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ISSN 2282-1694
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Numero 3 / 2021

Le politiche

La sostenibilità di una politica sociale income-based: gli effetti del reddito di cittadinanza sullo spazio di intermediazione del terzo settore

Armando Vittoria

Una prima analisi sui piani di inserimento sociale e i progetti utili alla comunità


Abstract

Il dibattito sulle cosiddette politiche di reddito minimo è ormai al centro delle agende democratiche. Queste hanno certamente dato prova di poter almeno in parte contrastare povertà – anche familiare – ed esclusione sociale. E tuttavia, con il ciclo di austerity e ancora con la crisi pandemica, per molte delle democrazie a capitalismo maturo si pone il tema di una revisione del sistema di welfare che sia capace di rendere sostenibile livelli di diseguaglianza tendenzialmente in aumento, per il crescere di fenomeni come l’automazione, la delocalizzazione produttiva, la disoccupazione involontaria.

In questo senso pone qualche interrogativo il consenso crescente che segmenti di opinione tra loro apparentemente opposti – di stampo sia tecno-liberale come di opposizione populista – stanno manifestando non solo verso l’istituzionalizzazione e l’allargamento delle misure di reddito minimo, ma più in generale di una politica di welfare sempre più centrata su misure di trasferimento di reddito, che lascia intravedere in prospettiva l’affermazione di modelli di politica sociale income-based, ovvero centrati su misure individualizzate di trasferimento monetario di reddito, come, ad esempio, il reddito di base o basic income.

Siamo forse di fronte alla prospettiva di una democrazia del reddito che, più che rimuovere gli ostacoli di diseguaglianza attraverso la promozione cittadinanza democratica attiva – se non labor-based – come nella democrazia del welfare, si limiterà ad istituzionalizzare complessi di politica sociale basati sul trasferimento di una equa dote monetaria di inclusione su base individuale? Che tipo di implicazioni questo avrebbe in termini di disarticolazione del tessuto sociale su cui si regge la democrazia? E che impatto hanno, anche già le politiche del reddito minimo, sul ruolo di intermediazione e aggregazione sociale svolto dai soggetti del terzo settore?

L’articolo si propone di affrontare queste domande, sia attraverso una parte di framing e analitica che discute i dilemmi teorici riguardanti le basi morali della politica sociale, sia ricorrendo ad un caso empirico, e in particolare valutando l’impatto in termini di coinvolgimento del terzo settore dei Progetti utili alla comunità (PUC) programmati, attraverso il PON Inclusione, con il fine di realizzare l’inserimento sociale dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza (RDC).

Keywords: reddito di cittadinanza, disintermediazione, terzo settore, progetti di utilità collettiva, individualismo di massa, politica sociale income-baseddemocrazia del reddito

DOI: 10.7425/IS.2021.03.02

Introduzione

Il dibattito sulle cosiddette politiche di reddito minimo è da quasi un ventennio al centro delle agende dei governi democratici. Concepite in piena transizione post-fordista per convivere con le altre classi di policy sociali produttiviste o industriali, queste hanno certamente dato prova, soprattutto con il ciclo di austerity e poi con la crisi pandemica, di contribuire a contrastare povertà – anche familiare – ed esclusione sociale.

Vi è, tuttavia, un altro aspetto della loro progressiva affermazione nei sistemi di welfare dell’Europa continentale che pone un qualche interrogativo. Con il modello di capitalismo che va affermandosi nella tarda globalizzazione, il tema della diseguaglianza strutturale si pone sempre più come centrale per i governi occidentali (Milanovic, 2019), e quella pressione sull’universalità dei meccanismi di welfare iniziata con la transizione post-fordista (Pierson, 1998) pare riflettersi sia sugli obiettivi che la politica del welfare verrà a perseguire, sia sugli strumenti di policy attraverso cui lo farà.

Se questi apparivano infatti chiari per il vecchio Stato Nazionale a Welfare Keynesiano – produttivista, industriale, labor-based – e consistevano nel ridurre le diseguaglianze sociali prodotte dal capitalismo attraverso la cittadinanza democratica e la sua demercificazione (Esping-Andersen, 1990), davanti alla prospettiva di automazione avanzante, disoccupazione involontaria crescente e cristallizzazione della marginalità sociale, molte democrazie mature sembrano procedere a vista nella pianificazione della politica sociale.

Ed è anche in questo contesto che si inserisce la crescente diffusione delle politiche di sostegno al reddito, prima di tutto quelle di reddito minimo (minimum income). Come era stato per il welfare labor-based al tempo del fordismo, attraverso una diffusa politica sociale del reddito, molti governi europei, anche dentro cornici di cosiddetto workfare, sembra stiano faticosamente ricercando un principio di sostenibilità della diseguaglianza per la condizione postdemocratica o neodemocratica (Von Beyme, 2017), virando, passo a passo, verso un welfare income-based. Ciò che sembrerebbe intravedersi è una sorta di passaggio a modelli sociali e di integrazione democratica basati sul reddito, in cui la filosofia dell’intervento sociale pare sempre più modellata sulla monetizzazione e individualizzazione delle misure.

Ben al di là, dunque, della efficacia delle misure di reddito minimo nel contrastare, temporaneamente, povertà ed esclusione, questa tendenza espansiva – e il consenso ampio che riceve, dai governi ai movimenti di promozione, ad esempio, un’idea come il basic income – propone sul lungo periodo alcuni interrogativi per i sistemi di welfare e per quello democratico tout court, soprattutto per il modello sociale europeo. Siamo forse dinanzi al superamento dell’originario paradigma welfarista, e dunque alla prospettiva di modelli di politica sociale che abbandonano l’obiettivo del potenziamento delle capacità di cittadinanza democratica di individui o famiglie immaginando di rendere sostenibile la diseguaglianza principalmente attraverso misure di trasferimento di reddito individualizzato e/o familiare, cioè attraverso una visione che non discute i meccanismi della redistribuzione tra capitale e lavoro? La prospettiva, ad esempio, di una democrazia che potremmo paradossalmente definire del reddito o income-based, cioè che distribuisce i punti di equità sociale – o le social chances – se non esclusivamente almeno prevalentemente trasferendo benefit sociali sotto forma di quote monetarie, ha in re ipsa un qualche portato antisociale sul lungo periodo? E ancora, quanto la prospettiva di sostituire la politica del welfare con, ad esempio, il reddito di base produrrebbe un’idea individualistica e non collettiva della coesione sociale? Ma, soprattutto, e considerando i lunghi processi di disintermediazione e privatizzazione dello spazio sociale che hanno accompagnato la cosiddetta condizione post-democratica, in che misura la prospettiva di modelli di politica sociale sempre più income-based – e di una democrazia del reddito – interverrebbe sui processi di disarticolazione che già colpiscono le società del capitalismo maturo, e – soprattutto – quale tipo di effetto tale politica avrebbe sul ruolo svolto dal terzo settore?

L’articolo prova ad affrontare tali questioni. Nei due paragrafi che seguono, dedicati al frame teorico e analitico, viene affrontata la prima parte di queste domande, la quale è essenzialmente relativa all’impatto sulla dimensione individuale-collettivo di modelli di politica sociale prevalentemente income-based. La parte empirica sviluppata nel paragrafo seuccessivo è, invece, dedicata all’implementazione del Reddito di Cittadinanza (RDC) in Italia. In particolare, attraverso il caso dei Progetti utili alla comunità (PUC), programmati sul PON Inclusione 2014-2020 per valorizzare l’inserimento sociale dei beneficiari di RDC, si cercherà di misurare l’impatto che questo tipo di policy-su-policy income-based sta avendo sul contributo e sulla capacità di intermediazione del terzo settore.

Verso un welfare e una democrazia del reddito (income-based)?

Con la transizione post-fordista (Jessop, 1996), la pressione irresistibile sul ridimensionamento dei meccanismi basati sull’universalità delle prestazioni sociali (Pierson, 1998) e i processi di retrenchment e rescaling istituzionale del welfare industriale-produttivista inducono mutamenti sostanziali nel campo delle politiche sociali. Non solo, ma particolarmente nel campo delle misure di sostegno al reddito, tale cambiamento è variamente caratterizzato da spinte al post-produttivismo, come dalla difesa (Morel, Palier, 2011; Leòn, Pavolini, 2014) e anche dalla critica alle teorie di social investment (Cantillon 2011). Generalmente è comunque segnato, in molti sistemi dell’Europa continentale, dall’affermazione di nuove tipologie di policy – e di nuovi social benefits – che rispetto al welfare industriale presentano alcuni caratteri di fondo: una più sfumata, o diversamente declinata, ispirazione “lavorista” delle politiche di welfare; il crescere di benefits sociali spesso slegati da un orizzonte di integrazione produttivista, e sovente centrati sul trasferimento monetario di reddito sia familiare ma anche – e forse in misura crescente – su  base individuale; la tendenziale dilatazione, dunque, di una politica sociale income-based, che nell’idea del policy maker si implementa senza grande sforzo burocratico e senza il rilevante intervento, anche di progettazione, dei corpi intermedi sociali come quelli del terzo settore.

Un posto di rilevo in questo processo è stato rivestito senza dubbio, negli ultimi decenni, dal dibattitto sulle misure di reddito minimo, inizialmente concepite, a partire dai sistemi dell’Europa centro-settentrionale (bijstand, sozialhilfe, kontanthjaelp), per convivere con le altre classi di policy sociali produttiviste, e che hanno nel tempo dato prova di aiutare a contrastare la povertà – anche familiare – e l’esclusione sociale. Ancor più di recente, e allo stato nascente, il dibattito si è poi allargato a quello sul reddito di base (Granaglia, Bolzoni, 2016). Ma, soprattutto nel primo caso, la discussione sull’impatto del reddito minimo – il quale nei paesi dell’Europa meridionale, non ultima l’Italia, ha sollevato anche non poche criticità di applicazione (Natili, 2017, 2019; Baldini et al., 2018) – è corso in parallelo con quello più generale sulla capacità della politica sociale del reddito, ormai consolidata a livello europeo (Frazer, Marlier, 2016), non solo di contenere gli effetti sociali della povertà anche familiare (Marchal et al., 2016; Cantillon et al., 2017), ma anche di raggiungere obiettivi classicamente definibili di welfarismo progressivo (Hicks, 2018), cioè di ridurre le diseguaglianze sociali prodotte dal capitalismo attraverso la cittadinanza democratica (Esping-Andersen, 1990).

L’avanzare di questa politica sociale del reddito (income-based) risulta quindi interessante anche in ragione delle sue possibili implicazioni di lungo periodo, perché interroga sulla capacità del governo pubblico di intervenire sulla sostenibilità sociale della diseguaglianza in contesti a capitalismo maturo, contrastando alcune tendenze che sembrano destinate a segnare le democrazie nei prossimi decenni: la diffusa povertà anche lavorativa, l’esclusione sociale strutturale, la robotizzazione, la disoccupazione involontaria crescente, la tendenziale scarsità dei benefit sociali in un contesto di pressione populista per l’immigrazione e di welfare chauvinism crescente (Van der Waal et al., 2013; Keskinen et al., 2016).

La letteratura si è infatti finora principalmente esercitata nell’analizzare articolatamente gli effetti di medio-breve periodo su povertà ed esclusione sociale della politica sociale del reddito, ancora poco ci si è interrogati sugli effetti di lungo periodo. A interrogare sono infatti anche le implicazioni generali per il modello di welfare che perverrebbero dal consolidamento di una filosofia di intervento sociale più basata su un’idea contrattualistica, monetizzata ed individualizzante della politica sociale che su una politics di progressiva rimozione delle diseguaglianze strutturali tra famiglie, gruppi, e forse anche classi sociali.

Siamo, forse, davanti al superamento del paradigma welfarista – anche rimodulato nei suoi passaggi post-fordisti dal welfare mix a quello orizzontale – e dunque alla prospettiva di modelli di politica sociale centrati sul reddito, che rinunciano al potenziamento delle capacità di cittadinanza democratica di individui, famiglie e gruppi sociali immaginando di rendere sostenibile la diseguaglianza principalmente trasferendo reddito su base individuale e/o familiare, e dunque non intervenendo sui meccanismi di redistribuzione della ricchezza e della mobilità sociale?

La questione investe alcuni nodi essenziali della cosiddetta condizione postdemocratica. Perché quella che oggi appare come una (non improbabile) prospettiva – cioè il completo passaggio da modelli di protezione sociale post-produttivisti e/o work-oriented ad altri centrati sul reddito – presenta infatti delle implicazioni potenzialmente molto rilevanti sui due lati della disarticolazione del tessuto sociale e della disintermediazione del sistema politico.

In primo luogo, si tratta di una questione rilevante per ragioni collegate all’attuale fase di transizione dei sistemi economici del capitalismo maturo. Infatti, il ciclo di austerity seguito alla crisi dei subprime e successivamente con la crisi pandemica ha riportato al centro delle agende di governo il tema della sostenibilità sociale della diseguaglianza (Rodrik, 2011; Piketty, 2016; Milanovic, 2019), già sollevato da voci isolate negli anni centrali della “mondializzazione felice” (Krugman, 2004). Attualmente, la discussione sul ruolo da destinare alla politica sociale nel piano di recovery dell’Unione Europea in qualche misura ne è ulteriore conferma. In generale, ad emergere è come il capitalismo della tarda-globalizzazione sia destinato a trasformare strutturalmente, e non solo a modificare marginalmente, il cosiddetto modello sociale europeo.

In questo senso, l’istituzionalizzarsi e il dilatarsi in quasi tutti i sistemi di protezione, ad esempio europei, delle politiche sociali basate sul sostegno al reddito inizia a trasformare l’originaria funzione di integrazione delle politiche del welfare lavorista del reddito minimo. Misure come la renta de inserciónrevenu de solidarité active oppure il reddito di cittadinanza godono ormai di una centralità assoluta nei sistemi di protezione nazionali; che è anche una centralità di agenda nel sistema politico, egemonizzando con queste misure ormai la spesa e la politica sociale, grazie anche ad un’accoglienza trasversale soprattutto tra le nuove forze politiche: tra le formazioni neoliberali, che le concepiscono a supporto di agende tecnocratico-liberali per sedare il conflitto sociale; tra i partiti populisti e far-right, per capitalizzare elettoralmente il rancore e la paura dell’esclusione sociale dei left-behind della globalizzazione (Fenger, 2018).

Al di là della spinta di coalizioni politico-sociali – spesso minoritarie – che chiedono politiche di sostegno al reddito per contrastare temporaneamente povertà ed esclusione sociali crescenti, è infatti proprio questa morsa di populismo e neo-dirigismo tecnocratico a centrare l’agenda di molte democrazie europee sulle misure di sostegno al reddito, attraendo con forza la politica sociale nel campo di gravitazione di quella che è stata definita una “società algopatica” (Han, 2021). Con democrazie che, piano piano, tendono ad isolare il campo della policy sociale dall’ambito dei conflitti, immaginando di orientare, ad esempio, le misure di contrasto alla povertà e all’esclusione su una dimensione immediatamente ed esclusivamente sedativa dei bisogni più individuali che familiari, espungendo il lavoro dal paradigma sociale ed evitando il tema della redistribuzione che è collegato al welfare. Sembrerebbe l’anticamera della democrazia del reddito, che abdica agli obiettivi welfaristi progressivi della redistribuzione e della mobilità sociale e destruttura ogni costruzione e intermediazione di tipo collettivo nella politica di contrasto alle diseguaglianze, individualizzando in un rapporto ad duos – con il mercato, con lo Stato – il tema dell’esclusione e del bisogno; che riduce così, anche, il potenziale di intermediazione, partecipazione e di tessitura civica di cui i corpi intermedi e ascendenti – come lo stesso terzo settore – sono portatori.

Se così fosse, questa prospettiva di una democrazia del reddito, che distribuisce i punti di equità di base trasferendo più che capacità di cittadinanza benefit monetari, ha in re ipsa un qualche portato antisociale? Che tipo di implicazioni questa visione morale del welfare e della politica sociale – si pensi, ad esempio, al basic income – ha in termini di disarticolazione e disintermediazione del tessuto democratico? Produce inevitabilmente un’idea individualistica e non collettiva della coesione sociale? E da questo punto di vista, non in ultimo, quale tipo di effetto tale politica sociale del reddito ha e rischia di avere nel lungo periodo sul ruolo svolto dal terzo settore?

Dal reddito di base alla democrazia del reddito: un possibile frame

Per cercare di rispondere a queste prime domande è necessario, forse, ragionare della idea di morale e bene pubblico che sta dietro l’idea di una democrazia del reddito. Ad uno sguardo più lungo, l’idea di una politica sociale sempre più basata sul trasferimento di reddito (income-based) sembrerebbe infatti mutuare alcuni caratteri dall’idea che, originariamente, un po’ la ispira: quel reddito di base incondizionato (universal basic income) immaginato dal contrattualismo libertarian come soluzione di “giustizia naturale” per un modello di società essenzialmente a-welfarista e individualista, che riserva poco spazio alla dimensione collettiva e politica di risoluzione delle diseguaglianze (Vittoria, 2019). Visione che, riflettendoci, si mostra perfettamente complementare e funzionale a molte dimensioni caratterizzanti i sistemi tardo-capitalistici e postdemocratici animati dall’individualismo di massa: una piazza ed una torre (Ferguson, 2018).

La divaricazione tra politics e policy sociale del reddito è, in questo senso, chiarificatrice. Se infatti l’uso delle politiche di reddito minimo – ad esempio – rivela una certa efficacia nel contenere sul breve periodo povertà ed esclusione sociale, è la politica sociale del reddito (anche minimo) ad essere però decisamente meno promettente nell’intervenire sulla logica di redistribuzione degli spazi di cittadinanza democratica, e dunque sulla sostenibilità politica della diseguaglianza strutturale che caratterizza i sistemi attuali. È in particolare la logica di individualizzazione e monetizzazione dell’intervento sociale da cui sembra ispirata che potrebbe aggravarne, ulteriormente, quelle tendenze alla disarticolazione del tessuto civile-sociale e alla disintermediazione che attualmente minacciano lo spazio democratico.

Questo dipende, ovviamente, dalla centralità che questa politica sociale del reddito andrà progressivamente ad acquisire. Ciò che tuttavia si può di certo osservare è che per molti governi europei il ricorso robusto alle politiche sociali di sostegno al reddito sembra legato alla faticosa ricerca di un principio di sostenibilità per il modello sociale post o neodemocratico (Von Beyme, 2017), nel quale il consenso alle politiche sociali proviene da misure sempre più decentrate rispetto all’orientamento “laburista” e collettivo del welfare, mosse da obiettivi di breve termine, come quello di rassicurare le paure dell’individuo-massa. Il baricentro della politica sociale si sta oggettivamente spostando verso misure di ispirazione più contrattualista e individualista – reddito di base, doti generazionali – e che peraltro tendono ad escludere sempre più, per la loro implementazione, logiche collettive, partecipative, di intermediazione. Si riflettono nella politica sociale alcune tendenze della platform society (Van Dijck et al., 2018): forte disintermediazione, bassa intensità partecipativa collettiva, neo-individualismo.

Un esempio di conferma è nella discussione attualmente in atto sul PNRR, con le posizioni di largo e trasversale favore verso un potenziamento della policy di reddito minimo – e ben oltre i suoi obiettivi di supporto temporaneo alla povertà – e, di converso, il debole sostegno invece verso l’idea di un salario minimo europeo. L’orizzonte sembrerebbe essere quello di una politica economica del sociale, pensata prevalentemente su misure di trasferimento monetario che abbiano l’obiettivo non solo di lenire temporaneamente gli effetti della povertà individuale/familiare, ma soprattutto di sedare le paure – e le opposizioni – di larghi segmenti anche elettorali di esclusi dalla nuova economia capitalistica. In questo senso, l’idea di una politica sociale income-based, di una democrazia del reddito, incarna perfettamente lo zeitgeist populista: il bisogno analgesico e palliativo dell’individuo-massa di calmare la propria paura di esclusione dal sistema senza passare attraverso il conflitto economico, sociale, politico (Han, 2021).

Quella che resta, ad oggi, una percettibile tendenza di passaggio alla democrazia del reddito, inizia però a farsi strada in alcuni segmenti dell’opinione pubblica, tra le parti politiche, nell’agenda, e con un sostegno significativamente trasversale: sul basso del sistema politico postdemocratico, ovvero tra quei soggetti populisti ed anti-establishment che così capitalizzano il consenso dei left-behind della globalizzazione (Inglehart, Norris, 2019) rassicurandoli dalla paura – ormai individualizzata e non “di classe” – di esclusione, delocalizzazione, disoccupazione involontaria; sull’alto, dimostrandosi questo tipo di politica sociale fortemente compatibile con l’agenda di governi liberali sempre più a profilo tecno-liberale (Bloom, Sancino, 2019), inclini a difendere misure non proprio progressive, le quali non discutono la logica strutturale di distribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro, spesso socializzano i costi delle crisi, e potenzialmente generano anche consumo interno.

Il favore verso un modello di politica sociale income-based sembrerebbe, insomma, unire i due fronti dell’antipolitica. Un esempio è nell’alleanza d’opinione – dai think tanks cosiddetti libertari ai movimenti anti-establishment – che sostiene l’iniziativa dei cittadini europei per sottoporre al Parlamento di Bruxelles una misura comune europea di universal basic income. E ancora, è significativa la modalità originale con cui la issue sul reddito universale abbia penetrato l’agenda delle ultime presidenziali americane, attraverso una figura curiosa e ambigua come quella dell’imprenditore Andrew Yang, la cui proposta di freedom dividend – sostanzialmente un reddito di base incondizionato di 1.000 dollari dai 18 ai 64 anni – non a caso ha continuato a vivere anche durante la sua campagna delle primarie a sindaco di New York, in maniera molto discussa anche per il sostegno milionario ricevuto da Yang da quei big donors, anche repubblicani, che durante la primaria democratica avevano avversato energicamente la piattaforma sul welfare sanitario universale di Bernie Sanders.

Dal punto di vista della visione morale sottesa alla politica sociale questo non deve sorprendere. L’orizzonte di una reductio ad unum delle politiche sociali al reddito naturale quale unica forma di compensazione – più che redistribuzione – in un modello di società che si intravede come sempre più indipendente dal lavoro è, in fondo, uno dei postulati di quella filosofia contrattualista, individualista, liberale e a-welfarista che anima da sempre l’idea madre delle politiche di cash benefit: il basic income (Van Parijs, 1991). Ma è davvero così? Sono cioè inevitabili gli effetti antisociali di una politica sociale – e una democrazia – del reddito?

La discussione sul reddito di base ha accesso negli ultimi anni un vivace dibattito (Granaglia, Bolzoni, 2016). In origine, la principale influenza sull’idea del reddito naturale (sociale o di base) si ritrova in una lunga tradizione della filosofia morale liberale che potrebbe definirsi di matrice communitarian. Da John Locke a Thomas Paine, da Charles Fourier a John Rawls e fino a Van Parijs, è infatti nell’individualismo “socievole” e di stampo contrattualista che la proposta di un trasferimento di base ad ogni individuo della comunità̀ trova le sue radici, come dimostra l’esplicito richiamo dei sostenitori del basic income a Locke o al “minimo condizionato” di John Stuart Mill (Vittoria, 2019 – pp. 366-367). Un’idea dell’intervento sociale basata sulla compensazione individuale (una dote di tipo prepolitico) che ripristini una distribuzione equa (fair) dei punti di giustizia naturale che è piuttosto risalente nel repubblicanesimo americano (Fumagalli, 1997), e nelle sue forme più «spurie» anche nel liberalismo sociale europeo (Cunliffe, Erreygers, 2004).

Non è dunque casuale che, seppur impropriamente, alleanze sociali e movimenti politici anche di differente estrazione invochino l’idea del reddito sociale o di base per giustificare l’approvazione di misure di reddito minimo da parte del policy maker; ciò sebbene gran parte delle misure di minimum income attualmente operanti nelle democrazie occidentali nascano nella fase post-fordista come complementari al welfare industriale, e si distanzino per giustificazione morale e per obiettivi dall’idea del reddito di base, sia nella variante propria del radicalismo agrario (basic capital) che in quella delle teorie contrattualiste sulla giustizia (universal grant), entrambe immaginate non come politica sociale pubblica ma come misura di contratto sociale pre-politica. Logica che, attualmente, pare avvolgere anche il recente dibattito sulla cosiddetta dote generazionale timidamente mossosi anche in Italia.

Nella sua formulazione contemporanea, attorno alla quale si è sviluppato a partire dal Collettivo belga Charles Fourier fondato nel 1984 un lungo dibattito, l’idea del basic income (anche detto universal o UBI) si ispira essenzialmente ad una visione non-produttivista e a-welfarista della giustizia più che della politica sociale, perché si traduce non in una politica pubblica ma in un «reddito corrisposto a tutti su base individuale e in modo incondizionato, cioè̀ a prescindere da verifiche del livello di ricchezza e di occupazione» (Van Parijs, 1997 – p. 177). Un principio dunque di morale collettiva, che più che all’eguaglianza tende al ripristino dell’equa distribuzione dei punti di giustizia nella società naturale, per proteggerne il postulato “libero e proprietario” dai contraccolpi di un’alta diseguaglianza sociale, quindi dal conflitto (Cunliffe, Erreygers, 2004).

Certamente distante dal minimum income (reddito minimo) e dai suoi obiettivi di contrasto temporaneo alla povertà, il basic income è attualmente oggetto di sperimentazioni isolate in contesti post-industriali per così dire spinti, dalla Finlandia allo Stato canadese dell’Ontario. L’idea che lo anima, confinata a piccoli circuiti libertari o a movimenti alternativi poco strutturati, anche se favorevolmente accolta nel dibattito sui diritti sociali (Birnbaum, 2010; Painter, Thoung, 2015) è stata però oggetto di numerose critiche in parte accolte dalla scholarship: rispetto alla sua fattibilità (De Wispelaere e Noguera 2012), alla sua capacità di contrastare la diseguaglianza (Clark, Kavanagh, 1996; Caputo, 2008) ma, soprattutto, sui suoi effetti antisociali. Molti hanno infatti elevato delle critiche alle basi morali eccessivamente individualiste del basic income e all’idea regressiva della cittadinanza che coltiva (Blix, 2017), come al fatto che indebolisce un’etica collettiva di sostegno alla cittadinanza democratica (Jackson, 1999; Howard, 2005; Scharding, 2014).

Parte di queste critiche potrebbe trasferirsi anche ad altre visioni o politiche di reddito minimo che sembrano voler richiamare il basic income come idea ispiratrice, in primis ad un altro grant universale, cioè il (vero) reddito di cittadinanza. L’idea, infatti, di minimo sociale o minimum social grant (MSG) nasce maturando lo schema del basic income all’interno di una sensibilità sociale non-produttivista (Offe, 1999) come strumento per realizzare più che un’eguaglianza attiva una minima dignità sociale nei contesti post-industriali in cui le politiche di welfare faticano a realizzare i propri obiettivi; una soluzione che attraverso il trasferimento di un reddito individuale naturale o sociale intende sostanzialmente compensare la perdita di quei meccanismi che nel modello fordista avevano consentito al valore socio-produttivo del lavoro di riflettersi nella cittadinanza democratica, e che nella sua formulazione più̀ spinta assume la forma di un salario sociale – sociale perché indipendente dal circuito lavoro-reddito-cittadinanza – incondizionato (Offe, 1997).

Tabella 1. Classi di policy sociali di cash benefit. Fonte: rielaborazione su Vittoria (2019, p. 369).

 

UBI

(reddito di base)

MSG

(salario sociale)

Minimum income

(reddito minimo)

Obiettivo

Benessere individuale naturale

Dignità sociale prepolitica

Dignità sociale attiva

Condizionalità

No

No

Si

Strategia

Individualista

Individualista sociale

Individualista-familiare

Target di policy

Cittadinanza naturale

Cittadinanza sociale passiva

Inclusione sociale attiva o passiva

Side-effect antisociale

Alto

Alto

Da alto a medio

Intermediazione istituzionale

Bassa

Bassa

Media

Intermediazione sociale

Nessuna

Nessuna

Medio-bassa


Quali limiti queste idee “pure” di reddito di base o sociale trasferiscono anche al reddito minimo, e come potrebbe questo riflettersi negativamente anche in quella che abbiamo chiamato la democrazia del reddito? La Tabella 1 prova a classificare i tipi puri di politiche income-based di matrice non produttivista, sia sociali che naturali. Emerge piuttosto chiaramente quale sia la diversità di prospettiva con le classiche misure di ispirazione industriale o labor-based. Sono infatti prima di tutto le basi morali individualiste o individualiste-sociali – nella strategia, negli obiettivi – a caratterizzare il basic income e il minimum social grant: un’idea della cittadinanza come dato prepolitico o naturale, sganciata dal circuito lavoro-reddito; un’idea della giustizia sociale come equità di partenza individualizzata, che non altera i meccanismi della distribuzione di ricchezza; un’idea della policy o meglio della misura sociale che prevede un basso coinvolgimento di intermediazione di gruppi e corpi collettivi o di comunità, che non alimenta le trame di relazione alla base della società (e della socialità). E alcune spinte alla disintermediazione sono intellegibili anche nella politica del reddito minimo, non casualmente spesso valorizzata come pilastro integrativo di una larga politica di welfare, efficace nel contrastare povertà ed esclusione sociale (Marchal et al., 2016; Cantillon et al., 2017; Natili, 2019) più che nel raggiungere obiettivi universalistici (Granaglia, 2016; Vittoria, 2019).

E tuttavia, la recente tendenza presente in alcuni paesi europei – si pensi a Italia e Francia – a ridisegnare il profilo della politica di welfare assegnando un peso – anche di bilancio – relativamente centrale alla policy di reddito minimo espone il modello di protezione sociale al rischio di una replicazione degli effetti individualistici e di disintermediazione che è possibile leggere, nel lungo periodo, in una politica sociale income-based. Misure che sono sempre più implementate nel rapporto diretto dal governo all’individuo, non concedendo così spazio di implementazione e rilevanza ai corpi aggregativi, ascendenti e d’intermediazione collettiva. Una individualizzazione e monetizzazione della politica sociale che agisce su sistemi politici postdemocratici già provati da uno spazio pubblico sfibrato. Un tema su tutti è: quanto la politica sociale del reddito influisce sulla disintermediazione, e in particolare quanto modifica il ruolo dei soggetti che partecipando all’implementazione delle politiche costruiscono, naturaliter, la trama della coesione sociale e dello sviluppo democratico, come i soggetti del terzo Settore?

L’implementazione del RDC dal sostegno individuale all’utilità collettiva. I Piani di inserimento sociale (PAiS), i Progetti utili alla comunità (PUC) e il coinvolgimento del terzo settore sul PON Inclusione

Il dibattito intensificatosi in Italia a seguito della introduzione della prima misura di reddito minimo istituzionalmente centralizzata – Reddito di Cittadinanza (RDC) – costituisce da questo punto di vista un punto d’osservazione molto interessante, anche in ragione della particolare precocità e intensità con cui i fenomeni di disintermediazione politica e anche sociale hanno colpito il sistema italiano (Vittoria, 2020a). Sebbene anticipato negli anni da altre misure, come il REI, che avevano dato prova di ottima efficacia nonostante non sempre godessero del pieno investimento da parte del policy maker (Gori, 2017; Baldini, Gori, 2019), e ampiamente discusso sul lato degli effetti economici, di quelli sociali, del disegno di policy (Baldini, Gori, 2019; Gallo, Sacchi, 2019; Gori, 2019; Vittoria, 2020b), il RDC non è stato infatti ancora analizzato, sistematicamente, in relazione all’idea di società, di aggregazione dal basso, di partecipazione anche democratica di cui sono intrinsecamente portatrici.

Prima con l’austerity, poi con la pandemia, l’agenda sociale di democrazie sempre più strette nella morsa di populismo e neo-dirigismo tecnocratico è entrata con forza nel campo di gravitazione di quella che è stata definita una “società algopatica” (Han, 2021). Democrazie che, in sostanza, tenderebbero ad isolare anche il campo della policy sociale dall’ambito dei conflitti, immaginando di ridurre, ad esempio, le misure di contrasto alla povertà e all’esclusione su una dimensione immediatamente ed esclusivamente sedativa dei bisogni più individuali che familiari, espungendo il lavoro dal paradigma sociale ed evitando il tema della redistribuzione che è collegato al welfare. Lo schiacciamento della politica sociale sul tema del trasferimento del reddito rischierebbe, così, di depotenziare ogni costruzione e intermediazione di tipo collettivo della dimensione delle diseguaglianze, individualizzando in un rapporto ad duos – con il mercato, con lo Stato – il tema dell’esclusione e del bisogno, riducendo il potenziale di intermediazione, partecipazione e di tessitura civica di cui i corpi intermedi anche sociali, come il terzo settore, sono portatori.

Tale critica di individualizzazione e disintermediazione della politica sociale è stata portata, dal principio, anche al RDC, ad esempio per la scelta del policy maker di non coinvolgere nel disegno di implementazione la rete dei comuni, molto attiva in generale nel monitorare e contrastare le povertà e in precedenza coinvolta nell’attuazione del REI (Baldini, Gori, 2019), anche dopo le modifiche ricevute dal disegno originario durante il processo parlamentare. E che il disegno di policy del RDC soffrisse di diverse asimmetrie, in parte dovute anche al carattere marcatamente elettoralistico della politics che lo ha originato, è apparso da subito evidente già nella scelta del nome, allusiva di una misura universalistica di social grant con cui il RDC condivide davvero poco (Vittoria, 2020b – pp. 530-31).

Misura quanto mai necessaria nel modello sociale italiano se concepita con l’obiettivo esclusivo di fronteggiare la povertà, come anche gli ultimissimi monitoraggi sembrano indicare (Caritas, 2021), il RDC dalla sua approvazione è passato (quasi) indenne a due cambi di governo (Conte I, Conte II e Draghi) e di maggioranza: dal governo full-populist che lo ha approvato, al centro-sinistra atipico, a un governo tecnico-politico di unità nazionale. Ed è proprio in una fase successiva alla sua prima implementazione che il tema degli effetti di riattivazione sociale dei beneficiari dati dalla misura ha iniziato ad essere visibile. Con il decreto del 22 ottobre 2019 sulla “Definizione, forme, caratteristiche e modalità̀ di attuazione dei Progetti utili alla collettività̀ (PUC)”, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali è infatti intervenuto in un certo senso a incentivare una de-individualizzarne dell’impatto del RDC attraverso una doppia logica: valorizzare in qualche modo la capacità di riattivazione sociale della misura di cash benefit, considerando le fragilità del disegno della policy originaria e i molti dubbi di efficacia sollevati dal sistema messo in piedi con l’ANPAL, i navigators e i centri per l’impiego; prevedere un impatto sociale e/o collettivo della misura che, attraverso il supporto del Fondo nazionale della povertà, assegnasse una maggiore funzione di intermediazione della spesa sociale realizzata attraverso il RDC sia ai soggetti istituzionali – comuni e ambiti territoriali – sia a quelli del privato sociale e del terzo settore.

I due tools immaginati per realizzare questa seconda fase della policy sono da un lato i PUC, dall’altro i Patti per l’inclusione sociale (PAiS), che partono sostanzialmente dal riconoscimento del basso impatto di utilità sociale/collettiva del RDC così come disegnato dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4. Proprio muovendo da quanto disposto dal decreto originario[1], l’articolo 2 comma 1 del Decreto 22 ottobre 2019 assegna ai comuni l’onere di attivare i PUC cui i beneficiari del RDC, fatte salve alcune esclusioni, sono obbligati a contribuire attraverso la stipula dei PAiS, salvo la perdita del beneficio. Partecipazione ai PUC che non instaura un rapporto di lavoro, né può – almeno formalmente – sostituire il lavoro svolto dalle burocrazie locali, mentre alla copertura degli oneri assicurativi dei “contributori di lavoro collettivo” verso l’INAIL, e a quelli di intermediazione istituzionale – anche condivisa con i soggetti del privato sociale – per la progettazione ed erogazione dei PUC provvede il Fondo nazionale per la povertà nell’ambito del PON, Programmazione 2014-2020, secondo le due note metodologiche della Direzione Generale per la lotta alla povertà e per la programmazione sociale del 1 agosto 2018 e del 17 settembre 2019 disciplinanti l’entità dei costi standard per le ore di lavoro collettivo degli aderenti ai PAiS.

Certo, è evidente che l’obiettivo di agire attraverso i PUC per ri-direzionare in itinere l’implementazione di una policy ibrida e asimmetrica come il RDC rischia di accentuare i limiti che emergono dall’uso del conditional cash transfer in politica sociale (Leone, 2017). Ma ciò che è interessante dei nuovi patti, è quanto poi disposto sempre dall’articolo 2 del Decreto dell’ottobre 2019 che procede a disegnare le modalità di ri-intermediazione della politica sociale operata attraverso il RDC, stabilendo che “l’amministrazione titolare dei PUC è il comune, che può avvalersi della collaborazione di enti del Terzo settore o di altri enti pubblici”, secondo modalità di progettazione, programmazione ed erogazione dei PUC. Il decreto sui PUC, infatti, auspica “il coinvolgimento degli Enti di Terzo Settore, come definiti dall’articolo 4, comma 1, del D. Lgs. 117/2017”, ovvero “organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, enti filantropici, imprese sociali, incluse le cooperative sociali, reti associative, società di mutuo soccorso, associazioni, riconosciute o non riconosciute, fondazioni e altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità̀ o di produzione o scambio di beni o servizi”.

La prima fase di programmazione e di attivazione dei PUC è stata regolata con un Decreto del Direttore generale del Ministero del 27 settembre 2019 finanziato con 250 milioni di euro. In fase di prima programmazione, le risorse vengono ripartite tra le regioni e le province autonome in 571 progetti avanzati da Comuni, Ambiti e Enti. I criteri di ripartizione delle risorse destinate ai PUC e ai PAiS individuano, ovviamente, una serie di parametri di differenziazione territoriale inclusi i costi standard del lavoro sociale, e soprattutto differiscono per l’incidenza territoriale della platea di beneficiari del RDC. Tra l’aprile del 2020 e il giugno del 2021 intervengono poi 29 decreti del Direttore generale del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ad approvare ad ammettere effettivamente a finanziamento i Progetti presentati dai Comuni, Enti capofila, ambiti.

Tabella 2. Ripartizione regionale dei fondi per i PUC e incidenza dei nuclei percettori di RDC (NFR) e degli Enti del Terzo Settore a livello regionale.

I dati sulla ripartizione dei fondi per i PUC sono quelli dell’Allegato 1 all’Avviso per i Piani di Inclusione Sociale 1/2019 a valere sul PON Inclusione (FSE 2014-2020) per la presentazione di progetti nell’ambito dei Patti per l’Inclusione Sociale, del 27 settembre 2019 cui è seguito il Decreto di ottobre 2019. Per beneficiari si intendono i nuclei percettori di RDC e Pensione di cittadinanza al febbraio del 2020 (INPS, 2020). I nuclei familiari sono al Censimento 2011 (ISTAT, 2011). Le elaborazioni sul RDC provengono da Vittoria (2020b). L’incidenza territoriale del terzo settore (ETS*NFR) è calcolata come il numero complessivo di dipendenti regionali sul numero di beneficiari, ovvero come il dipendente/volontario a beneficiario a livello regionale. I dati sono quelli del Censimento Permanente (ISTAT, 2018).

Come evidenzia la Tabella 2, il primo dato interessante è quello sulla quota di ripartizione regionale dei fondi per i PUC. In ragione dei criteri indicati per la presentazione dei progetti, nel quintile delle regioni che ricevono una percentuale maggiore di fondi destinati ad enti, consorzi, comuni capofila per l’attivazione dei progetti ci sono quelle in cui l’incidenza del RDC è più alta, fatta eccezione per la Basilicata (6,61%) che seguirebbe in teoria la Sardegna (10%). Queste cinque regioni sono le stesse che presentano, peraltro, un impatto relativo maggiore della povertà relativa (ISTAT 2019). Per quattro di queste è anche, tuttavia, meno forte la presenza organizzata del terzo settore, o meglio in cui è più bassa l’incidenza di soggetti del terzo settore a nucleo percettore della misura (ETS*NFR).

In sostanza, almeno in potenza una parte consistente dei PUC programmati per stimolare gli effetti “de-individualizzati” del RDC, dalla riattivazione sociale dei percettori all’impatto sociale della misura di cash benefit, si concentra – coerentemente – nelle regioni più povere che sono però anche quelle in cui il tessuto pre-istituzionale di supporto al bisogno e di stimolo all’integrazione sociale costituito dal terzo settore (cooperative, imprese sociali, ETS in generale) è meno robusto e fitto. Un elemento che forse indica qualcosa sulla potenzialità dei PUC come policy-su-policy di provocare una re-intermediazione dell’impatto sociale del RDC, agendo sul lato della sussidiarietà e coinvolgendo, dunque, maggiormente la prossimità istituzionale verticale (enti, consorzi, comuni) e quella orizzontale (il terzo settore) nella implementazione della policy.

Il dubbio che questo primo ciclo di programmazione dei PUC possa effettivamente incentivare una implementazione più larga e sociale della politica realizzata con il RDC è plasticamente raffigurato dal primo e dall’ultimo quintile – rispettivamente in neretto ed in grigio nella Tabella 2 – delle regioni per quota di finanziamento ricevuta.

Nel quintile superiore si trovano Sicilia, Campania, Puglia, Calabria e Basilicata, che programmano il futuro uso nei PUC di questa quota di finanziamento sostanzialmente concentrandola in progetti dal budget mediamente alto – dal 1.2 milioni di euro della Sicilia agli 811 mila della Puglia – assegnati prevalentemente a comuni, e non sempre “grandi” comuni, o agli Ambiti territoriali. Una scelta che può che in parte muove dalla consapevolezza di queste regioni di non possedere quella diffusa infrastruttura istituzionale pronta a programmare, progettare, gestire un rilevante flusso di spesa sociale, scegliendo di federare i comuni o le realtà minori. E tuttavia, di contro tale scelta riduce almeno potenzialmente la capacità dei PUC di scendere, anche istituzionalmente, in prossimità, e trova molte contraddizioni – come si vedrà – nel modo in cui tali regioni scelgono di concentrare progetti ad alto budget in enti di modeste dimensioni, ma anche nel modo in cui i primi bandi di esecuzione dei PUC tendono ad escludere il coinvolgimento dei soggetti del terzo settore dal ciclo di progettazione ed erogazione, accogliendo molto poco l’indicazione a implementare la policy sul lato della sussidiarietà verticale, quasi per nulla su quello orizzontale. Anche solo qualche caso può essere esemplificativo al riguardo. Come i comuni di Agira (circa 4.000 abitanti) e Sant’Agata di Militello (12.000) che fanno da capofila a due progetti PUC rispettivamente di 462 mila e di 710 mila euro, o come il comune di Rapolla in Basilicata, che con i suoi 4.400 abitanti censiti fa da capofila ad un progetto di 1.756.633 euro. Stesso ragionamento può valere per il Comune di Caulonia in Calabria (7.000 abitanti circa e un progetto di 1.139.838 euro), o di Casaluce in Campania (9.999 abitanti e 1.837.259 euro), sebbene sia la Campania che la Puglia almeno distribuiscano i progetti in maniera meno concentrata e soprattutto proporzionandoli almeno in parte al rango istituzionale dei comuni. Si tratta, peraltro, spesso di enti e realtà territoriali in cui l’incidenza relativa dei nuclei percettori di RDC è piuttosto contenuta, a fronte di cinque regioni – e soprattutto delle meno urbanizzate – che ricevono un budget pro-capite per la riattivazione di percettore di RDC di ben 921,88 euro in Basilicata e di 441,25 euro in Calabria.

Per le regioni che ricevono più fondi PUC, sembra porsi dunque un doppio tema rispetto all’obiettivo di re-intermediazione della spesa sociale collegata al RDC. Quello di enti piccoli, istituzionalmente non sempre infrastrutturati, chiamati a gestire budget consistenti e a programmare/erogare un pezzo di politica sociale che intende riattivare socialmente i beneficiari di RDC spesso non ricercando la co-progettazione con il terzo settore, tra l’altro meno vivace in queste regioni. Temi che, ovviamente, incrociano quello più grande e complesso dei modelli e/o tradizioni territoriali di governance della funzione socioassistenziale.

All’opposto, nel quintile inferiore, c’è un cluster di regioni assai eterogeneo. Da un lato, due regioni meridionali di frontiera, come l’Abruzzo e il Molise, attraversate dal tema della povertà soprattutto interna e con una incidenza medio-alta di percettori di RDC, che, come le altre regioni del Sud, presentano un tessuto di privatismo sociale poco sviluppato, ma scelgono però di distribuire in maniera diversa i fondi PUC: su piccoli progetti commisurandoli al rango istituzionale degli enti l’Abruzzo, accentrando in 7 grandi progetti il Molise; il primo, emulando un modello di programmazione simile ad alcune regioni del Centro-Nord (Emilia-Romagna o Marche), ma senza avere quella capacità istituzionale territoriale diffusa, né quel tessuto civile forte, il secondo, il Molise, più contiguo ad un modello come quello lucano o calabrese. Poi, la Liguria, che sembra essenzialmente seguire il modello abruzzese. Infine, due regioni che ricevono una quota relativa minore di fondi destinati ai PUC – ma una quota alta pro-capite – cioè il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta. Due regioni a statuto speciale del Nord molto ricche, con modelli sociali regionali performanti, una fortissima tradizione e realtà del terzo settore - e nel caso del Trentino esperienze di governance comunitarie molto consolidate (Fontanari et al., 2021), e che scelgono sostanzialmente di centralizzare la prima programmazione a livello di regione/provincia autonoma, vista anche la esiguità del territorio, la qualità istituzionale locale, il modello sperimentato di welfare regionale.

Attualmente, gran parte dei 571 progetti finanziati a livello nazionale dall’Avviso 1/2019 sui PAiS è in fase di approvazione da parte di comuni ed enti, e non è possibile restituire una misura sistematica di come questi stiano provvedendo o meno a stimolare una lettura più concertata e sussidiaria dell’implementazione della policy di RDC. E tuttavia, è significativo riportare alcune tendenze. Solo per guardare ad alcuni casi, ovvero ad un solo piano attuato da comuni o enti regionali, il più vicino per finanziamento concesso alla media del costo dei PUC regionali (Tabella 2), si può osservare come, ad esempio, i progetti selezionati da due regioni del primo quintile – Calabria e Basilicata – non prevedano il coinvolgimento del terzo settore, mentre in tre regioni del secondo quintile, in questo caso Liguria e Abruzzo, abbiano approvato una programmazione comunale/di ambito del PUC ricorrendo al terzo settore, ovviamente secondo le procedure di trasparenza e accesso previste dal decreto sui PUC e dalla norme in generale.

Sono solo quattro casi a campione non rappresentativo – sono i più vicini per finanziamento alla quota media dei PUC regionale – e tuttavia dicono qualcosa. Il progetto del Comune di Rende, in Calabria, approvato nel dicembre del 2020 e per un budget di 952.467 euro, è sviluppato essenzialmente per potenziare il segretariato sociale e i servizi sociali dell’amministrazione cittadina attraverso l’assunzione a termine di progettisti, mediatori, sociologi e assistenti sociali – spesso, si tratta di conferma di figure già operanti presso il Comune. L’obiettivo è quello di internalizzare a livello comunale il counseling per i beneficiari di RDC, con un budget si direbbe molto consistente. Stessa logica è seguita dal provvedimento adottato dall’ente capofila di un progetto di 1.067.455 euro, il Comune montano di Irsina nella provincia di Matera di 4.547 abitanti, che nel marzo del 2021 apre un bando per assistenti sociali e psicologi in forza al comune. Diversamente, il Comune di Avezzano impegna parte dei 734.451 euro di budget aprendo un bando rivolto ai soggetti del terzo settore – le tipologie di ETS individuate dall’art. 5 del Codice – per contribuire all’erogazione di piani individualizzati di reinserimento sociale dei beneficiari del RDC, stanziando una quota di rimborso all’ETS per percettore seguito, mentre la programmazione del Comune di Imperia in Liguria, sceglie la stessa logica ma di affidamento mirato alle cooperative sociali, programmando l’impegno dei 92.557 euro di budget – cifre ben più contenute – nella co-progettazione e poi erogazione dei piani individuali di attivazione sociale dei beneficiari.

Si tratta, insomma, solo di indicazioni iniziali ma interessanti, e tuttavia il meccanismo di ri-socializzazione (o de-individualizzazione) degli effetti del RDC immaginati attraverso la programmazione dei PUC mostrano alcune tendenze. Nelle regioni, o territori, con più alta qualità istituzionale (Nifo, Vecchione, 2015) e maggior radicamento dei soggetti del privato sociale, vi è una maggiore tendenza a coinvolgere nella fase di progettazione e poi erogazione, attraverso gli enti locali capofila, il terzo settore. Insomma, una parte della politica sociale viene reintermediata e risocializzata agendo sul lato della sussidiarietà soprattutto orizzontale. Diversamente, e soprattutto nelle regioni meridionali a maggiore incidenza del RDC, parte maggioritaria dei fondi previsti dal PON Inclusione vengono ri-centralizzati negli enti locali, e programmati per il rafforzamento delle competenze nei servizi sociali di questi, in progetti non sempre e non esclusivamente rafforzativi del ciclo di inclusione e re-placement dei beneficiari, dando l’impressione che le risorse possano funzionare – ancora, si direbbe – come ammortizzatore salariale-occupazionale.

Conclusioni

La politica sociale del reddito, strumento assolutamente prezioso per la sostenibilità sociale della povertà e dell’esclusione, sembra rivelare alcune criticità sia effettive che prospettiche. Queste ultime sembrano mutuate dalla matrice della politics income-based – un debole substrato demercificante, la cittadinanza come idea sociale o naturale – che presenta, potenzialmente, il rischio che con il rafforzarsi della centralità delle politiche basate sul trasferimento di reddito si riproducano, sul lungo periodo, i tratti antisociali e individualistici dell’idea di reddito di base o sociale.

L’introduzione prima del REI e poi di una misura nazionale generalista – e finanziariamente sostenuta – come il RDC hanno rappresentato, certamente, una novità positiva per il modello sociale italiano. Per limiti intrinseci del disegno di policy, e in parte per il ciclo di implementazione che il legislatore ha previsto per l’ultima di queste misure, il RDC non è sfuggito però alla trappola dell’individualizzazione della politica sociale. E, come mostrano anche solo i primi dati, il tentativo di re-intermediare la policy attraverso una implementazione più condivisa nel senso della sussidiarietà verticale e orizzontale mediante la programmazione dei Progetti di utilità collettiva (PUC) non pare, almeno per ora, sia stato capace di stimolare adeguatamente il coinvolgimento del Terzo Settore, se non limitatamente ad alcune regioni e contesti, appunto a specchio delle capacità istituzionali e del tessuto sociale diversificato nel nostro Paese.

Stimolando la sussidiarietà verticale, o quella orizzontale, la logica dei navigators pare si stia replicando anche in questa seconda fase di implementazione del RDC, che, come per la prima (Vittoria, 2020b), funziona come una policy ibrida, lasciandosi plasmare dalle priorità socioeconomiche e dai meccanismi di governo del sociale territoriali. Una policy che si schiaccia sulla logica del reddito, azionando meccanismi di distribuzione di micro-opportunità di reddito a diversi livelli – dal percettore al counseler del percettore – più che una politica di investimento nel tessuto e nella coesione sociale, intermediata e collettiva.

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Note

  1. ^ Il quale condiziona l’erogazione del beneficio (RDC) alla dichiarazione di immediata disponibilità̀ al lavoro o ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inclusione sociale, e che ancora al comma 2 definisce le modalità̀ di tale percorso individuando i beneficiari tenuti all’obbligo e le modalità di relazione con i Centri per l’impiego e i servizi dei comuni competenti per la sottoscrizione dei Patti per l’inclusione sociale, e infine al comma 15 stabilisce l’obbligo per il beneficiario di partecipazione a progetti di titolarità̀ dei comuni utili alla collettività (in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni) non inferiori a otto ore settimanali e aumentabili fino a sedici ore.
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