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ISSN 2282-1694
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Numeri

Quando si parla di numeri

Redazione

Le cooperative sociali prima e durante il Covid-19

Giuseppe Giulio Calabrese, Greta Falavigna

Startup innovative a vocazione sociale

Alessandro Laspia, Davide Viglialoro, Giuliano Sansone, Paolo Landoni

La complessità del sistema sanitario e assistenziale

Eddi Fontanari

Organizzazione

Le imprese sociali e la loro organizzazione

Redazione

Il contratto di rete tra cooperative sociali

Sara Depedri

Age-management nella cooperazione sociale

Giuseppe Guerini, Emmanuele Massagli, Maria Sole Ferrieri Caputi, Michele Dalla Sega

Le politiche

L’impresa sociale, un pilastro per le politiche

Redazione

Imprese sociali e rigenerazione urbana

Andrea Bernardoni, Massimo Cossignani, Daniele Papi, Antonio Picciotti

Terzo settore e reddito di cittadinanza

Armando Vittoria

Recensioni

Oltre la solidarietà

Federico Creatini

Numero 3 / 2021

Numeri

Le cooperative sociali prima e durante il Covid-19. Un’analisi economico-finanziaria tramite benchmarking

Giuseppe Giulio Calabrese, Greta Falavigna

Abstract

Il sistema cooperativo – e in particolare le cooperative sociali – è sempre più considerato uno strumento fondamentale nel passaggio dal welfare state alla welfare society. In particolare, alle cooperative sociali di Tipo B è stato riconosciuto un ruolo significativo nell’ambito delle politiche attive del lavoro. Ciononostante, una parte della letteratura attribuisce ancora alle cooperative sociali una sorta di “adolescenza” imprenditoriale, di diversità dalle imprese profit e anche dalle altre cooperative. Vi è inoltre chi sostiene che le cooperative abbiano un ruolo anticiclico e che dunque crescano durante i periodi di crisi come quello degli anni 2008-2011, registrando invece tassi di crescita inferiori nelle fasi espansive. La natura maggiormente pervasiva della crisi pandemica in corso richiede di verificare tali assunzioni e se il comportamento delle cooperative sociali si discosti dalle altre cooperative.

Keywords: cooperative sociali, Covid-19, analisi economico-finanziaria, benchmarking

DOI: 10.7425/IS.2021.03.05

Introduzione

Il dibattito sulla crescente importanza del modello cooperativo si inserisce a pieno titolo nella sempre più attuale discussione rispetto ai limiti dell’approccio fondamentalista al mercato (Stigliz, 2009), da molti studiosi considerato una delle cause della crisi finanziaria-economica della decade passata (Euricse, 2015). La riflessione sulla cooperazione si focalizza anche sulla capacità di affiancarsi all’intervento pubblico in tutti i paesi industrializzati caratterizzati da una continua riduzione della spesa per il welfare (Jensen et al., 2017). Secondo alcuni studiosi, il sistema cooperativo è sempre più uno strumento fondamentale nel passaggio dal welfare state alla welfare society (Zamagni, 2012; Bonomi et al., 2016).

Tale prospettiva è ancor più vera per le cooperative sociali che in Italia sono forse il più diffuso esempio di soggetto economico attivo nel terzo settore con un ruolo fondamentale per la risposta ai bisogni delle persone (Euricse, 2015; Benati, Ragazzi, 2020). Infatti, le cooperative sociali sono volte a soddisfare un insieme molto ampio di interessi della comunità e tendono ad essere composte da categorie differenziate di interessi (lavoratori, fornitori, imprese locali, utenti, altri enti non profit, etc., essendo per questo definite come imprese multistakeholder), mentre nelle altre forme cooperative la base sociale è composta preferenzialmente da categorie omogenee di soci come i produttori agricoli, i lavoratori, i consumatori (Lionzo, 2004).

La diversità delle cooperative sociali dalle altre forme societarie non riguarda esclusivamente gli obiettivi previsti dall’art. 1 della legge 381 del 1991, vale a dire la vocazione a perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione e all’integrazione sociale dei cittadini, ma concerne soprattutto il crescente posizionamento economico-sociale.

Una diversità ancor più stringente spetta alle cooperative sociali dedite all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (Tipo B e ad oggetto plurimo), che per questo motivo risultano essere uno strumento fondamentale delle politiche attive del lavoro potendo operare, come le altre forme di impresa, in molteplici settori produttivi, diversamente dalle cooperative sociali di Tipo A che sono focalizzate prevalentemente nella gestione dei servizi sociosanitari ed educativi.

In relazione agli obiettivi societari, si potrebbe definire un crescente grado di diversità operativa, che parte dalle imprese profit più proattive ai cambiamenti, per passare alle imprese sociali[1], per incrementarsi con le cooperative in senso lato e procedere con le cooperative sociali dalle quali si distinguono ulteriormente quelle di Tipo B.

Nel loro insieme, le cooperative sociali sono chiamate ad affrontare alcune situazioni di significativa importanza: la riforma del sistema di welfare; i rapporti con la Pubblica Amministrazione che rappresenta ancora il cliente principale con la tendenza ad estendere l’attenzione al committente privato; i rapporti con le comunità di riferimento allo scopo di ampliare ulteriormente il coinvolgimento di soggetti ed esperienze organizzate di intervento sociale; il ruolo nell’ambito delle politiche attive del lavoro; la sostenibilità economico-finanziaria dell’insieme delle attività operativa.

Tuttavia, per quanto concerne il modello di business di tutto il sistema cooperativo, una parte della letteratura ha evidenziato potenziali criticità quali la rigidità e limitatezza della visione operativa (Santos et al., 2015); la limitata incisività dei meccanismi di controllo interno (Smith et al., 2012); i meccanismi di governance talvolta troppo inclusivi (Commissione Europea, 2015); la difficoltà nel rilevare efficacemente i cambiamenti nei bisogni sociali (Chiodo, Gerli, 2017); l’eccessiva dipendenza dalle donazioni (Doherty et al., 2014) e dalla committenza statale (Zamagni, 2011).

Per le cooperative sociali, la combinazione di questi differenti aspetti potrebbe comportare problemi maggiormente marcati rispetto alle imprese profit o al sistema cooperativo, sia nell’adattarsi al mercato in continuo cambiamento (Chiodo, Gerli, 2017), sia sotto l’aspetto dell’evoluzione della cultura d’impresa. Perdura spesso l’opinione che le cooperative sociali rimangano sempre in una sorta di “adolescenza” imprenditoriale (Benati, Ragazzi, 2020).

Per altri versi, molte indagini hanno evidenziato il comportamento spiccatamente anticiclico da parte delle cooperative durante la crisi economica-finanziaria (Birchall, Hammond Ketilson, 2009; Acccornero, Marini, 2011; Zanotti, 2013). Ad esempio, Euricse (2015) ha segnalato che le cooperative rispetto alle SpA hanno accresciuto il valore della propria produzione di sei volte e sono state in grado di salvaguardare maggiormente l’occupazione. Secondo Carini e Carpita (2013) la maggiore resilienza è dovuta principalmente a tre fattori: la natura mutualistica e sociale delle cooperative; la minore attenzione all’efficienza economica; gli sgravi fiscali di cui esse godono. Al contrario, nel periodo precedente alla crisi economica-finanziaria, Fontanari e Borzaga (2013a) hanno evidenziato performance leggermente migliori per le imprese profit rispetto alle cooperative.

È ancora così? Ad esempio, nel biennio precedente alla crisi pandemica (2017-2019), l’insieme delle società analizzate in questa indagine, profit e non profit, hanno registrato una crescita del fatturato del 7,4% e dell’occupazione del 5,8%.

Permane, quindi, la propensione anticiclica per le cooperative anche nei periodi positivi e quindi di un sostanziale minor crescita rispetto alle altre forme di imprese, oppure si manifestano significative diversità? Le cooperative sociali registrano risultati simili alle altre cooperative? È possibile quantificare in qualche modo l’effetto pandemico sul sistema produttivo italiano e testare la propensione anticiclica delle cooperative?

Il tentativo di questo contributo è di cercare di rispondere alle domande precedentemente evidenziate analizzando il differenziale di performance tra le cooperative sociali e le imprese profit, nonché con le altre cooperative prese a riferimento come benchmark. In particolare, a partire dal repertorio completo delle cooperative sociali sviluppato nell’ambito del progetto SEED 2018 della Compagnia di San Paolo (Calabrese, 2020), si è scelto di focalizzare l’attenzione soprattutto sulle cooperative sociali Tipo B e ad oggetto plurimo (da ora in poi solo Tipo B) per il fatto che possono essere equiparate a cooperative di produzione e lavoro e, quindi, operare negli stessi settori delle imprese profit. Inoltre, le cooperative sociale Tipo B rivestono un ruolo significativo nelle politiche attive del lavoro a favore dei soggetti svantaggiati ed eventualmente valorizzabile per le altre categorie non previste dalla legge 381/1991[2].

Nel prossimo capitolo si approfondirà la valutazione della performance nelle cooperative sociali, confrontandola con quella delle imprese profit. A seguire si presenterà la metodologia di indagine e i principali risultati in riferimento alle domande di ricerca: la predisposizione anticiclica delle cooperative sociali e dell’insieme del sistema cooperativo nei periodi di crescita tramite un confronto temporale relativo al periodo pre-pandemico 2017-2019; la propensione anticiclica delle cooperative nei periodi di crisi tramite la capacità di resistenza alla perturbazione pandemica. Infine, oltre a riassumere i risultasti si suggeriranno alcune proposte di politiche attive del lavoro in particolare per le cooperative sociali di Tipo B.

La valutazione della performance nelle cooperative sociali

La letteratura ha finora dedicato scarsa attenzione, e solo di recente, alla individuazione di specifici indicatori di performance delle cooperative sociali (Borzaga, Fontanari, 2020; Bagnoli, 2021; Montrone, Poledrini, 2021). Tendenzialmente, si prendono come riferimento le imprese sociali (Bagnoli, Megali, 2011; Bertola et al., 2007) o per similitudine il sistema cooperativo in generale (Euricse, 2013, 2015; Istat-Euricse, 2019; Borzaga et al., 2019), spesso per poter effettuare approfonditi confronti con le imprese profit (Fontanari, Borzaga, 2013 b).

Ad esempio Carini et al. (2013) individuano per le cooperative in senso lato una serie di utili indicatori di bilancio quali: il valore della produzione dato dalla somma dei ricavi, della variazione del magazzino prodotti e lavori in corso e delle immobilizzazioni capitalizzate; il capitale investito dato dal totale dell’attivo o del passivo patrimoniale; il grado di patrimonializzazione utilizzando l’incidenza dei mezzi propri sul capitale investito e l’incidenza dell’attivo fisso sul capitale investito.

Per quanto riguarda l’analisi di redditività, sempre Carini et al. (2013) osservano che per le cooperative non si possono utilizzare i tradizionali indicatori del ROI (Return on Investment) e del ROE (Return on Equity) delle imprese profit per il fatto che nelle cooperative l’utile non è un obiettivo da massimizzare, ma soprattutto uno strumento per la crescita o la sopravvivenza dell’organizzazione (Marin-Sanchez, Melia-Martì, 2006; Valentinov, 2008). Per questo motivo, in alternativa, vengono proposti l’incidenza del valore della produzione sui costi della produzione (maggiore è l’indicatore, maggiore è il surplus per coprire i costi finanziari e sviluppare la cooperativa) e l’incidenza del risultato d’esercizio sul valore della produzione per misurare indirettamente l’autofinanziamento.

Fontanari e Borzaga (2013b), sempre per quanto concerne l’intero sistema cooperativo, effettuano un confronto con le società per azioni e utilizzano come indicatori il valore aggiunto, ovvero la differenza tra il valore della produzione e i costi intermedi, nonché il costo del lavoro e la sua componente principale, le retribuzioni.

In un altro contributo, Fontanari e Borzaga (2013a) sottolineano che per poter comparare l’efficienza di imprese caratterizzate da obiettivi differenti – il profitto per le imprese for profit e la soddisfazione di un bisogno per le cooperative – diventi necessario utilizzare degli indicatori neutrali, che si adattino a qualsiasi organizzazione pur mantenendo lo stesso livello di efficacia di quelli tradizionali e che analizzino la rilevanza sul mercato, la dimensione operativa, l’intensità di impiego del capitale e del lavoro, l’equilibrio finanziario di lungo e breve periodo, i redditi generati facendo riferimento soprattutto al valore aggiunto.

Secondo alcuni autori (Borzaga, Fontanari, 2020; Bagnoli, 2021) per la valutazione patrimoniale-finanziaria delle imprese sociali si possono usare gli indicatori tradizionali. Invece, per gli indici di redditività Bagnoli (2021) conferma la scarsa utilità del ROE e per il ROI suggerisce che la sostituzione al denominatore del capitale investito netto operativo con il totale dell’attivo offra un risultato in grado di approssimare meglio la redditività effettiva, mentre al numeratore permane il margine operativo netto altrimenti denominato EBIT (Earnings before interest and taxes).

Un contributo significativo alla misurazione della performance delle cooperative sociali proviene da Montrone e Polendrini (2021) che focalizzano l’attenzione sul valore aggiunto e sugli indicatori ad esso correlati (Landis et al., 2014) dato che «il calcolo del valore aggiunto è utile per giudicare l’economicità sociale dell’azienda in funzione della sua capacità di produrre risorse in grado di soddisfare le attese dei diversi portatori di interessi che gravitano intorno ad essa».

Se da un lato il valore aggiunto può essere inteso come la differenza tra il valore generato e i costi per produrre un determinato bene o servizio, esso rappresenta anche la fonte di “ricchezza” da allocare tra tutti i soggetti che hanno direttamente contribuito a produrla e tra i diversi obiettivi che vanno a costituire la mission di impresa. Gli stessi autori sottolineano che, essendoci diverse modalità di misurazione del valore aggiunto, sia preferibile utilizzare il “valore aggiunto distribuibile” che rappresenta la soluzione migliore per rendere confrontabili le cooperative sociali con le imprese profit.

Il valore aggiunto distribuibile è dato dalla somma di costo del personale, utili ante imposte e oneri finanziari e rappresenta la misura di ricchezza creata e distribuibile ai diversi stakeholder: dipendenti, finanziatori esterni, Pubblica Amministrazione, portatori di capitale proprio e sistema aziendale tramite l’autofinanziamento, ognuno dei quali con aspettative diverse. Per questo motivo gli indicatori di bilancio idonei per la valutazione delle cooperative sociali in comparazione con le imprese profit devono includere l’ottica economica per l’imprenditore e i portatori di capitale di rischio, la solvibilità aziendale per i terzi finanziatori e l’impatto sociale nei termini soprattutto di salvaguardia occupazionale per la collettività.

Nell’ambito di una misurazione sistemica, Montrone e Polendrini (2021) suggeriscono di utilizzare due indici di produttività: uno relativo al capitale, dato dal rapporto tra valore aggiunto distribuibile e capitale investito e uno relativo alla produttività del lavoro, dato dal rapporto tra valore aggiunto distribuibile e numero dipendenti calcolati in termini di Unità Lavorativa Annua (ULA).

Metodologia di indagine e risultati

La base di partenza è stato il repertorio completo delle cooperative sociali nell’ambito del progetto SEED 2018 della Compagnia d San Paolo (Calabrese, 2020). Il repertorio è stato realizzato all’inizio del 2018 e ha censito in totale 21.252 cooperative sociali attive[3].

L’insieme delle cooperative sociali è stato esaminato raggruppando da un lato le Tipo B e le cooperative ad oggetto plurimo e dall’altro le Tipo A e i consorzi di cooperative sociali (da ora in poi solo Tipo A); tale insieme è stato messo a confronto con le altre società di capitali (imprese profit) e con le rimanenti cooperative per i settori ATECO dove sono presenti cooperative sociali[4]. Nel 2019, le cooperative sociali di Tipo B rappresentano lo 0,67% del totale del campione, le Tipo A lo 0,83% e le rimanenti cooperative il 4,0%.

Ciascun raggruppamento è stato classificato per dimensione e specializzazione produttiva tramite i codici ATECO a due cifre con aggregazione sulla base dell’International Classification of Non-profit Organizations (ICNPO)[5]. I raggruppamenti individuati sono stati: Assistenza sociale, Coesione sociale, Cultura, sport e ricreazione, Istruzione, Sanità, mentre le altre specializzazioni di carattere produttivo sono state raggruppate nelle tradizionali macroaree ISTAT. Le specializzazioni produttive più frequenti per le cooperative sociali di Tipo B sono l’assistenza sociale (27,2%% del totale), i servizi alle imprese (24,6%), la manifattura (7,3%) e la ristorazione (7.0%), mentre per le cooperative sociali di Tipo A sono sempre l’assistenza sociale (69,6% del totale), l’istruzione (13,2%) e la sanità (5,5%).

Per i dati di bilancio, la ricerca si è avvalsa della banca dati AIDA di Bureau Van Dijk (Calabrese, 2009) dalla quale, per i settori ATECO nei quali sono presenti cooperative sociali, è stato possibile scaricare i dati di 1.054.680 società per il 2019 e di 994.748 per il 2017.

Al fine di tenere in considerazione delle specifiche finalità delle cooperative sociali e delle ridotte dimensioni aziendali, come è stato evidenziato dalla letteratura nel paragrafo precedente (Bagnoli, 2021), è stato necessario effettuare un intervento metodologico.

Come evidenzia la Tabella 1, il 6,5% del campione ha registrato nel 2019 valori della produzione negativi (5,0% per le cooperative di Tipo B e 3,2% per le Tipo A) e il 29,8% valori della produzione inferiori a 100 mila euro (35,8% per le cooperative di Tipo B e 26,1% per le Tipo A). Nel proseguo dell’articolo si è ritenuto di eliminare queste società marginali perché in termini di valore della produzione rappresentano solo lo 0,4% (1,8% per le cooperative di Tipo B e 0,8% per le Tipo A), come pure non sono state considerate le società classificabili come grandi (produzione maggiore di 50 milioni di euro) essendo presenti un numero molto esiguo di cooperative sociali di Tipo B. L’eliminazione delle società con fatturati al di sotto dei 100 mila euro rende più pertinente la valutazione sulla resistenza in quanto non vengono considerate le società già in difficoltà. Pertanto, il campione definitivo includerà le società con fatturati compresi da 100 mila a 50 milioni euro, per un totale di 624.233 società per il 2019 e 605.346 per il 2017.

Tabella 1. Distribuzione delle società per classi di valore della produzione (%, 2019). Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

Analisi della correlazione con il ciclo economico

Per la prima domanda di ricerca, è stato effettuato un confronto temporale nel periodo pre-pandemico 2017-2019 in modo da verificare se perduri la propensione anticiclica delle cooperative anche nei periodi di crescita. Sulla base della letteratura, sono stati utilizzati alcuni indicatori di sviluppo (valore della produzione e occupazione), di economicità (valore aggiunto distribuibile), di produttività del capitale (valore aggiunto distribuibile su capitale investito) e del lavoro (valore aggiunto distribuibile su numero dipendenti in termini di ULA, unità lavoro annua). L’analisi è stata effettuata in termini sia di percentuali di società che hanno incrementato positivamente o negativamente gli indicatori, sia in termini di variazioni assolute. In totale sono state analizzate 480.232 società che rispettino i limiti minimi di 100 mila euro e massimi di 50 milioni di valore della produzione in entrambi gli anni.

La Tabella 2 riporta per ciascun raggruppamento giuridico le percentuali di società che hanno incrementato le diverse variabili analizzate. Come si può notare, tranne che per la produttività del capitale investito, per tutti gli altri indicatori le percentuali di entrambe le tipologie di cooperative sociali sono superiori sia a quelli delle imprese profit, sia a quelli delle altre cooperative. Le cooperative sociale di Tipo B denotano in percentuale (47,7%) il numero maggiore di società che incrementano l’occupazione (45,1% le Tipo A, 39,2% le imprese profit, 38,5% le altre cooperative), mentre le cooperative sociali di tipo A registrano in percentuale (66,0%) il numero maggiore di società che incrementano la produzione (63,8% le Tipo B, 59,5% le imprese profit, 58,4% le altre cooperative). Entrambe le tipologie di cooperative sociali si distinguono per il numero di società che incrementano il valore aggiunto distribuibile (64,9% Tipo B e 64,7% Tipo A) rispetto alle imprese profit e alle altre cooperative (per entrambe 59,7%)[6].

Tabella 2. Percentuale di società che hanno incrementato alcuni indici di bilancio (2017-2019). Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

 

Imprese

Tipo B

Tipo A

Coop

Tot.

Valore della produzione

59,5

63,8

66,0

58,4

59,6

Dipendenti

39,2

47,7

45,1

38,5

39,3

Valore aggiunto distribuibile (VAD)

59,7

64,9

64,7

59,7

59,8

VAD su capitale investito

49,9

47,9

49,4

47,8

49,8

VAD su numero dipendenti

56,4

58,5

62,4

57,9

56,5


Come suggerito da Montrone e Poledrini (2021), i due indicatori di produttività parziale, del capitale e del lavoro, sono stati incrociati in modo da evidenziare, a seconda delle diverse forme giuridiche, la percentuale di società che ha incrementato o diminuito entrambi gli indicatori, oppure se prevalgano maggiormente delle discordanze[7].

La Tabella 3 evidenzia che il 36,8% del campione ha incrementato entrambi gli indicatori di produttività e il 30,5% ha registrato congiuntamente performance negative. Tra le varie forme giuridiche si denota il buon posizionamento delle cooperative sociali di Tipo A con il 36,1% di società con entrambi i segni positivi, e la più bassa percentuale (24,3%) per entrambi i segni negativi, mentre risulta contraddittoria la situazione per le cooperative sociali Tipo B (minori cooperative con entrambi i segni positivi, 33,1% ma anche con entrambi i segni negativi, 26,7% rispetto al campione).

Tabella 3. Numero di società che hanno variato gli indici di produttività (%, 2017-2019). Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

 

 

 

Produttività del capitale

 

 

 

Variazioni
negative

Variazioni
positive

Tot.

Produttività

del lavoro

Imprese

Variazioni negative

30,7

12,9

43,6

 

Variazioni positive

19,4

36,9

56,4

 

Totale

50,1

49,9

100

Tipo B

Variazioni negative

26,7

14,8

41,5

 

Variazioni positive

25,4

33,1

58,5

 

Totale

52,1

47,9

100

Tipo A

Variazioni negative

24,3

13,4

37,6

 

Variazioni positive

26,3

36,1

62,4

 

Totale

50,6

49,4

100

Coop

Variazioni negative

28,6

13,6

42,1

 

Variazioni positive

23,6

34,3

57,9

 

Totale

52,2

47,8

100

TOT.

Variazioni negative

30,5

13,0

43,5

 

Variazioni positive

19,7

36,8

56,5

 

Totale

50,2

49,8

100


In Tabella 4, per le stesse variabili di sviluppo, economicità e produttività, sono state riportate le variazioni assolute. Il valore della produzione del totale del campione nel biennio 2017-2019 è aumentato dell’8,0%, l’occupazione del 5,8%, il valore aggiunto distribuibile dell’8,7%, la produttività del capitale di 0,4 punti percentuali e quella del lavoro di 1,9 punti percentuali, segno indiscusso di un ciclo economico positivo.

Rispetto a questi dati medi le cooperative sociali di Tipo B performano meglio in tutte le variabili (produzione +8,1%, valore aggiunto distribuibile +11,1%, produttività del lavoro +5,0 punti percentuali) tranne che per la produttività del capitale (+0,1 punti percentuali) mentre per l’occupazione ottengono risultati simili (+5,7%); le cooperative sociali di Tipo A performano meglio nella variazione della produzione (+6,3%) e nella produttività del lavoro (+4,1 punti percentuali) e crescono meno nell’occupazione (+4,4%). Le altre cooperative ottengono risultati maggiori della media campionaria in tutte le variabili tranne che per la crescita del valore della produzione (+5,4%).

Tabella 4. Variazione assoluta di alcuni indici di bilancio (2017-2019). Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

 

Imprese

Tipo B

Tipo A

Coop

Tot.

Valore della produzione

8,2%

8,1%

6,3%

5,4%

8,0%

Dipendenti

5,8%

5,7%

4,4%

6,7%

5,8%

Valore aggiunto distribuibile (VAD)

8,5%

11,1%

8,7%

10,4%

8,7%

VAD su capitale investito

0,4 p.p.

0,1 p.p.

0,4 p.p.

2,0 p.p.

0,4 p.p.

VAD su numero dipendenti

1,7 p.p.

5,0 p.p.

4,1 p.p.

4,0 p.p.

1,9 p.p.


È interessante segnalare che, a livello settoriale, rispetto alle altre forme giuridiche, le cooperative sociali di Tipo B ottengono i risultati migliori non nei comparti relativi alla promozione e all’integrazione sociale dei cittadini, ma nei settori produttivi del manifatturiero, delle costruzioni, del commercio, dei trasporti e della ristorazione sia in termini di produzione, sia di occupazione.

Per verificare se la forma giuridica sia una componente significativa nella determinazione dei diversi tassi di crescita per gli indicatori di sviluppo ed economicità è stata utilizzata la shift and share analysis (Fontanari, Borzaga, 2015). Partendo dalla stessa percentuale di variazione complessiva per l’insieme del campione (denominato effetto trend), la shift and share analysis permette di estrapolare gli effetti indotti da altri fattori, che in questa analisi sono state individuati nella specializzazione produttiva, per il fatto che i settori possono crescere in modo differenziato (effetto specializzazione), oppure da determinate caratteristiche aziendali quali la localizzazione o, nel nostro caso, la struttura proprietaria (effetto forma giuridica).

Le Tabelle 5, 6 e 7 riportano, per ciascuna variabile, la scomposizione dei tassi di crescita per il periodo analizzato; premesso che l’effetto trend, uguale per tutte le forme giuridiche, è quello decisamente più rilevante in tutte le variabili, si denota che l’effetto specializzazione e soprattutto l’effetto forma giuridica assumono una certa rilevanza. Rispetto alle imprese profit, per le quali l’effetto forma giuridica è praticamente nullo, per le altre cooperative si può desumere una correlazione negativa con il ciclo economico. Per queste cooperative la forma giuridica incide in negativo di 3 punti percentuali per la variazione della produzione, di 0,8 punti percentuali per la variazione dell’occupazione e di 0,6 punti percentuali per la variazione del valore aggiunto distribuibile. Situazione leggermente diversa si presenta per le cooperative sociali di Tipo A per le quali la forma giuridica ha un impatto meno negativo per la variazione della produzione (-1,8 punti percentuali), mentre per le cooperative sociali di Tipo B l’effetto forma giuridica è ancora meno accentuato ed anzi è addirittura positivo per la variazione del valore aggiunto distribuibile (+1,2 punti percentuali).

Tabella 5. Scomposizione della variazione del valore della produzione 2017-2019. Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

 

Imprese

Tipo B

Tipo A

Coop

Effetto trend

8,0%

8,0%

8,0%

8,0%

Effetto specializzazione produttiva

0,1 %

1,0 %

0,1 %

0,4 %

Effetto forma giuridica

0,1 %

--0,9 %

-1,8 %

-3,0 %

TOT.

8,2%

8,1%

6,3%

5,4%


Tabella 6. Scomposizione della variazione dell’occupazione 2017-2019. Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

 

Imprese

Tipo B

Tipo A

Coop

Effetto trend

5,8%

5,8%

5,8%

5,8%

Effetto specializzazione produttiva

-0,1 %

0,2 %

-0,5 %

1,7 %

Effetto forma giuridica

0,1 %

-0,3 %

-0,9 %

-0,8 %

TOT.

5,8%

5,7%

4,4%

6,7%


Tabella 7. Scomposizione della variazione del valore aggiunto distribuibile 2017-2019. Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

 

Imprese

Tipo B

Tipo A

Coop

Effetto trend

8,7%

8,7%

8,7%

8,7%

Effetto specializzazione produttiva

-0,1 %

1,2 %

1,1 %

2,3 %

Effetto forma giuridica

-0,1 %

1,2 %

-1,1 %

-0,6 %

TOT.

8,5%

11,1%

8,7%

10,4%

Analisi della resistenza nel periodo pandemico

Per la seconda domanda di ricerca, è stata valutata la capacità di resistenza alla perturbazione pandemica al fine di verificare la propensione anticiclica del sistema cooperativo nei periodi di crisi. Si è preferito il termine resistenza, o in alternativa sopravvivenza, a quello maggiormente utilizzato di resilienza per il fatto che gli effetti pandemici sull’economia italiana sono ancor in corso e non è possibile valutare le strategie di adeguamento e la conseguente trasformazione adattiva (Lengnick-Hall et al., 2011).

Per valutare la capacità di resistenza alla perturbazione pandemica, nell’aprile 2021 è stato verificato lo stato giuridico, determinando se l’impresa fosse attiva o altrimenti “cessata definitivamente”[8]; tale analisi è stata compiuta tra le società che avevano depositato il bilancio – e quindi erano operative – nel 2017 e nel 2019[9]. Per ciascun anno è stata calcolata la percentuale di società ancora attive, la percentuale di valore della produzione e di dipendenti “persi” a seguito della cessazione.

Per i settori ATECO nei quali sono presenti cooperative sociali sono stati analizzati complessivamente 994.748 bilanci per il 2017 e 1.054.680 per il 2019.

Nella Tabella 8 è stato riportato per ciascun anno il numero di società attive e cessate, la percentuale di società ancora attive sul totale, la percentuale di valore della produzione e di dipendenti delle società cessate. Inoltre, il campione complessivo è stato suddiviso secondo la tradizionale classificazione dimensionale individuata dall’Unione Europea.

La Tabella 8 evidenzia un primo dato interessante: indipendentemente dall’anno di analisi e dal dimensionamento, le cooperative sociali di Tipo A o B registrano risultati simili tra loro, tendenzialmente migliori rispetto alle imprese profit e decisamente migliori rispetto alle altre cooperative.

Tabella 8. Analisi della resistenza delle imprese operative nel 2017 e nel 2019. Fonte: Nostre elaborazioni su dati di bilancio.

Come si può osservare dalla Tabella 8, la focalizzazione del campione ha incrementato la percentuale di società ancora attive dal 90,0% al 95,1% nel 2019 e dall’85,5% al 91,8% nel 2017, segno che nella banca dati sono presenti società fittizie o scarsamente operative[10]. In qualsiasi caso le valutazioni precedenti non cambiano, le più resistenti sono le cooperative sociali sia in termini numerici, sia di valore della produzione, sia di dipendenti. Risultati decisamente superiori alle medie complessive sono stati registrati dalle altre cooperative soprattutto per quanto concerne la perdita di dipendenti. Rispetto al 2019 sono ancora attive il 95,4% delle cooperative sociali di Tipo B e il 95,2% delle Tipo A, rispetto al 95,3% delle imprese e al 90,9% delle altre cooperative.

Il test chi-quadro sulle distribuzioni delle frequenze assolute per il campione finale (Tabella 8) avvalora l’ipotesi di una stretta relazione tra forma giuridica e stato giuridico[11]. La correlazione è avvalorata soprattutto se si pongono a confronto rispettivamente le cooperative sociali di Tipo B e di Tipo A con le altre cooperative; invece, con le imprese profit si evidenzia sempre indipendenza tra le variabili.

Le società cessate hanno comportato la perdita del 2,6% di produzione per le cooperative sociali di Tipo B e il 2,8% per le Tipo A, rispetto al 3,1% delle imprese profit e il 6,8% delle altre cooperative. In merito alla perdita di dipendenti i gap risultano maggiori: 2,6% Tipo B, 3,1% Tipo A, 3,6% imprese profit, 11,1% altre cooperative.

A livello di classificazione INCPO, le cooperative sociali di Tipo B ottengono risultati complessivamente migliori nell’Assistenza Sociale, in Cultura, sport e ricreazione, nell’Istruzione, nella Manifattura, nel Commercio e nei Servizi alle Imprese.

Alcune conclusioni e proposte di policy

Le evidenze empiriche presentate in questo contributo hanno solo in parte confermato lo stato dell’arte della letteratura sul sistema cooperativo e in particolare il posizionamento relativo alle cooperative sociali. Questo contributo si è posto due domande di ricerca entrambe connesse all’ipotesi avanzata in letteratura circa la natura anticiclica del sistema cooperativo sia nei periodi di crisi, sia in quelli di crescita economica. Per quanto concerne la natura anticiclica delle cooperative rispetto alle imprese profit, non vengono confermate variazioni significativamente inferiori nei periodi di crescita, anzi le altre cooperative e le cooperative sociali Tipo B ottengono risultati migliori per la variazione nel biennio 2017-2019 per l’occupazione e il valore aggiunto distribuibile. L’impiego della shift and share analysis evidenzia il buon posizionamento delle cooperative sociali di Tipo B rispetto alle cooperative sociali di Tipo A e soprattutto rispetto alle altre cooperative.

In secondo luogo, sebbene con dati scarsi, è stato effettuato un tentativo di analisi del periodo pandemico proponendo una valutazione sul grado di sopravvivenza. I dati confermano la capacità di resistenza in periodo di crisi, ma solo per le cooperative sociali e non per l’intero sistema cooperativo. La particolarità della metodologia proposta necessità indubbiamente di ulteriori conferme dovute soprattutto alla unicità della fase di crisi che non è comparabile con quelle di tipo economico finanziario dei decenni passati.

I due risultati non sono, comunque, tra di loro scindibili, la buona performance registrata nel periodo pre-pandemico ha indubbiamente irrobustito le cooperative sociali e le ha rese più pronte e resistenti all’inaspettato arrivo del Covid-19.

Da questi risultati, ne discende che il sistema cooperativo presenta alcune disomogeneità al suo interno. Nell’introduzione si era ipotizzato una sorta di scala della diversità tra le diverse forme giuridiche in base alla proattività ai cambiamenti esterni dei diversi modelli di business, dove da un lato si posizionavano le imprese profit e dal lato opposto le cooperative sociali di Tipo B. Le diverse tecniche di analisi delle performane, sia nel periodo pre-pandemico, sia durante la pandemia, non hanno confermato queste ipotesi, anzi le cooperative sociali sembrerebbero le più prossime alle imprese profit, con un posizionamento leggermente migliore per le Tipo B soprattutto per gli indici di sviluppo, mentre spetterebbe alle altre cooperative la maggior divergenza dalle imprese profit.

Anche in questo caso, questa ipotesi meriterebbe inevitabilmente ulteriori conferme e approfondimenti metodologi.

Ulteriori spunti di ricerca potranno riguardare la misurazione dei gap manageriali delle cooperative sociali se conducono a significative distinzioni con le imprese profit e con le altre cooperative e se è possibile individuare delle differenziazioni a livello settoriale o dimensionale. Esistono alcune metodologie basate sulle reti neurali e metodologie statistiche non-parametriche che devono essere tuttavia correttamente tarate per il sistema cooperativo.

Infine, in merito alle cooperative sociali di Tipo B, i risultati qui riportati confermano sostanzialmente la bontà di questo strumento di politica attiva del lavoro come già anticipato da Crivelli et al. (2015) con benefici significativamente superiori ai costi (Depedri, 2015).

È risaputa la capacità di inclusione che le cooperative sociali di Tipo B hanno dimostrato nel tempo, confermata dall’altissimo tasso di soddisfazione che i lavoratori svantaggiati hanno testimoniato (Chiaf, 2013), nonché dal frequente trasferimento di questi lavoratori formati alle impese profit. Infatti, le cooperative sociali Tipo B provvedono all’inserimento anche di altre categorie di soggetti svantaggiati, per i quali non ricevono benefici economici o sgravi fiscali. Come è stato evidenziato da Depedri (2012), tra i lavoratori regolari di queste cooperative sociali molti hanno bassa formazione e difficoltà ad essere assunti direttamente nelle imprese profit.

A partire da queste osservazioni, si potrebbe prospettare un allargamento del perimetro della categoria dei lavoratori svantaggiati contemplati dall’art. 4 della legge 381/1991 includendo almeno qualcuna delle categorie di lavoratori previste dal Decreto ministeriale del 17 ottobre 2017[12] normalmente percettori di reddito di cittadinanza, la cui legge ha riscontrato numerose difficoltà di applicazione. Alcune modifiche legislative e di fiscalizzazione saranno sicuramente necessarie, ma il tutoraggio formativo per queste categorie di lavoratori svantaggiati attuato dalle cooperative sociali di Tipo B, meglio se di piccole o medie dimensioni, avrebbe sicuro maggior successo delle attuali forme di accompagnamento previste dal reddito di cittadinanza.

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Note

  1. ^ In verità, l’impresa sociale non è una forma civilistica a sè stante ma è piuttosto una “qualifica”. È cioè una modalità specifica del “fare impresa” che prescinde dalla forma giuridica dell’organizzazione che la assume. Le imprese sociali esercitano in via stabile e principale un'attività d'impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività.
  2. ^ Le cooperative sociali tipo B hanno l’obbligo di occupare almeno il 30% dei lavoratori definiti svantaggiati, che secondo la legge 381/1991 sono: gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex-degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47bis, 47ter e 48 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla Legge 10 ottobre 1986, n. 663; le cooperative ad oggetto plurimo sottostanno a tale disposizione relativamente al complesso del personale impiegato nelle attività di inserimento lavorativo.
  3. ^ Il progetto ha evidenziato, tra l’altro, la non esaustività dell’Albo delle Società Cooperative presso il Ministero delle Attività Produttive (MISE) richiedendo l’integrazione con l’Archivio Statistico delle Imprese Attive gestito dall’ISTAT (ASIA) e la banca dati Analisi Informatizzata delle Aziende Italiane (AIDA) di Bureau van Dijk.
  4. ^ Ad esempio, non sono stati considerati i settori legati all’estrazione di materiali a alla loro lavorazione, le industrie del tabacco e delle armi, la chimica e la farmaceutica, i settori finanziari.
  5. ^ La classificazione internazionale delle attività svolte dalle istituzioni non profit è stata elaborata dalla Johns Hopkins University di Baltimora (Salamon, Anheier, 1996).
  6. ^ Il test chi-quadro sulle distribuzioni delle frequenze assolute conferma l’ipotesi di una stretta relazione tra forma giuridica con la performance. Infatti, per tutti gli indicatori, il test mostra una bassissima probabilità (Dipendenza al 99%, p= 0,0001) che la correlazione tra le due mutabili non sia dovuto al caso, e si può pertanto affermare che tra i due principi di classificazione esista interdipendenza. Tranne che per la produttività del capitale, la correlazione è avvalorata soprattutto se si pongono a confronto rispettivamente le cooperative sociali di tipo B e di tipo A con le altre forme giuridiche.
  7. ^ La stessa metodologia è applicabile considerando il valore aggiunto al posto del valore aggiunto distribuibile se si considerassero esclusivamnete le imprese profit (Rolfo, Calabrese, 2006).
  8. ^ Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico, le cause di cessazione dell’impresa utilizzate per la classificazione dello stato di “cessazione definitiva” sono 55, di queste le più frequenti sono lo scioglimento e messa in liquidazione, la chiusura per fallimento, le cancellazioni e le cessazioni. Invece, non sono state considerate “cessate definitivamnete”: le cessazioni per fusione, trasformazione o trasferimento. https://www.mise.gov.it/index.php/it/per-i-media/pubblicazioni/2019035-gli-incentivi-alle-attivita-produttive-effetti-della-legge-48892-su-natalita-e-mortalita-delle-nuove-imprese
  9. ^ Nella banca dati AIDA di Bureau van Dijk lo stato giuridico è costantemente aggiornato in tempo reale e riteniamo che il periodo pandemico di un anno consenta già di effettuare delle prime attendibili valutazioni sulla capacità di resistenza del sistema produttivo italiano.
  10. ^ Se si fosse scelto un limine inferiore maggiore, ad esempio ad un milione di euro di valore della produzione, le percetuali di società attive si sarebbe ovviamente inalzato (96,8% nel 2019 e 95,0% nel 2017), ma non si sarebbe significativamente modificata la valutazione generale.
  11. ^ Infatti, il test mostra una bassissima probabilità (Dipendenza al 99%, p= 0,0001) che la correlazione tra le due mutabili non sia dovuto al caso, e si può pertanto affermare che tra i due principi di classificazione esista interdipendenza.
  12. ^ Il decreto specifica le condizioni che i soggetti devono avere per essere definiti "lavoratori svantaggiati" e "lavoratori molto svantaggiati". In sintesi, per essere compresi nella prima categoria i soggetti devono alternativamente: a) non avere un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi; b) avere un'età compresa tra i 15 e i 24 anni; c) non possedere un diploma di scuola media superiore o professionale (livello ISCED 3) o aver completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e non avere ancora ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito; d) aver superato i 50 anni di età; e) essere un adulto che vive solo con una o più persone a carico; f) essere occupato in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici se il lavoratore interessato appartiene al genere sottorappresentato; g) appartenere a una minoranza etnica di uno Stato membro UE e avere la necessità di migliorare la propria formazione linguistica e professionale o la propria esperienza lavorativa per aumentare le prospettive di accesso ad un'occupazione stabile". Appartengono alla seconda categoria i soggetti che sono privi da almeno 24 mesi di un impiego regolarmente retribuito. Sono altresì "lavoratori molto svantaggiati" i soggetti che, privi da almeno 12 mesi di un impiego regolarmente retribuito, appartengono a una delle categorie previste dalle precedenti lettere da b) a g).
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