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ISSN 2282-1694
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Numeri

Quando si parla di numeri

Redazione

Le cooperative sociali prima e durante il Covid-19

Giuseppe Giulio Calabrese, Greta Falavigna

Startup innovative a vocazione sociale

Alessandro Laspia, Davide Viglialoro, Giuliano Sansone, Paolo Landoni

La complessità del sistema sanitario e assistenziale

Eddi Fontanari

Organizzazione

Le imprese sociali e la loro organizzazione

Redazione

Il contratto di rete tra cooperative sociali

Sara Depedri

Age-management nella cooperazione sociale

Giuseppe Guerini, Emmanuele Massagli, Maria Sole Ferrieri Caputi, Michele Dalla Sega

Le politiche

L’impresa sociale, un pilastro per le politiche

Redazione

Imprese sociali e rigenerazione urbana

Andrea Bernardoni, Massimo Cossignani, Daniele Papi, Antonio Picciotti

Terzo settore e reddito di cittadinanza

Armando Vittoria

Recensioni

Oltre la solidarietà

Federico Creatini

Numero 3 / 2021

Numeri

La complessità del sistema sanitario e assistenziale in Italia. Una pluralità di modelli organizzativi

Eddi Fontanari

Introduzione

In quest’ultimo periodo la sanità e il suo intero sistema organizzativo così come le reti territoriali di protezione e assistenza sociale sono al centro del dibattito pubblico e politico (Falzone, 2020; Maino, 2020; Tidoli, 2020). La riflessione si sta soffermando in particolare sui tagli portati nel tempo alla spesa sanitaria, che avrebbero causato una serie di inefficienze tradottesi a loro volta nell’incapacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni sanitari e assistenziali causati dallo scoppio della pandemia (Vella, 2019; Bernardoni, 2021). Secondo la maggior parte dei commentatori, alla base di questa situazione ci sarebbe l’applicazione sistematica al sistema sanitario del principio di razionalità e di minimizzazione dei costi realizzato attraverso tagli orizzontali della spesa. Il tutto giustificato dalla necessità di evitare situazioni di disavanzo nei conti pubblici e il conseguente appesantimento del debito pubblico (Cartabellotta et al., 2019).

Di fronte all’attuale situazione di particolare gravità dettata dall’emergenza sanitaria Covid-19, i capisaldi che hanno guidato finora l’agenda politica sembrano tuttavia venir meno così come sono messe in discussione le scelte compiute in passato alla base dell’indebolimento della struttura sanitaria e assistenziale, soprattutto a livello territoriale. Scelte che hanno portato ad un depotenziamento significativo della medicina territoriale, improntando il concetto di sanità esclusivamente sui servizi ospedalieri “riparatori” e trascurando da un lato l’importante azione di prevenzione e non prevedendo dall’altro un adeguato supporto/accompagnamento del paziente nel post-intervento (dimissioni) (Galera, 2020).

Questa condizione è frutto della sopra richiamata logica di razionalizzazione dei costi che ha costruito e permeato il sistema sanitario nazionale sull’individuazione e la definizione di centri (ospedalieri) d’eccellenza prevalentemente di natura for profit (cliniche private convenzionate) e diffondendo sistemi e logiche premiali aziendalistiche anche presso le strutture pubbliche. Tali orientamenti hanno determinato – soprattutto in alcune regioni – una centralizzazione della sanità in pochi poli lasciando scoperte le aree periferiche e promuovendo un concetto di cura (riparatoria) che avviene e si consuma nei servizi ospedalieri e che di conseguenza mette in secondo piano la parte di prevenzione/assistenza territoriale (Casula et al., 2020).

La segmentazione della filiera sociosanitaria e gli incentivi distorsivi che sono stati introdotti hanno portato poi ad un declassamento della sanità pubblica con una preferenza – per tutti coloro che ne hanno la possibilità (di spesa) – per le cliniche private, che a loro volta sono solite specializzarsi nelle attività più remunerative (e non in quelle più funzionali: vedi carenza terapie intensive). Ciò che manca è quindi la presenza di un sistema sanitario e assistenziale integrato caratterizzato da una logica di collaborazione e co-progettazione tra attori diversi (privato for profit, privato non profit e pubblico) (Galera, Pisani, 2021).

Proprio alla luce della necessità di un ripensamento e di una riorganizzazione in Italia dell’offerta di servizi sociosanitari (RBM-Censis, 2021), assume una certa importanza proporre un’analisi che approfondisca da un punto di vista economico-quantitativo gli attori che vi operano prestando particolare attenzione alla forma d’impresa.

Diversamente dalle analisi tradizionali, in questo lavoro non si guarderà infatti (esclusivamente) alla spesa, ovvero al lato della domanda, bensì si cercherà di focalizzare l’attenzione sul lato dell’offerta, ossia delle imprese che prestano i servizi sanitari e assistenziali, analizzandone la capacità di produrre valore (redditi) necessario a remunerare i fattori produttivi coinvolti e a rendere l’attività economica (d’impresa) sostenibile. Sulla base di questo approccio, la variabile principalmente indagata sarà perciò il valore aggiunto, ovvero la differenza tra i ricavi registrati e i costi (intermedi) sostenuti sul mercato per l’acquisto di materiali (si pensi ai dispositivi Covid) e/o di servizi, quali per esempio il supporto fornito dai liberi professionisti, per garantire la prestazione del servizio sanitario/socioassistenziale.

A tal proposito, per fornire una corretta e completa valutazione di questo particolare settore, risulta importante considerare non solo – come accade abitualmente – i servizi sanitari in senso stretto, ma anche l’attività di assistenza sociale e sociosanitaria, intesa come indispensabile presidio territoriale a sostegno della sanità (ospedali) e a vantaggio dei soggetti più deboli e vulnerabili. Quell’anello della catena che è sembrato mancare durante l’emergenza sanitaria, soprattutto nella fase più critica (se non nella fase preventiva), in grado di fare da ponte/filtro strategico tra gli ospedali e i malati.

Per questo motivo, l’analisi prenderà in considerazione l’intero settore “Sanità e assistenza sociale” così come definito dai Codici Ateco dell’Istituto nazionale di Statistica (Istat).

In questo contesto, appare particolarmente utile prendere in considerazione la complessità e la pluralità, soprattutto da un punto di vista proprietario e di governance, delle strutture organizzative che presiedono in Italia il funzionamento del sistema sanitario e socioassistenziale nazionale al fine di studiare le ripercussioni economiche di tale pluralità. In particolare, l’analisi che segue propone una riflessione sull’intero settore dal lato dell’offerta per mettere in luce le conseguenze della diversificazione imprenditoriale che in molti casi viene sottovalutata, ma che si ritiene possa produrre degli effetti e delle esternalità sull’intero sistema. Nello specifico, si intende approfondire la composizione del settore privato, andando quindi oltre la mera e semplice dualità pubblico-privato – inteso quest’ultimo come tutto orientato al profitto – e tenendo invece conto anche della presenza importante di una offerta di tipo cooperativo e non-profit altrettanto meritevole di approfondimento (Sacchetti, 2019). L’obiettivo è di contribuire a una più completa rappresentazione, anche ai fini di policy, del funzionamento del settore sanitario e socioassistenziale.

Sulla base di queste considerazioni, lo studio parte da una breve presentazione dal punto di vista economico della struttura del sistema sanitario e assistenziale italiano prestando particolare attenzione alla dimensione territoriale (regionale) e cercando di cogliere i legami tra valore aggiunto e spesa pubblica; successivamente, il focus si sposterà sulla dualità tra pubblico e privato con uno specifico approfondimento sul ruolo delle cooperative e delle imprese for profit, utile a verificare, in ultimo, le eventuali differenze di comportamento economico tra le due forme d’impresa, per trarre infine le conclusioni.

La differenziazione territoriale della sanità e assistenza sociale

Prima di studiare i differenti modelli organizzativi, è necessario partire dall’analisi della distribuzione e delle caratteristiche territoriali della sanità e assistenza sociale, tenendo presente che la rilevanza economica della prima risulta preponderante rispetto alla seconda sulla base di un rapporto 1:6. (Tabella 1).

Prendendo in considerazione l’anno statisticamente meglio coperto, il 2017, emerge innanzitutto come il settore abbia generato in Italia oltre 92 miliardi di euro di valore aggiunto[1], pari al 5,9% dei redditi generati complessivamente dal sistema economico nazionale. La maggior parte del valore è stata prodotta nel Nord-Ovest, con quasi il 30% (18,5% la sola Lombardia) e nel Sud del Paese con il 28,4%. A livello regionale, risultano invece di particolare rilevanza, dopo la Lombardia, i contributi di Lazio ed Emilia-Romagna, con rispettivamente un 10,5% e un 8,6% sul totale nazionale, e quelli di Piemonte e Veneto, prossimi all’8%. Tra gli apporti più bassi figurano la Valle d’Aosta, il Molise e la Basilicata, con percentuali inferiori all’1%.

Tabella 1. Valore aggiunto della sanità e assistenza sociale per regione. Anno 2017. Valori percentuali e in migliaia di euro. Fonte: elaborazioni proprie su dati Istat.

Regione

Valore aggiunto

v.a.

%

Liguria

2.722.700

2,9

Lombardia

17.141.500

18,5

Piemonte

7.158.400

7,7

Valle d’Aosta

233.000

0,3

Tot. Nord-Ovest

27.255.600

29,4

Emilia-Romagna

7.931.500

8,6

Friuli-Venezia Giulia

2.142.400

2,3

Trentino-Alto Adige

2.450.700

2,6

Veneto

7.373.300

7,9

Tot. Nord-Est

19.897.900

21,5

Lazio

9.767.000

10,5

Marche

2.261.300

2,4

Toscana

5.923.000

6,4

Umbria

1.323.400

1,4

Tot. Centro

19.274.700

20,8

Abruzzo

1.767.600

1,9

Basilicata

721.900

0,8

Calabria

2.425.200

2,6

Campania

6.577.300

7,1

Molise

470.200

0,5

Puglia

5.138.800

5,5

Sardegna

2.517.600

2,7

Sicilia

6.701.600

7,2

Tot. Sud

26.320.200

28,4

Italia

92.748.400

100,0


Ovviamente questi valori risentono della differenza dimensionale dei territori. Per disporre di un dato che tenga conto di questo aspetto è necessario rapportare il valore aggiunto alla popolazione di ciascuna regione. Operando in questo modo, si ottiene, sempre con riferimento all’anno 2017, un valore aggiunto pro-capite per l’intero settore sanitario e assistenziale nazionale di 1.537 euro (Figura 1). Il valore più elevato si registra nelle regioni Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta rispettivamente con 2.286 e 1.854 euro pro-capite, seguite da Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria e Lombardia con più di 1.700 euro.

In questo quadro, osservando le ripartizioni geografiche, a emergere sono il Nord-Est e il Nord-Ovest con un valore aggiunto pro-capite rispettivamente di 1.708 e 1.694 euro. Diversamente, il Sud rappresenta il fanalino di coda con un valore medio inferiore ai 1.300 euro; le uniche eccezioni riguardano la Sardegna con 1.536 euro e il Molise con 1.539 euro. Il valore più basso spetta invece alla Campania con 1.134 euro, seguita da Calabria, Puglia e Basilicata rispettivamente con 1.246, 1.275 e 1.283 euro pro-capite.

Figura 1. Valore aggiunto pro-capite della sanità e assistenza sociale per regione. Anno 2017. Unità di euro. Fonte: elaborazioni personali su dati Istat.

Risulta ora interessante richiamare la spesa delle amministrazioni per i consumi finali in sanità e protezione sociale[2] (la domanda di servizi sanitari e assistenziali) per poi collegarla ai dati sul valore aggiunto appena presentati (lato offerta). Da questo punto di vista, ovvero guardando al lato della domanda, emerge che in Italia nel 2017 la spesa sanitaria e assistenziale pubblica è stata intorno ai 128 miliardi di euro, ovvero pari a 2.118 euro per abitante (Figura 2).

Figura 2. Spesa della pubblica amministrazione per consumi finali in sanità e protezione sociale per regione. Anno 2017. Unità di euro. Fonte: elaborazioni proprie su dati Istat.

Approfondendo ulteriormente il valore pro-capite a livello territoriale, si conferma una maggior spesa pubblica nell’area nord-orientale (2.186 euro pro-capite) e nord-occidentale (2.141 euro pro-capite), anche se in questo caso con valori prossimi a quelli di Centro (2.130) e Sud (2.055). Per quanto riguarda le regioni, a mostrare i valori più elevati sono nuovamente il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta rispettivamente con 2.693 e 2.848 euro pro-capite e a seguire il Friuli-Venezia Giulia e la Liguria (2.546 e 2.369 euro), con l’aggiunta in questo caso della Sardegna (2.370). La spesa pubblica pro-capite più contenuta si ritrova invece prevalentemente nelle regioni meridionali, in particolare in Campania con 1.942 euro e in Sicilia, Calabria, Puglia e Abruzzo con valori poco superiori ai 2 mila euro.

A questo punto, un interessante indicatore di efficienza della spesa pubblica si ottiene rapportando le due variabili macroeconomiche appena descritte, ovvero rispettivamente il valore aggiunto e la spesa della pubblica amministrazione per consumi finali in sanità e protezione sociale. In particolare, attraverso questo indicatore è possibile definire, per ogni euro di spesa pubblica investito nella produzione del servizio sociosanitario, il coefficiente di reddito generato dal “processo produttivo” (valore della produzione – costi intermedi)[3] e destinato alla remunerazione dei fattori produttivi coinvolti. Un valore più elevato sta a significare una maggiore capacità di generare nuovi redditi e quindi un processo produttivo più efficiente. Per produrre un euro di servizi sociosanitari si presuppone infatti una struttura dei costi (ovvero i beni e servizi acquistati dalle altre branche) simile tra regioni. Di conseguenza, prendendo a riferimento come benchmark il dato medio nazionale, è possibile fornire una prima valutazione sulla capacità dell’intera branca sanità e assistenza sociale di generare valore (redditi) su scala territoriale.

Così facendo, si ha che il valore aggiunto medio prodotto a livello nazionale ogni 100 euro di spesa pubblica è di 72,5 euro (Figura 3). I valori più elevati si registrano al Nord-Ovest (79,1) e al Nord-Est (78,1), con le sole regioni Valle d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia caratterizzate da valori sotto la media, ovvero rispettivamente 65,1 e 69,2 euro. Al contrario, i dati regionali più elevati si rilevano in Trentino-Alto Adige e in Emilia-Romagna con 84,9 e 84,0 euro, seguiti da Lombardia con 81,1, Piemonte con 77,0 e Lazio con 78,0, l’unica regione estranea alle due macroaree più performanti. Diversamente, il Sud si caratterizza per il valore più basso, intorno ai 62,2 euro, con Campania (58,4), Basilicata (59,4), Calabria (60,9) e Puglia (61,4), a rappresentare i casi più emblematici. L’unica eccezione è data dal Molise, che presenta un valore prossimo ai 70 euro. A livello generale, le regioni meridionali si caratterizzano quindi per una spesa sanitaria e assistenziale pubblica non solo più contenuta ma anche meno efficiente.

Figura 3. Valore aggiunto generato ogni 100 euro di spesa della pubblica amministrazione per consumi finali in sanità e protezione sociale. Anno 2017. Unità di euro. Fonte: elaborazioni proprie su dati Istat.

Sanità e assistenza sociale: tra pubblico e privato

A fronte di queste differenze a livello territoriale, diventa interessante comprendere il ruolo svolto in ciascuna regione dalle due componenti, quella pubblica e quella privata e approfondire poi le differenze interne a quest’ultima e le possibili ripercussioni per l’intero comparto.

La peculiare natura (di interesse generale) della sanità e assistenza sociale è testimoniata dal ruolo predominante del pubblico, che genera, in media, a livello nazionale quasi l’84% (83,6%) del valore aggiunto settoriale (Tabella 2). Questa rilevanza si conferma in maniera trasversale alle macroaree, pur passando dall’80% del Nord-Ovest all’86% del Sud. In realtà, una incidenza particolarmente significativa si rileva anche nelle regioni settentrionali come, per esempio, in Liguria (90,1%) e in Trentino-Alto Adige (89,6%). La percentuale più elevata spetta tuttavia all’Abruzzo, con una quota del pubblico del 91,3%.

Dall’altro lato, risulta decisamente singolare il dato del Molise, con un peso delle imprese private sul valore aggiunto regionale della sanità e assistenza sociale di quasi un quarto (24,6%); incidenza che supera addirittura quella registrata in Lombardia, ferma al 22,0%, a sua volta seguita da Piemonte ed Emilia-Romagna rispettivamente con 20,0% e 19,6%. Da questo punto di vista, anche la Campania si presenta come un ulteriore outlier, con una quota del valore aggiunto privato sul totale settoriale del 17,8%, leggermente superiore a quella del Friuli-Venezia Giulia (17,6%) e del Lazio (17,3%).

Questi risultati risentono tuttavia del diverso grado di privatizzazione della sanità che – visto il suo peso specifico – incide particolarmente nella definizione della grandezza della componente privata del settore sociosanitario.

Tabella 2. Peso del settore pubblico e delle cooperative sul valore aggiunto della sanità e assistenza sociale per regione. Anno 2017. Valori percentuali. Fonte: elaborazioni proprie su dati Istat e Aida.

Regione

Peso pubblico

Peso coop su privato

Liguria

90,1

67,6

Lombardia

78,0

34,3

Piemonte

80,0

64,1

Valle d’Aosta

88,8

81,2

Tot. Nord-Ovest

80,1

44,6

Emilia-Romagna

80,4

64,1

Friuli-Venezia Giulia

82,4

50,8

Trentino-Alto Adige

89,6

73,6

Veneto

85,2

55,1

Tot. Nord-Est

83,5

60,3

Lazio

82,7

34,1

Marche

87,1

66,9

Toscana

87,6

57,5

Umbria

88,2

76,5

Tot. Centro

85,1

45,7

Abruzzo

91,3

57,8

Basilicata

90,8

62,9

Calabria

89,0

19,4

Campania

82,2

23,0

Molise

75,4

30,1

Puglia

84,3

38,8

Sardegna

88,7

64,0

Sicilia

87,8

37,8

Tot. Sud

86,0

35,0

Italia

83,6

45,9


Mantenendo l’attenzione sulle imprese private e prendendo in considerazione la forma d’impresa[4], emerge un peso specifico delle cooperative sul valore aggiunto del settore sanitario e assistenziale privato del 46%. La rilevanza economica delle cooperative risulta particolarmente significativa nel Nord-Est con una percentuale d’incidenza che supera il 60%, mentre nelle altre ripartizioni geografiche il peso della componente cooperativa scende sotto il 50% (intorno al 45% nel Nord-Ovest e Centro), segnando un 35% nel Sud Italia (Tabella 2).

Cionondimeno, le cooperative hanno generato più della metà del valore aggiunto del comparto sociosanitario privato in ben 13 regioni su 20; le percentuali più elevate si ritrovano in Valle D’Aosta, Umbria e Trentino Alto-Adige rispettivamente con 81,2%, 76,5% e 73,6%. Al contrario, gli apporti minori delle cooperative si registrano in Calabria (19,4%), Campania (23,0%), Molise (30,1%), Lazio (34,1%) e Lombardia (34,3%).

Traducendo queste percentuali di incidenza in valori pro-capite, si riesce a comprendere più chiaramente il ruolo di ciascuna forma d’impresa. In particolare, a livello nazionale emerge che le cooperative generano 115,9 euro per abitante contro 136,6 delle società di capitali e 1.284 euro del settore pubblico (Tabella 3). Per quanto riguarda quest’ultimo, il Nord-Est si posiziona nettamente sopra la media con 1.426 euro pro-capite (2.047 euro in Trentino-Alto Adige) rispetto a 1.365 euro del Centro e a 1.357 del Nord-Ovest e a poco più di mille euro del Sud (931,5 euro per la Campania). Sul fronte delle società di capitali il valore aggiunto pro-capite più elevato si registra nel Nord-Ovest con 186,2 euro per abitante contro i 129,7 del Centro e poco più di 116 di Nord-Est e Sud Italia. In quest’ultimo caso, come emerso in precedenza, il Molise rappresenta l’eccezione con un valore aggiunto pro-capite delle for-profit di quasi 265 euro, superiore anche ai 246,5 della Lombardia.

Infine, spostando l’attenzione sulle cooperative, il Nord-Est si distingue dal resto d’Italia per un valore aggiunto pro-capite prodotto da questa forma d’impresa intorno ai 170 euro e con dei picchi di 223,1 e 175,5 rispettivamente in Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige. A seguire si trova il Nord-Ovest con 150 euro per abitante e con dei valori interessanti espressi dalle cooperative piemontesi e valdostane con rispettivamente 210,2 e 168,6 euro. Risulta invece molto inferiore l’apporto pro-capite delle cooperative al Centro con poco più di 100 euro (109) e soprattutto al Sud con circa un terzo del valore aggiunto pro-capite generato da quelle nordorientali, eccezion fatta per Molise (114,2) e Sardegna (110,7).  

Tabella 3. Valore aggiunto pro-capite del settore pubblico, cooperative e società di capitali per regione. Anno 2017. Unità di euro. Fonte: elaborazioni proprie su dati Istat e Aida.

Regione

pubblico

cooperative

for profit

Liguria

1.582

118

56

Lombardia

1.328

129

246

Piemonte

1.315

210

118

Valle d’Aosta

1.646

169

39

Tot. Nord-Ovest

1.357

150

186

Emilia-Romagna

1.430

223

125

Friuli-Venezia Giulia

1.452

158

153

Trentino-Alto Adige

2.047

175

63

Veneto

1.281

122

100

Tot. Nord-Est

1.426

169

112

Lazio

1.374

98

189

Marche

1.291

128

63

Toscana

1.392

113

83

Umbria

1.323

136

42

Tot. Centro

1.365

109

130

Abruzzo

1.231

68

49

Basilicata

1.165

74

44

Calabria

1.109

27

110

Campania

931

47

156

Molise

1.160

114

265

Puglia

1.075

78

122

Sardegna

1.363

111

62

Sicilia

1.177

62

102

Tot. Sud

1.099

63

116

Italia

1.284

116

137

La componente privata: struttura ed evoluzione di cooperative e società di capitali

Arrivati a questo punto, rimane da capire se la differente struttura proprietaria e di governance sottostante al funzionamento delle imprese cooperative rispetto alle società di capitali possa dar luogo a comportamenti economici differenti tanto nella creazione e distribuzione del valore (redditi), quanto nella crescita dell’impresa e quindi dal punto di vista finanziario e degli investimenti.

Partendo dal primo aspetto, l’analisi dei dati economici derivati dai bilanci di esercizio mostrano dei coefficienti di valore aggiunto, ovvero di nuovi redditi prodotti attraverso le attività d’impresa per ogni euro di fatturato (valore della produzione), decisamente superiori nelle cooperative per tutti gli anni considerati con in media più di 20 punti percentuali di differenza rispetto alle imprese for profit (Tabella 4).

Tabella 4. Coefficiente di valore aggiunto ogni 100 euro di valore della produzione di cooperative e società di capitali nella sanità e assistenza sociale. Anni 2009 – 2018. Unità di euro. Fonte: elaborazioni personali su dati Aida Bureau Van Dijk.



Questo differenziale non trova spiegazione nella maggiore concentrazione delle cooperative nel settore dell’assistenza sociale (pari al 93,6% del valore aggiunto prodotto dalle coop nella sanità e assistenza sociale) rispetto alle società di capitali (12,8%), maggiormente attive nei servizi sanitari (pari all’87,2% del valore aggiunto prodotto dalle for profit nella sanità e assistenza sociale), visto che anche in questo settore permane la differenza a vantaggio delle cooperative (59,2% di coefficiente di valore aggiunto contro il 40,1% delle for-profit nell’anno 2017).

Questa difformità tra le due forme d’impresa influenza anche le modalità di distribuzione del valore, favorendo nelle società di capitali una maggiore remunerazione del capitale investito attraverso la generazione di un residuo finale (utile) più elevato (tab. 5), a fronte di una quasi totale destinazione dei nuovi redditi prodotti dalle cooperative al fattore lavoro (tab. 6). Nello specifico, risulta di particolare interesse notare come la percentuale di utile nelle cooperative sia rimasta pressoché costante nel corso del tempo, mentre nelle società di capitali si è assistito a una crescita del residuo finale (rispetto al valore aggiunto generato) a partire dal 2015 con una quota che negli ultimi due anni (2017 e 2018) è praticamente raddoppiata rispetto al periodo precedente (2009-2014).

Tabella 5. Utile d’esercizio sul valore aggiunto generato da cooperative e società di capitali nella sanità e assistenza sociale. Anni 2009 – 2018. Valori percentuali. Fonte: elaborazioni personali su dati Aida Bureau Van Dijk.



Tabella 6. Valore aggiunto distribuito al fattore lavoro di cooperative e società di capitali nella sanità e assistenza sociale. Anni 2009 – 2018. Valori percentuali. Fonte: elaborazioni personali su dati Aida Bureau Van Dijk.



Osservando i valori assoluti è inoltre possibile notare come nell’ultimo anno disponibile (2018), l’ammontare di utile delle cooperative abbia superato di poco gli 80 milioni di euro a fronte degli oltre 600 delle società di capitali pari rispettivamente allo 0,06% e allo 0,49% della spesa pubblica nel settore sociosanitario. Tale differenza risulta particolarmente significativa vista la sostanziale equi-ripartizione tra le due forme d’impresa del valore aggiunto prodotto complessivamente dalla componente privata. A tal proposito, se si guarda alla distribuzione regionale dell’utile conseguito dalle for profit spiccano le percentuali di Molise, Lombardia e secondariamente quelle di Calabria e Campania.

Tabella 7. Utile di cooperative e società di capitali in rapporto alla spesa pubblica in sanità e protezione sociale e al peso della cooperazione sul valore aggiunto della sanità e assistenza sociale privata. Valori in migliaia di euro. Anno 2018. Fonte: elaborazioni proprie su dati Aida e Istat.

Regione

Utile coop

% su spesa pubblica

Utile for profit

% su spesa pubblica

Peso % coop su valore aggiunto privato

Liguria

5.275

0,14

7.217

0,20

67,6

Lombardia

9.623

0,05

292.247

1,38

34,3

Piemonte

16.881

0,18

36.042

0,39

64,1

Valle d’Aosta

-208

-0,06

359

0,10

81,2

Tot. Nord-Ovest

31.572

0,09

335.864

0,97

44,6

Emilia-Romagna

10.283

0,11

39.842

0,42

64,1

Friuli-Venezia Giulia

3.134

0,10

12.572

0,41

50,8

Trentino-Alto Adige

4.361

0,15

7.055

0,24

73,6

Veneto

11.721

0,12

40.146

0,40

55,1

Tot. Nord-Est

29.500

0,12

99.615

0,39

60,3

Lazio

-2.012

-0,02

1.268

0,01

34,1

Marche

1.776

0,06

10.369

0,32

66,9

Toscana

-247

0,00

16.337

0,20

57,5

Umbria

373

0,02

357

0,02

76,5

Tot. Centro

-110

0,00

28.331

0,11

45,7

Abruzzo

2.258

0,08

1.178

0,04

57,8

Basilicata

570

0,05

3.532

0,29

62,9

Calabria

-236

-0,01

26.687

0,67

19,4

Campania

3.864

0,03

69.401

0,62

23,0

Molise

237

0,03

24.414

3,60

30,1

Puglia

4.004

0,05

-22.305

-0,27

38,8

Sardegna

857

0,02

14.994

0,39

64,0

Sicilia

-670

-0,01

40.816

0,40

37,8

Tot. Sud

10.883

0,03

158.718

0,37

35,0

Italia

71.845

0,06

622.529

0,49

45,9


A tale risultato, si contrappone una maggiore capacità di crescita delle cooperative nel tempo – nello specifico dal 2009 al 2018 – con un incremento del valore aggiunto del 55,5% contro il 32,2% delle società di capitali e del capitale investito del 69,2% contro il 36,0% (Figura 4).

Figura 4. Numeri indici di valore aggiunto e capitale investito di cooperative e società di capitali. Anni 2009 – 2018. Valori percentuali. Fonte: elaborazioni personali su dati Aida Bureau Van Dijk.

Riflessioni finali

L’analisi svolta sul settore sociosanitario italiano mostra un impatto del comparto in termini di valore aggiunto pro-capite inferiore al Sud, dove si rileva anche un ruolo minore della cooperazione rispetto alle altre macroaree (soprattutto al Nord-Est).

Nonostante l’offerta di servizi sanitari e assistenziali sia, trasversalmente ai territori, a prevalente trazione pubblica, il ruolo della componente profit piuttosto che cooperativa sembra generare dinamiche specifiche che influenzano il settore nel suo complesso.

Come è emerso nell’ultima parte dell’analisi, il business model delle imprese for profit tende a favorire processi produttivi a minor valore aggiunto, molto probabilmente legato anche a un minor grado di internalizzazione delle attività[5], che porta alla ricerca di un maggior profitto (residuo) finale che sembrerebbe non tanto reinvestito nell’attività d’impresa – visto il più basso tasso di crescita del capitale investito rispetto alle cooperative – ma piuttosto distribuito sotto forma di dividendi. L’opposto si verifica invece nel modello (di business) cooperativo.

Come è già stato premesso, questa peculiare difformità influenza le variabili macroeconomiche del comparto sanitario e assistenziale. Nello specifico, si osserva innanzitutto una correlazione positiva tra il livello del valore aggiunto pro-capite delle cooperative e quello dell’intero comparto (0,77; -0,03 guardando al valore aggiunto pro-capite delle for profit).

Anche sul fronte della spesa pubblica in sanità e assistenza sociale, si rileva una leggera associazione positiva tra la spesa e il livello del valore aggiunto pro-capite delle cooperative (0,48 che diventa 0,59 se si mette in relazione la spesa pubblica pro-capite con l’incidenza percentuale delle cooperative sul valore aggiunto del privato), mentre nella relazione tra spesa e valore aggiunto delle for profit il segno della relazione cambia (-0,27).

Tuttavia, la correlazione più interessante riguarda il legame positivo tra il livello del valore aggiunto pro-capite delle cooperative e l’indicatore ottenuto dal rapporto tra valore aggiunto e spesa pubblica del comparto (0,73) che risulta decisamente più significativo di quello delle for profit (0,22).

Queste relazioni sembrano dunque evidenziare che nei territori in cui aumenta il peso della cooperazione nel settore sanitario e assistenziale sia la spesa pubblica che il valore aggiunto pro-capite risultano crescenti. Sotto queste condizioni si ottiene poi che la capacità di generare nuovi redditi (valore aggiunto) per ogni euro di spesa pubblica risulta anch’essa influenzata positivamente.

Questa analisi esplorativa restituisce delle prime rilevanti considerazioni che meritano di essere indagate ulteriormente e che dimostrano l’importanza di andare oltre la dualità pubblico-privato (for profit) e cercare di dar conto sia della pluralità delle forme d’impresa, ma anche dei modelli di business che potrebbero comunque popolare e differenziare anche la singola forma d’impresa. La domanda di ricerca dovrà in particolare orientarsi non solo all’analisi quantitativa, ma anche a una preliminare qualificazione dei modelli di business anche e soprattutto con riferimento alle reti/collaborazioni tra i vari attori coinvolti (pubblico-privato for profit e non). In aggiunta, non va trascurato il ruolo delle altre organizzazioni non profit. In questa analisi l’attenzione è stata posta solo sul mondo della cooperazione – vista la sua natura imprenditoriale e la disponibilità dei dati di bilancio legati all’obbligo di deposito – ma in futuro sarà interessante provare a includere anche la parte non cooperativa del terzo settore, quali per esempio gli enti religiosi e le fondazioni in ambito sanitario e le associazioni in ambito sociale.

DOI: 10.7425/IS.2021.03.11

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Note

  1. ^ Definizione Istat: il valore aggiunto rappresenta l’incremento di valore che l’attività dell’impresa apporta al valore dei beni e servizi ricevuti da altre aziende mediante l’impiego dei propri fattori produttivi (il lavoro, il capitale e l’attività imprenditoriale). Tale aggregato è ottenuto sottraendo l’ammontare dei costi al totale dei ricavi: i primi comprendono i costi per acquisti lordi, per servizi vari e per godimento di servizi di terzi, le variazioni delle rimanenze di materie e di merci acquistate senza trasformazione e gli oneri diversi di gestione; i secondi contengono il valore del fatturato lordo, le variazioni delle giacenze di prodotti finiti, semilavorati ed in corso di lavorazione, gli incrementi delle immobilizzazioni per lavori interni ed i ricavi accessori di gestione.
  2. ^ Definizione Istat: spesa sostenuta dal settore istituzionale delle Amministrazioni pubbliche per beni e servizi utilizzati per soddisfare bisogni individuali e collettivi. Tali beni e servizi possono essere prodotti direttamente dalle Amministrazioni pubbliche, come ad esempio i servizi dell’istruzione, e sono forniti gratuitamente o semi gratuitamente, oppure sono acquistati dai produttori market in rapporto di convenzione (le cosiddette prestazioni sociali in natura).
  3. ^ Si veda la definizione riportata in nota 1.
  4. ^ L’analisi sul valore aggiunto delle imprese private (cooperative e società di capitali) è stata condotta sui bilanci d’esercizio presentati presso le Camere di Commercio e raccolti nella banca dati Aida Bureau Van Dijk.
  5. ^ Si pensi ad esempio alle attività prestate nelle strutture di cura in libera professione che non si configurano come reddito da lavoro dipendente e quindi escono dal computo del valore aggiunto trattandosi di un costo intermedio (costi per servizi).
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