ferrieri Caputi, Michele Dalla Sega

Le politiche

L’impresa sociale, un pilastro per le politiche

Redazione

Imprese sociali e rigenerazione urbana

Andrea Bernardoni, Massimo Cossignani, Daniele Papi, Antonio Picciotti

Terzo settore e reddito di cittadinanza

Armando Vittoria

Recensioni

Oltre la solidarietà

Federico Creatini

Numero 3 / 2021

Amministrazione condivisa

Coprogettazione e contesti accoglienti

Nicola Grigion

Abstract

C’è grande aspettativa intorno al tema della coprogettazione. Nell’ultimo anno il dibattito è stato rinvigorito da importanti pronunce della giurisprudenza e altrettanto rilevanti interventi normativi. Gli strumenti dell’amministrazione collaborativa hanno così ritrovato la loro legittimità e anzi, con più forza di prima, sono stati affermati come modalità ordinaria di relazione tra Pubblica Amministrazione e terzo settore, ogni qual volta l’obiettivo comune abbia a che fare con attività di interesse generale. Ora, dunque, è lecito chiedersi quali possano essere le ricadute di questi strumenti, in particolare della coprogrammazione e della coprogettazione, se applicati all’ambito delle attività di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, uno tra i più problematici nel panorama del welfare locale.

Dopo una breve ricostruzione storica dei tratti più significativi che hanno segnato la genesi del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI/ex-SPRAR), le pagine che seguono hanno l’obiettivo di comprendere se e in che misura, la natura collaborativa che caratterizza le esperienze locali di accoglienza possa trovare nella coprogettazione un ambiente favorevole per innescare processi di innovazione.

Vi sono infatti alcune elementi che caratterizzano i progetti di accoglienza, i loro sistemi di relazioni e le loro geometrie organizzative, che sembrerebbero indicare nella coprogettazione un alleato particolarmente interessante per Enti locali e terzo settore impegnati nella loro implementazione. La prima parte delle considerazioni che seguono si concentra pertanto sulla loro individuazione. Tuttavia, senza concedere un credito incondizionato agli strumenti dell’amministrazione collaborativa, la riflessione si snoda lungo le criticità con cui più spesso si confrontano gli attori coinvolti nei progetti, provando a restituire anche un panorama puntiforme di pratiche locali che, per quanto non esaustive, indicano alcune traiettorie interessanti proprio dal punto di vista della collaborazione. Il tentativo, quindi, è quello di calarci tra i problemi e le ambizioni che attraversano i progetti di accoglienza, per capire quali siano le condizioni organizzative, le dimensioni culturali, i vincoli di sistema che sarebbe auspicabile superare, affinché lo spazio dell’amministrazione collaborativa non diventi una soluzione gattopardiana, ma possa innescare quei processi di innovazione di cui questo ambito ha urgente bisogno.

Keywords: coprogettazione, coprogrammazione, terzo settore, accoglienza, richiedenti asilo, rifugiati

DOI: 10.7425/IS.2021.03.04

Parliamo di contesti accoglienti

L’occasione è offerta dalla pubblicazione dell’Atlante annuale SAI (ex SPRAR)[1] che compendia le attività svolte nel 2020 dalla rete nazionale del Sistema di Accoglienza e Integrazione e restituisce un’immagine delle complesse questioni che hanno investito i 1.614 comuni coinvolti, le 14.076 figure professionali impiegate e le 37.372 persone accolte.

Al di là dei numeri e del contenuto interessante della pubblicazione, presentata lo scorso giugno da ANCI, il momento sembra propizio per azzardare qualche riflessione sul rapporto che intercorre tra pratiche di accoglienza, contesti territoriali e modalità con cui le Pubbliche Amministrazioni scelgono di stare in questa relazione. I motivi sono almeno due. Il primo è che la parziale tregua concessa dal dibattito politico su questo tema (con effetti ben diversi da quelli del silenzio che accompagna ciò che avviene nel Mar Mediterraneo) ci offre forse lo spazio per elaborare un pensiero libero dall’urgenza di prendere una posizione esclusivamente reattiva. Il secondo è che nel corso dell’ultimo anno è stato fatto finalmente un po’ di ordine tra gli strumenti a disposizione di Enti locali e terzo settore per organizzarsi intorno alle attività di interesse generale e quindi anche a quelle dedicate all’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati.

Grazie ad alcuni interventi della giurisprudenza e del legislatore[2], questa cassetta degli attrezzi si riscopre oggi indiscutibilmente più ricca e offre diverse possibilità di scelta dal carattere profondamente politico, non più schiacciate sul binomio pubblico-erogatore/privato-esecutore, ma aperte a una visione più articolata, ispirata al principio della sussidiarietà e fortemente centrata sulla collaborazione e lo sviluppo di relazioni poliedriche.

Proprio dal punto di vista degli aspetti collaborativi, l’Atlante SAI offre non pochi spunti. Tra i tanti, vale la pena mettere a fuoco un dato: i 2.746 accordi e protocolli stipulati nel 2020 a livello territoriale per realizzare attività complementari o funzionali all’integrazione delle persone accolte, che si aggiungono ai 6.594 già attivati negli scorsi anni. Si tratta di un lavoro di tessitura enorme, di un’inclinazione diffusa ad attivare sistemi relazionali intorno ai progetti di accoglienza, che occupa un posto sempre più centrale nello sviluppo di pratiche di successo.

Come possiamo quindi valorizzare questo capitale? Com’è possibile farlo diventare potenziale di innovazione?

La storia dei sistemi di accoglienza ci dice che questa tensione alla collaborazione ha radici molto lontane. Già a partire dal 1979, quando l’Italia si confrontò con l’accoglienza dei rifugiati provenienti dal Vietnam, fu proprio grazie al mutualismo allargato e al coinvolgimento attivo di tante comunità territoriali che la risposta poté andare oltre la soddisfazione dei soli bisogni primari. Intorno ai cosiddetti boat people[3] prese forma, infatti, una trama di relazioni dense, che permise loro di diventare protagonisti attivi nelle comunità che li avevano accolti e di radicarsi nel nuovo ambiente di vita. Non fu però un evento isolato.

Successivamente, nel corso delle crisi albanesi degli anni ‘90 e durante i conflitti che coinvolsero i Balcani alla fine del secolo scorso, anche se in contesti storico-politici con caratteristiche ed esiti molto diversi, questo approccio fondato sulla mobilitazione diffusa della società civile e delle reti territoriali, rappresentò sempre una risorsa determinante. Ogni volta che l’Italia fu chiamata ad accogliere persone in fuga, furono le comunità locali e l’associazionismo diffuso a giocare un ruolo decisivo, a fronte di un assetto normativo e istituzionale che si riscopriva ogni volta in ritardo, incapace di far tesoro delle vicende passate. Questa tensione tra pratiche innovative e capacità di apprendimento istituzionale ebbe un punto di svolta nel 2002[4], quando il patrimonio di esperienze delocalizzate maturato fino a quel momento, fu riconosciuto e capitalizzato per la prima volta con l’istituzione del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) e la previsione di un fondo per il suo finanziamento (FNPSA).

Nel suo primo decennio di attività lo SPRAR, oggi rinominato SAI, Sistema di Accoglienza e Integrazione, occupò una posizione tutto sommato marginale, quantomeno dal punto di vista dei numeri. Nonostante le sperimentazioni e le pratiche innovative, la rete, pur riconosciuta all’unanimità come modello a cui ispirarsi, dovette fare i conti per lungo tempo con la logica dei grandi centri, con un sistema di accoglienza caratterizzato dalla presenza di circuiti paralleli e un disegno complessivo scarsamente razionale[5].

Solo nel corso dei dieci anni successivi, a partire dalle “primavere arabe” del 2011 e l’importante aumento delle migrazioni forzate verso l’Europa[6], lo SPRAR, seppur all’interno di un quadro ancor più complesso e contraddittorio, allargò la sua portata e uscì dall’angolo della sperimentazione[7].

Oggi, anche se non sono mancati i momenti di crisi, il Sistema di Accoglienza e Integrazione rappresenta la forma ordinaria con cui si dà nel nostro Paese attuazione alle normative europee e nazionali in materia di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Ma è soprattutto per questa sua collocazione territoriale diffusa e per la sua genesi legata all’indiscutibile protagonismo della società civile organizzata, che sembra interessante collocarlo al centro delle riflessioni che seguono.

Perché, al di là delle vicende storico-politiche e degli aspri conflitti che hanno caratterizzato la sua evoluzione, ricostruire in breve la genealogia e le radici dell’accoglienza diffusa ci permette di introdurre il tema degli strumenti collaborativi e in particolare della coprogrammazione e della coprogettazione previste dall’art. 55 del Codice del Terzo Settore (di seguito CTS), da una prospettiva inusuale. Non tanto e non solo, quindi, evocandone l’apporto innovativo, come se lo strumento in sé potesse garantirlo a prescindere dal contesto e dalle intenzioni che ne motivano l’utilizzo. Ma, al contrario, centrando lo sguardo sulla natura collaborativa che caratterizza le pratiche di accoglienza fin dalle origini[8], interrogandoci piuttosto sulla capacità della coprogettazione di interpretare questo tratto biografico, per farlo diventare infrastruttura portante di luoghi accoglienti.

Liberi dalla tentazione di enfatizzare gli effetti innovativi dei processi di coprogettazione, possiamo quindi impegnarci a individuare alcuni elementi distintivi del SAI, per capire, anche grazie a qualche esempio concreto, se la coprogettazione, in quanto processo amministrativo, spazio organizzativo e presidio metodologico, sia effettivamente l’abito migliore da cucire intorno ai progetti della rete.

Ma cos’è il SAI? E qual è il suo campo di azione? Con una definizione sintetica possiamo descriverlo come la rete degli Enti locali titolari di un finanziamento e che, avvalendosi della collaborazione del terzo settore, predispongono servizi di accoglienza, tutela e inclusione – la cosiddetta accoglienza integrata – finalizzati alla riconquista dell’autonomia di richiedenti asilo, rifugiati e cittadini di Paesi Terzi che si trovano in altre particolari condizioni.

Per arricchire ulteriormente questa definizione possiamo aggiungere che il finanziamento ha durata triennale ed è riconosciuto sulla base di un progetto presentato al Ministero dell’Interno, accompagnato da un piano finanziario organizzato per voci di spesa e costruito sulla base di specifiche Linee Guida. Le possibili categorie progettuali sono tre e possono prevedere servizi ordinari, servizi riservati a minori stranieri non accompagnati, oppure servizi rivolti a persone con disagio mentale o portatori di esigenze sanitarie specifiche.

Gli interventi contemplati dalle Linee Guida prevedono che l’accoglienza materiale, la tutela sanitaria, quella psicologica e sociale, siano affiancate a servizi più direttamente rivolti ad accrescere l’autonomia delle persone accolte, come la mediazione linguistico-culturale, l’orientamento ai servizi del territorio, l’apprendimento della lingua italiana, la formazione, la riqualificazione professionale e le attività di orientamento e accompagnamento all’inserimento sociale, lavorativo e abitativo. Inoltre, per assicurare questi interventi, i progetti SAI devono poter contare su equipe multidisciplinari e su un assetto organizzativo in grado di garantirne il funzionamento.

Gli Enti locali possono decidere il numero di posti da attivare, che possono essere riservati a donne, uomini, nuclei familiari o nuclei mono-genitoriali[9], mentre le modifiche apportate dalle normative più recenti hanno ampliato le tipologie di titoli di soggiorno che consentono di fruire delle misure di accoglienza[10]. Tra questi, oltre quelli tipicamente riconducibili alla sfera della Protezione Internazionale, compreso il permesso per chi è ancora in attesa di una decisione definitiva sulla sua domanda d’asilo, vi sono i titoli rilasciati alle vittime di tratta, di grave sfruttamento lavorativo, di violenza domestica, a chi proviene da paesi colpiti da gravi calamità, a chi si rende protagonista di atti di particolare valore civile e a chi si trova in gravi condizioni psico-fisiche o è affetto da gravi patologie, senza dimenticare la nuova Protezione Speciale.

Si tratta quindi di una dimensione vincolata, uno spazio caratterizzato da alcune condizioni (categoria progettuale, Linee Guida, durata del finanziamento, funzionamento del piano finanziario), ma anche dalla possibilità di cucire gli interventi intorno alle caratteristiche geografiche, economiche e sociali del territorio (diverse tipologie di posti, diverse modalità organizzative e gestionali dei servizi, piani finanziari costruiti ad hoc, etc.).

Questa carrellata sui vincoli imposti e sulle possibilità offerte dal SAI, oltre a marcare la differenza con le più diffuse forme di accoglienza straordinaria attivate nel corso degli ultimi anni dalle Prefetture, ci aiuta ad abbozzare alcune considerazioni sulle geometrie organizzative e relazionali che prendono forma intorno alla nascita di un progetto della rete, a cui dedichiamo la prima parte di questo testo.

Una prima dimensione chiamata in causa è inevitabilmente quella della conoscenza. Quali sono i problemi del territorio? Quali sono gli strumenti gusti per farvi fronte? Per rispondere a queste domande è necessario poter contare su chiare analisi di contesto e su una lettura plurale e condivisa dei suoi problemi, delle sue risorse e delle competenze che esprime. Anche per questo la genesi dei progetti SAI si colloca naturalmente nell’ambito di un’imprescindibile attività di coprogrammazione. A tal proposito, l’art. 55 del CTS richiama il rispetto delle norme che disciplinano specifici procedimenti e in particolare di quelle relative alla programmazione zonale. C’è da dire che la storia dei Piani di zona, sviluppatasi in maniera disomogenea sul territorio nazionale e troppo spesso limitata ad attività di consultazione, non ha rappresentato sempre un terreno fertile su cui far germogliare queste esperienze. Anche per questo, probabilmente, non sono molti i progetti SAI nati dalla programmazione zonale. Tuttavia, la portata attuale dell’art. 55 del CTS sembrerebbe poter dar nuovo slancio all’attività di coprogrammazione, proprio laddove si propone come possibile integrazione, ampliamento, potenziamento dell’attività dei Piani di Zona. In altre parole, quando questi non fossero sufficienti, o fossero caratterizzati dai limiti già citati, le esigenze di leggere e analizzare in maniera condivisa la realtà locale potrebbe essere legittimamente soddisfatta da forme di coprogrammazione attivate ai sensi dell’art. 55 del CTS, prima e dopo la programmazione zonale, integrandone i tavoli con momenti dedicati al terzo settore o con sessioni specifiche in cui trattare aspetti particolari non sufficientemente approfonditi nei Piani di Zona. A scanso di equivoci e a prescindere dagli aspetti procedurali che possono caratterizzarne gli esiti, vale la pena però ribadire, come peraltro fanno esplicitamente le Linee Guida dello scorso 31 marzo 2021, che si tratta di scelte dal valore indiscutibilmente politico. Da un lato, infatti, vi è la mera opportunità di informare, consultare, concertare, sottoporre al vaglio di diversi soggetti scelte preventivamente già orientate. Dall’altro vi è una prospettiva potenzialmente costituente, fortemente connessa a una visione plurale dei contesti, al riconoscimento, non solo delle competenze diffuse del terzo settore e della comunità che interpreta, ma della loro irriducibilità a un unico sguardo. In buona sostanza, non sarà una procedura amministrativa a garantire la redistribuzione verso il basso del potere decisionale. Questa, però, se utilizzata al meglio, può rappresentare un importante tassello nella costruzione di un “ecosistema istituzionale collaborativo” in grado di riconoscere e conferire forza decisoria alle diverse esperienze, anche informali, che mirano a produrre una visione plurale del contesto territoriale.

Una seconda considerazione riguarda la dimensione organizzativa in cui prende forma il SAI e più precisamente il rapporto tra Ente locale titolare ed Ente del Terzo Settore attuatore degli interventi. Si tratta del perno centrale di ogni progetto di accoglienza. Non sono molte le esperienze in cui questa relazione nasce da un avviso di coprogettazione, complici una scarsa conoscenza dello strumento e le incertezze che hanno caratterizzato l’ultimo biennio[11]. Più spesso, quindi, i rapporti tra Ente locale ed Ente del Terzo settore sono frutto di una selezione svolta nell’ambito di procedure competitive, utilizzando gli strumenti messi a disposizione dal Codice dei Contratti Pubblici[12]. Ciò che rileva, però, è che, qualunque sia la sua origine, questo binomio si rivela sempre insufficiente ad affrontare le sfide che l’accoglienza porta con sé. La portata delle questioni e il confine delle relazioni che interessano i soggetti coinvolti nei progetti di accoglienza[13], eccedono sistematicamente l’affidamento del servizio e le previsioni del contratto e finiscono per mettere profondamente in discussione le logiche verticistiche e prestazionali che li caratterizzano, di cui forzano costantemente i margini. In sostanza, ciò che avviene è che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a strumenti competitivi adattati a una realtà, quella dell’accoglienza integrata, che richiede insistentemente l’adozione di modalità collaborative.

Un ulteriore aspetto che investe il rapporto tra Ente titolare ed Ente attuatore è quello che ha a che vedere con la sua continuità. Il tema è piuttosto delicato. Da un lato, infatti, vi è l’evidente esigenza di non disperdere a ogni scadenza contrattuale il patrimonio di competenze e relazioni maturate dagli Enti del Terzo Settore che hanno investito nella qualità dei progetti di accoglienza. La loro implementazione porta con sé un faticoso lavoro per la codifica di prassi, la definizione di procedure, il trasferimento e la rigenerazione di competenze e relazioni territoriali la cui eventuale dispersione rappresenta un elemento di indebolimento dell’intero contesto. Dall’altro vi è la necessità di evitare il consolidamento di posizioni di privilegio e rendita, garantendo alle attività progettuali la capacità di rinnovarsi di fronte a nuove sfide che la realtà continuamente presenta. Com’è possibile far convivere la necessità di non disperdere il patrimonio costruito, assicurando al tempo stesso la propensione a rinnovarsi e il rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e non discriminazione che devono caratterizzare l’attività della Pubblica Amministrazione? Nel corso del tempo è maturata l’erronea convinzione che gli unici in grado di rispondere a questa esigenza fossero gli strumenti della competizione. Si tratta, tuttavia, di una vera e propria mistificazione. Da un lato, infatti – e non potrebbe essere altrimenti – l’amministrazione impegnata nella coprogettazione è chiamata alla pubblicazione di un avviso e al rispetto di tutti i principi che regolano l’attività della Pubblica Amministrazione, compresi ovviamente quelli di trasparenza, imparzialità e non discriminazione. Dall’altro, la stessa coprogettazione, circoscritta alle attività di interesse generale e limitata agli Enti del Terzo Settore[14], non impone l’individuazione di un unico soggetto con cui coprogettare, ma anzi, promuove il coinvolgimento di più attori con cui il soggetto pubblico è chiamato a condividere azioni, responsabilità e risorse per raggiungere obiettivi comuni. In questo modo, il patrimonio accumulato dalle organizzazioni storicamente coinvolte può essere integrato con l’aggregazione di nuovi soggetti e con la continua rilettura dei problemi del territorio. Peraltro, vale la pena ricordare ai sostenitori della concorrenza che, nel corso degli anni, l’adozione di procedure competitive, invece di aver portato benefici in termini di qualità dei servizi e di selezione dei soggetti più preparati, ha finito per favorire l’affermazione di attori che si sono aggiudicato gli appalti grazie ai meccanismi dell’offerta più vantaggiosa, traendo vantaggio dalla riduzione dei costi a discapito dei lavoratori, delle persone accolte e dei territori coinvolti. A riguardo, lo spazio della coprogettazione, per la pluralità di soggetti che dovrebbe coinvolgere, per la dimensione relazionale che deve necessariamente mettere in gioco e per l’importante investimento nel contesto territoriale che richiede, sembrerebbe rappresentare un potenziale argine verso quei fenomeni speculativi che proprio nell’ambito delle attività di accoglienza sono emersi più volte nel corso di questi anni (Marocchi, 2019 - pp. 5-8).

Una terza considerazione riguarda la dimensione inclusiva del SAI che, dopo quasi vent’anni dalla sua istituzione, ha allargato i confini ben oltre la sfera del diritto d’asilo, per aprirsi a condizioni più diversificate di vulnerabilità e fragilità sociale[15]. Questo suo carattere inclusivo ha avuto tuttavia dei risvolti ambivalenti e talvolta equivoci. Merita pertanto una specifica riflessione. Il fatto di rappresentare una risposta per un’ampia sfera di bisogni, ulteriormente diversificati dalla possibilità di accogliere figure diverse dai richiedenti asilo e rifugiati, mette inevitabilmente il SAI in relazione con una vasta platea di soggetti (dai progetti anti-tratta ai centri antiviolenza, dai servizi scolastici a quelli per il lavoro, etc.) che, talvolta, contribuisce a rafforzare. Questa sua interconnessione con l’esterno, dunque, rappresenta un’occasione per rompere almeno in parte quella suddivisione per categorie che caratterizza da sempre l’organizzazione locale dei servizi. Proprio questa sua apertura verso situazioni eterogenee, che possono interessare una pluralità di cittadini stranieri presenti sul territorio, alimenta tuttavia il rischio che il SAI sia utilizzato come dispositivo di welfare parallelo dedicato agli stranieri e, pertanto, separato e ghettizzante, finendo così per riproporre in maniera ancor più esasperata quell’approccio amministrativo al trattamento dei bisogni (Tosi, 2008) che rappresenta uno dei problemi più urgenti per chi vuole riscrivere la grammatica del welfare locale. La necessità di individuare spazi di relazione che vadano oltre i tavoli di coordinamento, può trovare forse concretezza grazie alla coprogettazione?

Un ulteriore elemento rilevante riguarda la dimensione spaziale che distingue il SAI dalla “forma campo”, che caratterizza invece la logica dei centri. Questi utilizzano più spesso strutture di grandi dimensioni, lontane da zone urbane. I servizi previsti sono perlopiù interni, separati da quelli riservati alla generalità dei cittadini e non presuppongono quindi alcuna attivazione da parte degli accolti. Per questo sono inevitabilmente vocati all’assistenza (medico interno, scuola interna, servizio di lavanderia, pasti erogati da una mensa, etc.). Le interazioni con il contesto finiscono così per essere circoscritte al microcosmo del centro e le relazioni dei beneficiari, di conseguenza, sono schiacciate sul rapporto con gli operatori e con gli altri ospiti. Quanto alla dimensione pubblica dell’accoglienza, questa rimane sullo sfondo, non sollecitata dalla necessità di ripensarsi e limitata a dispositivi di controllo e regolazione.

Il SAI, invece, pur non privo di criticità gestionali, si distingue per l’utilizzo di strutture perlopiù diffuse e inserite in contesti urbani[16]. Gli interventi, anche se caratterizzati dall’innegabile protagonismo del terzo settore, si iscrivono in una cornice istituzionale che li legittima e dovrebbe incardinarli nella rete dei servizi territoriali. Anche per questo, favorisce lo sviluppo di una dimensione sfidante e marcatamente interculturale delle relazioni esterne che, per quanto problematica e faticosa, rappresenta una leva imprescindibile affinché l’accoglienza produca cambiamenti significativi per le persone accolte e per i contesti intorno a loro. Da questo punto di vista è sufficiente pensare alle relazioni instaurate con la scuola, agli aspetti legati alla salute e al rapporto con le strutture sanitarie, ma anche alle interazioni più o meno difficoltose con i vicini di casa, negli esercizi commerciali, nei contesti associativi: relazioni reciproche che innescano cambiamenti reciproci.

Da una parte, quindi, l’accoglienza si configura come dimensione eccezionale, confinata e separata dal contesto, dall’altra può prendere forma una vera e propria esperienza di cittadinanza anticipata (Rossi, 2019). Ed è proprio quest’ultimo aspetto che rappresenta l’interrogativo intorno al quale riannodare i fili del rapporto tra pratiche di accoglienza, contesti territoriali e processi di coprogettazione.

Perché se è vero che il SAI si propone come obiettivo principale quello della riconquista dell’autonomia da parte di ciascuna delle persone accolte, abilitate a progettare la loro vita in un contesto ampio di relazioni, è evidente che questo obiettivo non può trovare risposte adeguate unicamente nell’interazione tra il progetto e il sistema dei servizi territoriali, in una logica tra loro integrata ma pur sempre asimmetrica e verticistica. Una sfida di questa portata, invece, impone di pensare lo spazio progettuale come dispositivo aperto, capace di essere inclusivo e di ingaggiare soggetti variegati, provenienti da mondi differenti. Un processo che esce dalla logica esclusiva della relazione di aiuto e chiama in causa tanto il protagonismo dei singoli accolti, quanto le necessarie trasformazioni del contesto. Uno spazio, quindi, marcatamente orientato all’impatto.

Una dimensione di questo tipo, che Mauro Ferrari legge attraverso le lenti del pentacolo del welfare, consente di “programmare e realizzare politiche sociali partecipate sollecitando la partecipazione di attori sociali diversi e uscendo così dalla filiera corta di una relazione schiacciata tra un soggetto pubblico appaltante e un privato, o privato sociale, chiamato a gestire progetti e servizi” (Miodini, Ferrari, 2018). Ben vengano quindi le alleanze più o meno strutturate con consultori, Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, Centri per l’Impiego, Centri di Salute Mentale, ma anche quelle con soggetti che si collocano per loro natura in uno spazio più fluido, fatto di relazioni più flessibili e adattabili, che finiscono per allargare lo stesso orizzonte organizzativo del progetto. In questo senso le associazioni di volontariato, quelle sportive, culturali, gli enti di tutela, ma anche gli esercizi commerciali, il mondo dell’impresa, le comunità migranti, i gruppi più o meno formali di cittadini, o i singoli abitanti di un palazzo, rappresentano un enzima straordinariamente potente per ampliare il campo del possibile. Tuttavia, perché questi incontri siano in grado di innescare processi di innovazione è necessario abbandonare la prospettiva strumentale e unidirezionale dello “stakeholder engagement” per assumere un approccio più dinamico, circolare e policentrico, che permetta di riqualificare queste relazioni e farle diventare infrastruttura sociale. Una geometria capace di valorizzare questi intrecci, quindi, può difficilmente essere immaginata come un ambiente definito, chiuso e verticistico, con una netta separazione tra centri e periferie, tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dai suoi confini. Uno spazio tanto variegato e caratterizzato da patti relazionali e sconfinamenti ha invece bisogno di margini sfumati, posizioni mobili, geometrie variabili e inclusive, di un forte presidio metodologico più che di rigide procedure. Anche per questo, la coprogettazione potrebbe rappresentare un importante alleato. Perché su questo terreno incerto possa però germogliare l’innovazione occorrono competenze in grado di prendersene cura: community manager capaci di stare sul crinale organizzativo, più che rappresentanti votati alla causa, policy designers in grado di interpretare la complessità, più che manager abili ad affermare l’egemonia della loro visione.

Un’ultima considerazione, prima di passare ai nodi problematici e alle criticità aperte, non può che riguardare la dimensione politica dei progetti di accoglienza del SAI. Si tratta di un capitolo spinoso che difficilmente può essere trattato in poche righe. In questa sede sembra sufficiente sottolineare che se il tema dell’accoglienza è diventato un terreno di scontro, di posizionamento, spesso di speculazione, a maggior ragione le forme di governance dei progetti SAI dovrebbero essere articolate su più livelli e includere tanto il piano politico, quanto quello gestionale e operativo, nel segno della co-responsabilità delle azioni e della circolarità delle comunicazioni. Va quindi riconosciuto che questo non sempre è avvenuto.

A partire da questo ultimo punto, quindi, in questa seconda parte entriamo nel merito delle difficoltà e che più spesso interessano le progettualità del SAI e dei nodi problematici che ancora rimangono aperti, sempre con l’intento di comprendere la loro relazione con lo spazio della coprogettazione.

Quanto alla governance progettuale, una delle principali criticità si verifica quando questa è appiattita su esigenze squisitamente operative, senza che siano previsti ambiti specifici e livelli diversificati in cui possa maturare ed essere condiviso l’indirizzo politico e spazi in cui definire le strategie per tradurlo in azioni concrete, individuando le modalità per la loro gestione.

Più spesso gli organi di indirizzo politico e quelli di livello dirigenziale sono presidiati esclusivamente dall’Ente locale, mentre il livello gestionale e ancor più frequentemente quello operativo sono delegati agli Enti del Terzo Settore. Questa polarizzazione rischia di dar luogo a un deficit di legittimità degli interventi progettuali. In questi casi la dimensione del fare, in mancanza di spazi di condivisione e riflessione, rischia di essere schiacciata su attività rituali, mentre la struttura organizzativa assume caratteristiche marcatamente verticistiche, segnata da funzioni esclusivamente di controllo più o meno efficaci esercitate dall’ente pubblico e da forti meccanismi di deresponsabilizzazione e delega verso il privato sociale esecutore.

Anche il carattere multidisciplinare degli interventi può rappresentare talvolta un nodo problematico. Se la presenza di un unico ente attuatore facilita la coesione e la fluidità delle comunicazioni, aumenta anche i rischi di una gestione identitaria e autoreferenziale dei servizi, rivelandosi talvolta insufficiente a garantire un’adeguata divisione di ruoli e la necessaria pluralità di competenze, di punti di vista e di figure professionali. La compresenza di più enti, spesso riuniti in ATI, d’altro canto, favorisce l’aggregazione di competenze diversificate, ma può comportare difficoltà di altro tipo. Talvolta si verifica una scarsa integrazione tra i diversi soggetti coinvolti, altre la loro limitata identificazione nel progetto unitario. Più nel dettaglio, nelle situazioni in cui il coinvolgimento di diversi enti del terzo settore segue una suddivisione di ambiti di tipo verticale, definita sulla base delle azioni svolte (chi si occupa dell’accoglienza, chi della tutela legale, chi dell’inclusione lavorativa, chi della tutela psicologica, etc.) sono più frequenti le difficoltà di interazione frutto delle diverse prospettive professionali ed eventuali problemi di scarsa comunicazione tra i diversi ambiti. Queste linee di demarcazione, costruite intorno all’identità professionale, finiscono per produrre interventi frammentati e modalità di lavoro organizzate a compartimenti stagni, nella “logica del silos”. I progetti dove invece la suddivisione dei compiti tra gli enti segue traiettorie orizzontali, con ciascuna organizzazione incaricata di svolgere specularmente tutti i servizi gruppi diversi di persone, presentano più spesso linee di demarcazione che ricalcano le appartenenze organizzative. In questi casi si riscontra spesso una più marcata disomogeneità nel livello complessivo degli interventi svolti dai diversi enti e, in generale, uno scarso riconoscimento nel progetto comune. La prospettiva della collaborazione fa quindi emergere alcune esigenze inaggirabili da affrontare: il riconoscimento reciproco tra i diversi attori; l’individuazione di punti di convergenza tra le diverse vision; la disponibilità a mettere in discussione le proprie culture organizzative; la ricerca di linguaggi condivisi; l’importanza di allestire luoghi comuni dove queste necessità possano trovare spazio e il conseguente bisogno di dedicare risorse, di tempo e non solo, alla loro manutenzione.

Anche l’interazione con i servizi del territorio, altro aspetto caratterizzante del sistema di relazioni attivate dal SAI, è spesso motivo di tensioni e criticità. Anche in questo caso tra i fattori più problematici emerge la difficoltà connessa alla presenza di culture organizzative differenti, alcune più burocratiche, altre più fluide, che faticano a riconoscersi l’un l’altra e a muoversi in maniera congiunta e sincronizzata. Ma possono giocare un ruolo rilevante anche i linguaggi, la prospettiva da cui si guardano i fenomeni e gli approcci con cui si affrontano. Quelli più improntati all’assistenza, o ancorati a meccanismi condizionali e meritori, ad esempio, faticano a trovare punti di incontro con le visioni più centrate sul protagonismo degli accolti e sulla costruzione di relazioni di fiducia e autonomia. Altre questioni problematiche riguardano ancora il lavoro per categorie che, organizzato intorno a un catalogo di condizioni e bisogni soggettivi, genera spesso conflitti di competenza, ma anche forme di immobilismo e reticenza nei confronti dei beneficiari del SAI, interpretato come sistema di welfare parallelo dedicato ai migranti.

Altri elementi che rendono talvolta problematico il rapporto con i servizi della rete territoriale riguardano la disponibilità limitata di competenze interculturali, o lo scarso know how riferito a fenomeni specifici come la tratta e le migrazioni forzate. Da questo punto di vista sono diverse le esperienze in cui la collaborazione tra progetti SAI e la rete dei servizi locali è stata l’occasione per avviare percorsi di formazione sui temi della protezione internazionale e delle migrazioni (con Uffici Anagrafe, Centri per l’Impiego, Servizi Sanitari, etc.). In altri casi le stesse attività attivate nell’ambito dei progetti SAI sono diventate una risorsa spendibile per la generalità dei residenti. Vale la pena citare in questo caso l’esperienza della Città di Parma dove, intorno al progetto SAI, è nata una rete di sportelli (Miodini, Ferrari, 2018) di segretariato sociale culture oriented pensata inizialmente con l’obiettivo di facilitare l’accesso degli stranieri ai servizi sanitari. Questa rete, nel corso del tempo, è diventata un punto di riferimento per tutte le persone in difficoltà che, proprio grazie agli sportelli diffusi nei diversi distretti territoriali, hanno trovato un supporto per accedere ai servizi telematici, per districarsi tra pin e password e per affrontare procedure complesse e in continuo mutamento. Giova peraltro ricordare che nel corso dell’emergenza sanitaria da Covid-19 è stata assicurata agli Enti locali la possibilità di accogliere all’interno delle sue strutture SAI persone in condizioni di fragilità presenti sul territorio, a prescindere dalla nazionalità (quindi anche cittadini italiani) o dal permesso di soggiorno posseduto[17], sperimentando così un ulteriore allargamento dei perimetri potenziali dei progetti di accoglienza della rete.

Come abbiamo visto, quindi, non mancano zone di rischio così come traiettorie innovative ed esperienze significative più o meno consolidate che indicano la possibilità, oltre che la necessità, di re-immaginare le progettualità SAI in ottica aperta e co-gestita.

Si tratta di un processo che si sviluppa per tentativi più che di un modello standardizzato e replicabile. Una grammatica incompiuta che si arricchisce proprio grazie al continuo ri-assemblaggio di esperienze frammentate, ma radicate nei contesti che le hanno prodotte. Vale la pena quindi citarne qualcuna[18].

Dal punto di vista della collaborazione tra servizi e della valorizzazione reciproca delle competenze in favore del contesto sembra particolarmente esemplificativa l’intesa siglata tra il SAI di Jesi-ASP Ambito 9 e la sede locale del Dipartimento di Salute Mentale. A differenza di molti protocolli, funzionali esclusivamente a garantire interventi specifici ai beneficiari, l’accordo di Jesi ha reso possibile l’avvio di un’equipe integrata tra i due diversi servizi che ha consentito, oltre alla presa in carico dei beneficiari con disagio mentale accolti nel progetto, anche la lettura di situazioni difficili che hanno riguardato altri beneficiari del SAI, o di attingere alle competenze dell’equipe del progetto per intervenire a beneficio di altri utenti stranieri in carico ai servizi del Dipartimento di Salute Mentale. Un’altra esperienza particolarmente significativa nella relazione tra diversi servizi, anche questa riferita alla salute mentale, è quella che ha visto impegnati in passato il SAI della Provincia Autonoma di Trento e il locale Centro di Salute Mentale. La collaborazione ha dato vita a percorsi di inserimento abitativo condiviso tra alcuni pazienti psichiatrici con discreta autonomia e i beneficiari del progetto, che hanno seguito un percorso formativo utile a incentivare il reciproco sostegno per trasformare le difficoltà di ognuno in opportunità per entrambi.

Sempre sul versante dei servizi, ma questa volta con lo sguardo rivolto alla capacità di trasformare lo spazio progettuale in un terreno fertile su cui far nascere altri percorsi di collaborazione, sembra significativa l’esperienza del SAI di Bologna. In questo caso, dallo spazio di coprogettazione, che vede coinvolti ASP Città di Bologna e diversi soggetti del terzo settore, sono nate iniziative non previste all’avvio delle attività. In particolare, proprio la capacità di andare oltre i perimetri progettuali ha permesso la nascita di alcuni interventi sperimentali nell’ambito dell’inclusione delle vittime di tratta e della tutela delle persone LGBTIAQ+. Nel primo caso la doppia appartenenza di uno degli enti al progetto SAI e alla rete regionale anti-tratta “Oltre la strada”, ha fatto da volano alla nascita di una struttura dedicata specificatamente alla realizzazione di percorsi di recupero del benessere psico-fisico e di riappropriazione dei corpi delle donne, segnati da violenze e deprivazioni. Nel secondo caso la relazione dialogica tra due enti attuatori del progetto SAI e il MIT, il Movimento Identità Transessuale, ha permesso di riconvertire due strutture del progetto per dedicarle ad altrettante sperimentazioni sul terreno dell’identità e dell’orientamento sessuale nell’ambito della Protezione Internazionale. Una è stata pensata come contesto protetto per le persone con identità sessuali in transizione, l’altra per offrire specifiche attenzioni rivolte alle persone LGBTIAQ+. Significativo, da questo punto di vista, risulta l’apporto del MIT, un ente non coinvolto inizialmente nel progetto SAI, a rimarcare ancora una volta quanto la dimensione aperta dei progetti di accoglienza rappresenti un’importante occasione di innovazione.

Per quanto utili a raffigurare lo sconfinamento che investe lo spazio organizzativo dei progetti del Sistema di Accoglienza e Integrazione, gli esempi che abbiamo riportato finora faticano però a restituire il potenziale generativo che può essere liberato grazie all’apertura verso i contesti. Cosa avviene, invece, quando il SAI si apre all’impresa, al mondo del volontariato, alle comunità migranti? Quali nuove possibilità prendono forma quando la geografia del SAI viene abitata da servizi alla cultura, vicini di casa o abitanti dei quartieri? Cosa accade, in sostanza, quando il SAI ha coraggio di andare oltre la comfort zone che è abituato a frequentare, facendosi contaminare da altri soggetti?

Una prima risposta è offerta dall’esperienza di Verona dove il progetto SAI ha instaurato una relazione piuttosto inusuale con un altro servizio in capo al Comune scaligero. Non si tratta infatti di un servizio sociale, di un ufficio scolastico o dedicato alle vulnerabilità. A innescare il protagonismo dei beneficiari è stata invece l’interazione tra il progetto SAI e la Biblioteca comunale della città, situata a pochi passi dalla Casa di Giulietta e interessata da diverso tempo da piccoli furti ed episodi di microcriminalità. L’occasione è stata colta immediatamente dall’equipe che ha visto nella risposta al problema della Biblioteca un’opportunità per gli accolti. Con turnazioni della durata di due mesi, un gruppo di quattro beneficiari del progetto SAI, spesso composto da giovani con un bisogno più marcato di misurarsi con le responsabilità del mondo esterno, realizza un servizio di steward negli spazi della biblioteca comunale, mettendo in pratica gli insegnamenti appresi durante i corsi di lingua italiana e imparando a rispettare gli impegni, gli orari, i ruoli e i compiti assegnati. Un’occasione per intessere relazioni significative ed emancipanti.

Per arricchire ulteriormente questa carrellata di suggestioni può essere utile tornare ancora a Parma ed esplorare sinteticamente gli esiti di un percorso scaturito da un bando FAMI agganciato al progetto SAI, che ha permesso di sperimentare nuove alleanze significative tra competenze tecniche e sapere diffuso, troppo spesso rappresentate come alternative o strumentali. Qui il progetto SAI ha cercato di costruire un’alleanza con il mondo del volontariato attraverso l’istituzione della figura del tutor per l’integrazione. Si tratta di persone (o gruppi) disponibili a dedicare del tempo da trascorrere con gli accolti che, dopo un periodo di formazione iniziale, sono state affiancate ai singoli beneficiari con cui si sono impegnate vicendevolmente a condividere tempi, spazi e conoscenze. Il rapporto, fondato sulla fiducia reciproca, offre la possibilità per i tutor di ampliare i propri orizzonti culturali e per i beneficiari di allargare la propria rete di relazioni sociali, di godere di spazi in cui accrescere il proprio benessere psico-fisico, di fruire di momenti di socialità e cultura. Particolarità dell’iniziativa, infatti, è stato il tentativo, per nulla semplice, di separare in maniera netta il ruolo dei tutor da quello degli operatori, evitando equivoci e pericolose sovrapposizioni di mansioni o eccessivi carichi di responsabilità per i volontari, per favorire invece la nascita di relazioni orizzontali e svincolate. Le valutazioni seguite alla prima sperimentazione avviata hanno confermato proprio questa direzione e la necessità di investire in maniera ancor più decisa sulla dimensione relazionale, empatica, orizzontale e libera da ruoli eccessivamente definiti.

Questo tipo di esperienze proiettano i progetti SAI in uno spazio altro, più ampio e articolato di quello circoscritto nella relazione tra istituzione, equipe di progetto e utenti di un servizio. Uno spazio capace di abilitare alla costruzione autonoma dei loro percorsi.

Alcuni ulteriori spunti di interesse vengono dalla realtà di Caserta, dove emerge con evidenza la possibilità di ribaltare la prospettiva che vede le persone accolte esclusivamente come “beneficiari di interventi”. Qui, al contrario, sono loro a prendersi cura del contesto mentre guidano ogni mattina il “Piedibus” che accompagna i bambini a scuola, condividendo la responsabilità con altri volontari e con altri genitori. A proposito di rapporti di vicinato, invece, può dirci qualcosa di interessante l’esperienza del SAI di Collebeato, in Provincia di Brescia, dove uno degli alloggi del progetto, che si trova all’interno di un complesso di case pubbliche abitate da anziani e persone in difficoltà, è diventato il punto di riferimento per piccoli lavori di manutenzione, per portare la spesa a domicilio o per sbrigare qualche commissione. I beneficiari, dal canto loro, sono incentivati dalla possibilità di bere un caffè con gli altri coinquilini, di fare un po’ di conversazione in italiano o di condividere la visione di un film. Un modo per trasformare la prossimità geografica in prossimità umana.

E se invece gli accolti diventassero protagonisti nella trasformazione dello spazio urbano? In questa direzione va l’esperienza di Sant’Alessio in Aspromonte, in Provincia di Reggio Calabria, dove la collaborazione tra il progetto SAI e il Dipartimento di Architettura e Territorio d’Arte dell’Università Mediterranea del capoluogo reggino ha fatto sì che gli accolti abbiano messo a disposizione le loro competenze nei percorsi di autocostruzione degli arredi urbani utilizzati dagli studenti per la rigenerazione di spazi restituiti alla cittadinanza.

In questa panoramica di esperienze non possono mancare quelle che legano i progetti SAI al mondo dell’impresa. Si tratta di un ambito, quello del “profit”, escluso per ovvie ragioni dal procedimento amministrativo di coprogettazione tracciato ai sensi dell’art. 55 del CTS, ma che in maniera sistematica rappresenta una parte importante del sistema relazionale dei progetti SAI. Un punto di incontro fondamentale tra questi due mondi sono diventati i tirocini formativi, strumento essenziale nei percorsi di formazione e accompagnamento all’inserimento lavorativo. Si tratta di un’occasione per costruire relazioni significative con i contesti di riferimento che, in alcuni casi, sono andate oltre l’esperienza stessa del tirocinio. Quando impresa e progetti di accoglienza sono stati in grado di superare un approccio strumentale ed episodico alle loro relazioni, i tirocini si sono potuti infatti trasformate in opportunità di crescita per entrambi. Gli staff aziendali, coinvolti in vere e proprie strategie di diversity management, hanno potuto sviluppare abilità relazionali fondamentali per misurarsi con la sfida della differenza e della complessità che investe tutte le sfere della produzione. I progetti, dal canto loro, hanno trovato nelle aziende stesse dei partner stabili con cui coprogettare percorsi formativi finalizzati a costruire figure professionali da inserire nelle loro filiere produttive e, talvolta, gli stessi responsabili delle risorse umane si sono impegnati a svolgere attività di orientamento dei beneficiari e di rafforzamento delle competenze degli operatori. I beneficiari hanno potuto contare su contesti accoglienti e nuovi alleati per i loro percorsi di “integrazione”.

Sempre con lo sguardo rivolto al mondo dell’impresa, questa volta sociale, agricola e cooperativa, risultano significative le sperimentazioni avviate sul terreno dell’agricoltura sociale. I comuni della rete del Welcome, nella zona del Sannio, in Provincia di Benevento, ad esempio, hanno avviato un processo di ripopolamento delle Aree interne e di recupero di terreni incolti, proprio grazie a un progetto incentrato sull’agricoltura sociale che, oltre a coinvolgere diversi enti attuatori e cooperative locali riunite in consorzio, ha attratto e integrato risorse ulteriori, in particolare grazie all’accesso ai finanziamenti europei. Risultato di questi processi, che hanno quindi messo in relazione il progetto SAI a un’attività imprenditoriale a vocazione agricola, non sono solo la riscoperta di antiche coltivazioni grazie alla formazione di nuovi lavoratori agricoli tra i beneficiari dei progetto, ma anche e soprattutto esperienze riabilitative e di cura per persone con fragilità sociali e psicologiche presenti sul territorio e la possibilità per le comunità locali di disporre di prodotti genuini, coltivati in maniera etica e sostenibile.

Per concludere, quindi, sembra interessante sottolineare come l’avvio di un progetto SAI implichi sempre la nascita di nuovi spazi organizzativi. Il suo potenziale si esprime in maniera tanto più evidente quanto più questi ambiti sono interpretati come luoghi dai margini aperti, intenzionali, abitati da soggetti molto differenti e attraversati da relazioni di diversa intensità. Questa geometria variabile presuppone una governance centrata sulla co-responsabilità e sulla capacità di coinvolgere autenticamente gli attori in campo, andando ben oltre la consultazione, la validazione o la ricerca di risorse. Si tratta di una prospettiva rischiosa, plurale e orizzontale, che offre però la possibilità di uscire da una concezione ingegneristica del welfare, basata sulla risposta a bisogni individuali, sempre più diversi e difficili da soddisfare, per abbracciare un punto di vista rivolto alla cura complessiva del contesto, alla sua trasformazione, alla soluzione di problemi comuni attraverso risposte condivise, senza perdere di vista l’unicità delle persone coinvolte. Il crash test di questa modalità di interpretare l’accoglienza nel SAI è stato imposto dall’emergenza sanitaria da Covid-19, che ha ribaltato completamente la prospettiva dei progetti territoriali, chiamati improvvisamente, in nome della tutela degli accolti e della comunità, a mettere in discussione i luoghi, gli spazi, le attività e le relazioni consolidate. Non è un caso che a sapersi reinventare nel nuovo scenario siano stati più efficacemente quei progetti che hanno potuto far leva su interconnessioni sedimentate, spazi organizzativi più allargati, su relazioni dense ed eterogenee e sull’essenziale protagonismo progettuale degli accolti.

Provando quindi a rispondere alla domanda iniziale, dovremmo dirci che la coprogettazione non è precondizione, ma può diventare eventualmente un moltiplicatore di processi trasformativi già in atto nei contesti dove viene sperimentata. Proprio per questo, però, la cornice amministrativa, metodologica e organizzativa della coprogettazione, per il suo potenziale flessibile ed estensivo, seppur rigorosamente ancorato ai principi di trasparenza, non discriminazione e parità di trattamento che caratterizzano necessariamente l’azione della Pubblica Amministrazione, sembra presentarsi come un’innegabile opportunità per disegnare contesti più aperti, inclusivi e incentrati sulla cultura della collaborazione. La fine dell’impasse che nell’ultimo biennio ha condizionato l’iniziativa, grazie alle pronunce della Corte costituzionale e ad altri interventi del legislatore, non ultime le Linee Guida sui rapporti tra Pubblica Amministrazione e terzo settore, impone però di giocare questa partita a carte scoperte, spostando definitivamente la scelta dal piano amministrativo a quello politico e culturale.

Non mancano infatti impedimenti e resistenze che è bene evidenziare. Diversamente finiremmo per esaltare lo strumento senza essere consapevoli dei suoi limiti, di quelli dei suoi attori e di quelli imposti dai contesti entro i quali ci muoviamo.

Uno fra tutti è rappresentato dalla cultura ancora marcatamente verticistica che caratterizza ampi strati della Pubblica Amministrazione. Da questo punto di vista la possibilità per gli Enti del Terzo Settore di innescare i procedimenti di coprogrammazione e coprogettazione rappresenta certamente un importante strumento per stimolare l’iniziativa pubblica e calmierare almeno in parte questa asimmetria che, è bene ricordarlo, rimane però tale. Ma d’altra parte “le pratiche del comune si producono e si diffondono in una tensione costante fra informalità e bisogno di riconoscimento formale” (Marella, 2016) e questo passaggio appare tuttora ineludibile, fuori e dentro l’amministrazione condivisa.

D’altro canto, il mondo del terzo settore non è privo di resistenze e ostacoli al cambiamento. Almeno due decenni di competizione ne hanno fortemente condizionato la cultura organizzativa. La vocazione intrinseca alla collaborazione, che rappresenta un tratto distintivo di questo mondo, ha fatto i conti per lungo tempo con un contesto fortemente orientato alla concorrenza, che ha plasmato le organizzazioni e i loro quadri dirigenti. Non deve stupire, quindi, se la collaborazione, con le fatiche e il dispendio di risorse che richiede, non compare al primo posto nelle loro agende (Marocchi, 2019).

Ma anche nel campo più specifico dell’accoglienza non mancano le difficoltà.

Sono troppo pochi i progetti che hanno individuato nel valore della collaborazione una leva strategica su cui investire. Anche i sistemi relazionali più articolati e diversificati, sono talvolta interpretati come semplice mezzo per raggiungere le finalità progettuali e faticano in questo modo a farsi infrastruttura capace di generare valore condiviso. Dal punto di vista delle competenze coinvolte gli organigrammi, suddivisi tra figure operative e figure amministrative, ospitano di rado profili più ibridi, capaci di operare in quello spazio di contatto tra progetto e contesto, tra individuo e collettività, su cui si innestano le possibilità di produrre cambiamento.

C’è poi lo spinoso capitolo legato alla rendicontazione. L’allargamento della rete, che in un decennio ha decuplicato i suoi posti, insieme alle ombre che (anche con una certa dose di retorica) si sono allungate sulla gestione complessiva dell’accoglienza dal 2011 ad oggi, hanno portato a una definizione sempre più dettagliata delle spese riconosciute dal Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e dell’Asilo. I criteri di rendicontazione, per quanto in linea con quelli che regolano i rapporti economici della coprogettazione (è previsto, in sostanza, il rimborso dei costi sostenuti), rimangono fortemente condizionati da un approccio incentrato sull’erogazione di singole prestazioni rivolte agli accolti. Inoltre, i limiti alla rimodulazione annuale del piano finanziario, quelli all’utilizzo di strutture “miste” dedicate a diverse tipologie di utenze e la recente suddivisione tra servizi di primo livello e servizi di secondo livello rivolti a diverse tipologie di persone accolte negli stessi progetti, rappresentano ulteriori vincoli che non favoriscono la nascita di sperimentazioni ibride, in grado di potenziare i contesti territoriali, come peraltro auspicato da ANCI in diverse occasioni[19] e di incentivare la convergenza di più attività di interesse generale[20], nello spirito delle stesse Linee Guida del 31 marzo 2021.

Da questo punto di vista, anche la necessità – legittima, auspicabile e fondamentale – di conferire una maggior stabilità al sistema, prevedendo la possibilità per gli Enti locali di proseguire gli interventi alla scadenza del triennio, rinnovando di fatto l’accesso al finanziamento, avrebbe bisogno di essere arricchita da meccanismi che permettano la riprogettazione degli interventi (e delle risorse) in una logica di “cicli di progetto” capaci di volta in volta di riposizionarlo di fronte a fenomeni e a contesti in continuo mutamento. Lo stesso vale per i meccanismi che consentono di aumentare il numero di posti di ciascun progetto solo a seguito di “chiamate” nazionali, come avvenuto di recente a seguito della vicenda afghana[21] e non invece come conseguenza di forme permanenti di coprogrammazione e di co-lettura delle necessità specifiche dei singoli territori.

D’altro canto, se abbandoniamo l’idea che il processo avviato dalla Sentenza 131/2020 della Corte costituzionale abbia natura contingente e assumiamo come punto di vista la prospettiva di “lungo raggio” consigliata da Luca Gori (2020) e altri autorevoli autori, ci troviamo inevitabilmente ad affrontare un cambio di paradigma che, su quello dell’accoglienza come su altri terreni, non può che avere come conseguenza l’adeguamento di regole del gioco e funzionamenti fino a questo momento considerati inevitabili.

Un’ultima considerazione va dedicata alle forme di monitoraggio e valutazione che rappresentano la cartina al tornasole di questi processi. Se quelle predisposte dal Ministero dell’Interno tramite il Servizio Centrale non possono che essere rivolte a verificare l’allineamento alle Linee Guida e alle regole di rendicontazione del fondo, sono invece pochi i progetti territoriali che hanno intrapreso percorsi di valutazione di impatto sociale partecipati, orientati al cambiamento e capaci di produrre apprendimento organizzativo. Si tratta di una trasformazione culturale di centrale importanza, che non può che interessare tutti i livelli delle organizzazioni coinvolte, da quello locale a quello centrale. È in questo senso, in ultima analisi, che la coprogettazione, se avviata con la prospettiva di produrre trasformazioni significative, desiderabili e misurabili non solo per i singoli progetti SAI, ma più in generale per i contesti in cui si muovono, può alimentare quei processi di cambiamento già in atto, che tanto hanno bisogno di essere sostenuti e protetti.

Perché se non riusciamo a gettare lo sguardo oltre l’orizzonte, difficilmente sapremo mai superarlo.

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Note

  1. ^ Scaricabile dal sito www.retesai.it
  2. ^ Il riferimento è alle Sentenze della Corte costituzionale n. 131 e n. 255 del 2020, agli interventi contenuti nel cosiddetto Decreto Semplificazioni del 2020 e alle Linee Guida sul rapporto tra la Pubblica Amministrazione e il Terzo Settore contenute nel D.M. n. 72/2021.
  3. ^ Così venivano chiamati gli esuli che dal 1976, dopo la fine della Guerra in Vietnam, fuggivano su barche di fortuna attraverso il mare indocinese.
  4. ^ Dopo un periodo di sperimentazione iniziato nel 2000 grazie al Programma Nazionale Asilo, preceduto dal progetto Azione Comune avviato nel 1999.
  5. ^ Tra il 2002 e il 2011 la capienza si è sempre aggirata tra i 3.000 posti dello SPRAR e i 10.000 posti dei grandi centri, anche se i numeri di questi ultimi sono stati molto altalenanti.
  6. ^ È utile ricordare che nel 2015, a fronte di 65,3 milioni di migranti forzati nel mondo, di cui 40,8 milioni sfollati interni, l’86% di chi ha lasciato il proprio paese è ospitato in paesi come Turchia, Pakistan, Libano, Iran, Etiopia, Giordania.
  7. ^ Dal 2013 lo SPRAR è stato portato a 20.000 posti per raggiungerne circa 36.000 nel 2018. Nel 2015 il nuovo decreto accoglienza ha conferito allo SPRAR un ruolo centrale all’interno di un sistema pensato come una filiera. Nello stesso periodo, tuttavia, la capienza dei grandi centri e soprattutto quella dei Centri di Accoglienza Straordinaria è arrivata a circa 175.000 posti, finendo per depotenziare.
  8. ^ Facciamo riferimento ovviamente alle pratiche di accoglienza che hanno avuto effetti positivi.
  9. ^ Più spesso i progetti della rete SAI combinano diverse di queste possibilità.
  10. ^ Il riferimento è al D.L. 113/2018 (cosiddetto “Decreto Sicurezza e Immigrazione”) e al più recente D.L. 130/2020 (cosiddetto “Decreto Lamorgese”) che hanno riconfigurato parzialmente il sistema.
  11. ^ Il riferimento è al parere del Consiglio di Stato n. 2052 del 20 agosto 2018 in risposta a un quesito dell’ANAC proprio riguardante il tema dell’accoglienza, superato solo lo scorso anno con la già citata Sentenza della Corte Costituzione n. 131/2020.
  12. ^ D.Lgs n. 50/2016.
  13. ^ A forzare i margini contribuiscono le relazioni dell’Ente locale, quelle costruite dall’equipe di lavoro, quelle riferibili al progetto nella sua interezza, ma anche quelle dei singoli operatori e dei beneficiari stessi.
  14. ^ La partecipazione è limitata agli Enti del Terzo Settore definiti all’art 4 del Codice del Terzo Settore e circoscritta quindi all’ambito delle attività di interesse generale tassativamente elencate dall’art. 5 del Codice del Terzo Settore stesso.
  15. ^ Questo processo è stato contraddittorio e ha attraversato una fase molto restrittiva per il riconoscimento del diritto di soggiorno, a partire dalla cancellazione della cosiddetta protezione umanitaria con l’introduzione del D.L. 113/2018 convertito dalla Legge 132/2018, in parte superato dal recente D.L. 130/2020, convertito dalla Legge 173/2020.
  16. ^ L’80% delle strutture utilizzate dalla rete sono comuni appartamenti disseminati nel territorio.
  17. ^ La circolare operativa n. 6564 diffusa il 5 maggio 2020 dal Servizio Centrale prevede la possibilità per l’Ente locale di destinare strutture non occupate all'accoglienza di altre fasce deboli della popolazione per le necessità legate all'emergenza sanitaria.
  18. ^ Alcune esperienze descritte sinteticamente di seguito e molte altre sono articolate in maniera più ampia in nella ricerca I cambiamenti operati dall’accoglienza, pubblicata nel 2018 dal Servizio Centrale SPRAR, Cittalia e Centro Astalli (AA.VV., 2018) e nel paper redatto da Emiliana Baldoni e Monia Giovannetti, Gli interventi di accoglienza integrata e la ricaduta sui territori (Baldoni, Giovannetti, 2019).
  19. ^ Nel corso dell’audizione alla Commissione Affari Costituzionali, durante i lavori che hanno preceduto l’approvazione del D.L. 130/2020, ANCI ha ribadito la necessità, ad esempio, di estendere la possibilità di deroga al patto di stabilità per l’assunzione del personale da parte dei comuni aderenti alla rete SAI, per consentire il rafforzamento dei servizi nei confronti di tutta la popolazione.
  20. ^ Va tuttavia rilevato che spesso è la mancanza di risorse integrative da parte degli Enti locali a limitare le sperimentazioni che, inevitabilmente, non possono essere esclusivamente sostenute dal FNPSA, in particolare qualora implichino il coinvolgimento di altri servizi o “tipologie di utenza”.
  21. ^ In precedenza ulteriori ampliamenti sono stati previsti a livello nazionale per progetti dedicati a Minori Stranieri Non Accompagnati e a persone con Disagio Mentale o portatrici di specifiche esigenze sanitarie.
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