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ISSN 2282-1694
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Numeri

Quando si parla di numeri

Redazione

Le cooperative sociali prima e durante il Covid-19

Giuseppe Giulio Calabrese, Greta Falavigna

Startup innovative a vocazione sociale

Alessandro Laspia, Davide Viglialoro, Giuliano Sansone, Paolo Landoni

La complessità del sistema sanitario e assistenziale

Eddi Fontanari

Organizzazione

Le imprese sociali e la loro organizzazione

Redazione

Il contratto di rete tra cooperative sociali

Sara Depedri

Age-management nella cooperazione sociale

Giuseppe Guerini, Emmanuele Massagli, Maria Sole Ferrieri Caputi, Michele Dalla Sega

Le politiche

L’impresa sociale, un pilastro per le politiche

Redazione

Imprese sociali e rigenerazione urbana

Andrea Bernardoni, Massimo Cossignani, Daniele Papi, Antonio Picciotti

Terzo settore e reddito di cittadinanza

Armando Vittoria

Recensioni

Oltre la solidarietà

Federico Creatini

Numero 3 / 2021

Editoriale

Trent’anni di 381: una incompiuta di successo

Felice Scalvini

A novembre la 381 compie trent’anni ed è momento di bilanci. Per quanto mi riguarda il periodo è più lungo, quasi quarant’anni, perché fu nella primavera del 1982 che curai la redazione del primo Disegno di Legge, poi presentato nell’estate a un seminario della Fondazione Zancan per un primo confronto e infine depositato in parlamento dall’on. Salvi nel settembre successivo (lo si trova pubblicato nel numero 6/1992 di Impresa Sociale). Parto da questa notazione personale perché il percorso che precedette l’approvazione della legge è, a mio parere, decisivo per comprendere ciò che si sviluppò in seguito e quindi per poter esprimere valutazioni equilibrate.

Infatti, la 381 risultò essere il frutto di un compromesso tra due visioni cooperative (e sociali), che si confrontarono per quasi dieci anni, prima di arrivare a trovare un punto d’equilibrio che il Parlamento fece proprio. Vigeva infatti a quei tempi una sorta di principio non scritto, ma effettivo, per cui qualsiasi provvedimento in materia di cooperazione doveva vedere il consenso delle due più grandi Centrali Cooperative, che avevano come principali riferimenti la Democrazia Cristiana (Confcooperative) al Governo, e il Partito Comunista (Legacoop) all’opposizione. Seppur su una serie di innovazioni normative di carattere generale vi fosse condivisione, sul fenomeno nascente della presenza cooperativa nell’ambito dell’intervento sociale i punti di vista su come si dovesse intervenire per riconoscerlo e sostenerlo erano, agli inizi degli anni ’80, piuttosto distanti.

Da un lato Confcooperative aveva accolto al proprio interno le realtà della cooperazione di solidarietà sociale per le quali il vincolo mutualistico – che, come costantemente ribadivano ispettori ministeriali e tribunali, imponeva l’esercizio di attività ad esclusivo vantaggio dei soci – risultava essere una insostenibile e ingestibile camicia di forza. Ad ispirare questa nuova generazione di cooperatori era un istinto altruistico e comunitario. Basi sociali piuttosto composite e originali (volontari, operatori sociali, famiglie di disabili, finanziatori) si aggregavano partendo da interessi e aspettative diversi, coagulandosi intorno all’obiettivo di proiettare all’esterno della compagine sociale i vantaggi principali generati dall’attività collettiva di imprenditoria sociale. Il disegno che si andava chiarendo era quello di proporsi come nuove organizzazioni capaci, attraverso una forma di autogestione, di offrire alle comunità locali la possibilità di rispondere ai propri bisogni sociali. Eventualmente in alleanza con le pubbliche amministrazioni, ma non al loro servizio.

Diverso era l’approccio sostenuto in Legacoop, per la quale il futuro doveva essere rappresentato da una espansione del welfare pubblico, che però avrebbe avuto sempre più bisogno di ingaggiare al proprio servizio organizzazioni imprenditoriali in grado di gestire al meglio la forza lavoro necessaria. E quale forma migliore di quella cooperativa, per la quale sono i soci-lavoratori a gestire l’attività? Secondo questo approccio non c’era bisogno né di modificare la governance né di rompere la struttura mutualistica dell’impresa, che doveva restare limitata agli operatori sociali, al punto che veniva visto con preoccupazione e sospetto il protagonismo dei volontari, in quanto possibile causa di conflitti tra interessi diversi e, nella peggiore delle ipotesi, portatori di improprie forme di competizione al ribasso coi lavoratori. L’obiettivo principale era dunque consolidare la cooperazione di lavoro sociale, creandole un canale privilegiato con le amministrazioni pubbliche in ragione della funzione sociale che comunque caratterizza la cooperazione rispetto alle altre imprese.

Quindi, mentre da un lato si puntava a rompere lo schema mutualistico e a orientare le nuove cooperative in senso più solidaristico per creare una nuova forma di cooperazione di comunità, dall’altro, proprio l’impianto mutualistico veniva ribadito come un elemento di garanzia e tutela per i lavoratori.

Questo confronto di due visioni segnò tutto il percorso legislativo e se ne trova traccia evidente nel succedersi dei disegni di legge, delle discussioni parlamentari e delle bozze di lavoro prodotte dal 1982 al 1990. A ciò va aggiunto che, mentre nel mondo Confcooperative era forte la pressione della base associativa per costruire le specificità della nuova forma di cooperazione, non altrettanto avveniva entro Legacoop. Ne è prova il fatto che l’articolazione organizzativa specifica – Federsolidarietà – nacque entro Confcooperative nel 1988, mentre in Legacoop si dovrà attendere il 2005 per la nascita di Legacoopsociali.

Ho già narrato in altra occasione (Buon lavoro. Le cooperative sociali in Italia: storie, valori ed esperienze di imprese a misura di persona, Altraeconomia, Milano, 2011) come la chiusura del defatigante confronto fu dovuto all’allora ministro del lavoro Carlo Donat Cattin, che di fatto impose alle Centrali un’agenda legislativa con al primo punto la cooperazione sociale e gli altri a seguire, a patto che il primo fosse chiuso. Fu così che si arrivò ad un negoziato vero che – come di norma i negoziati – portò a soluzioni di compromesso.

Ed il compromesso fu quello di una legge che abilitò, ma non prescrisse, una nuova forma di cooperazione. Una forma di cooperativa comunitaria, proiettata verso le situazioni di bisogno esterne alla compagine sociale divenne così legittima, ma senza che fosse definita una struttura vincolata di partecipazione e governance tale da garantire questa apertura all’esterno imponendo una configurazione multi-stakeholder (come poi fecero dieci anni dopo i francesi con le SCIC). Emblematico tra tutti è il tema della presenza dei volontari nella compagine sociale, riconosciuta come possibile con un articolo ad hoc (art. 2), ma entro limiti precisi (il 50% dei soci) e con una partecipazione alle eventuali attività socioassistenziali convenzionate “in misura complementare e non sostitutiva rispetto ai parametri di impiego di operatori professionali…”. Per comprendere la questione va ricordato che il testo originale del Disegno di Legge Salvi prevedeva l’obbligatorietà della presenza di volontari nella base sociale quale elemento strutturale delle nuove cooperative, a garanzia di un approccio orientato all’interesse generale.

La coerenza con l’impianto definitorio dell’art. 1, che assegna alla cooperativa sociale lo scopo di “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana dei cittadini” risultò così affidata alle scelte compiute dalle compagini sociali nella redazione degli statuti. Personalmente confidavo molto nell’azione di orientamento che le organizzazioni di rappresentanza e di supporto avrebbero potuto compiere per favorire scelte ispirate ad una visione comunitaria. Gli anni Novanta di Federsolidarietà e di CGM sono tutti segnati da questo sforzo di proposta e promozione di approcci imprenditoriali capaci di integrare le risorse della comunità per rispondere ai bisogni della comunità stessa, e la rivista Impresa Sociale fu uno degli strumenti principali per la trasmissione di idee, contenuti, proposte.

La 381 peraltro garantiva un regime fiscale, previdenziale e di riconoscimento istituzionale che non aveva (e ancor oggi non ha) eguali nell’ambito del terzo settore impegnato nella produzione di servizi sociali, educativi e di inserimento lavorativo. Naturale quindi che il sistema di opportunità ed incentivi divenisse attraente sia per coloro che volevano impegnarsi nell’offerta di questi servizi, che per le amministrazioni pubbliche che potevano garantirli senza assumersi impegni organizzativi, semplicemente delegandoli alle nuove cooperative. Fu così che si avviò una storia imprenditoriale unica nella vicenda economica e sociale non solo del nostro Paese. Una storia che ha portato oggi ad avere oltre 15 mila imprese con quasi mezzo milione di addetti, ma che risulta segnata profondamente da una polarizzazione, ormai non più riconducibile a Confcooperative e Legacoop, ma trasversale ad ambedue. Il confronto è tra le realtà che mantengono forte un ancoraggio all’art. 1, coi suoi riferimenti all’interesse generale e alla comunità, considerandolo la stella polare da seguire nello sviluppo dell’attività, e le realtà che invece, come si usa dire, sono impegnate a “fare impresa”, ricercando principalmente crescita dimensionale ed economica in un regime di forte competizione, anziché porsi al servizio direttamente delle comunità locali e dei loro cittadini. Approccio questo peraltro promosso con straordinaria – e miope – determinazione dalle pubbliche amministrazioni con la politica delle gare per l’assegnazione degli appalti.

A trent’anni dalla promulgazione della 381, la cooperazione sociale presenta dunque – a parer mio – un bilancio in chiaroscuro. Un bilancio fatto di un formidabile successo nello sviluppo dei servizi e nella affermazione dell’approccio imprenditoriale alle attività di welfare, ma spesso troppo orientato a soddisfare le richieste della pubblica amministrazione. Quindi una cooperazione sociale non altrettanto efficace nella diffusione generalizzata di forme di impresa comunitaria in grado di coagulare le risorse di un territorio in modo equilibrato, dinamico ed efficiente per rispondere ai bisogni dei cittadini tutti, in particolare quelli più bisognosi.

È questo però un tema che nel nuovo scenario determinato del Codice del Terzo settore la cooperazione sociale, oggi riunita nella struttura unitaria della Alleanza Cooperativa Italiana, ha la possibilità di riprendere con rinnovata determinazione. L’art. 55 offre infatti una straordinaria opportunità per uscire dalla trappola del sistema concorrenziale imposto dalla PA e recuperare formule imprenditoriali profondamente integrate con le comunità di riferimento. Potendo contare sull’esempio e sull’esperienza delle numerose realtà che in questi anni hanno comunque operato in questo modo, spesso ottenendo anche ottimi risultati sul piano imprenditoriale. Una nuova stagione dunque si apre. Si apre forse una stagione che potrà portare la cooperazione sociale tutta ad essere ciò che quarant’anni fa, quando iniziò il proprio percorso, sognavamo potesse essere. Uno strumento di profonda trasformazione del nostro Paese nel segno della solidarietà e di un nuovo modo di fare impresa.

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