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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2025

Saggi

Impresa sociale e cultura: quali intenzionalità per quali impatti

Flaviano Zandonai


Introduzione

Il rapporto tra impresa sociale e cultura è ormai da tempo oggetto di svariate analisi e proposte che sono tese, in via generale, a trasformare in veri e propri impatti potenzialità che sono rilevate a diversi livelli: operativo, organizzativo, strategico. Obiettivo di questo contributo è individuare le modalità attraverso cui questa convergenza può avvenire, facendo così in modo che la dimensione culturale possa rappresentare non solo uno dei tanti settori di attività in cui possono operare le imprese sociali, ma, in senso più ampio, una risorsa per arricchire la “base culturale” sottostante a questo modello d’impresa.

A tale scopo nella prima parte si cercherà di ricostruire lo stato dell’arte del rapporto tra impresa sociale e cultura guardando alle principali realizzazioni fin qui rilevabili, soprattutto a livello di buone pratiche rappresentate non tanto da singole esperienze ma soprattutto da comparti o “industry” relativamente consolidati. Successivamente si cercherà di individuare e approfondire la consistenza e la direzionalità di alcuni driver di sviluppo che possono accelerare e consolidare dinamiche di reciproco apprendimento. Da una parte, esiste infatti una forma istituzionale che storicamente ha preso forma in contesti in buona parte diversi da quello strettamente culturale. Dall’altra, si configura un insieme di attività e servizi, ma soprattutto un approccio all’intrapresa che presenta, al tempo stesso, potenzialità e limiti che, nell’alveo dell’impresa sociale, potrebbe trovare nuove forme di espressione e gestione. Nella parte conclusiva verranno proposte, in chiave strategica e di policy, alcune intenzionalità trasformative la cui messa in atto può derivare da una più stretta sinergia tra impresa sociale e cultura. Dal punto di vista empirico le analisi e le riflessioni proposte di seguito scaturiscono da un’indagine esplorativa promossa dal consorzio nazionale CGM con la supervisione scientifica di Aiccon al fine di definire le condizioni strategiche e operative per l’avvio di un “cantiere di sviluppo” nel campo della cultura all’interno della propria rete[1].

Le principali realizzazioni

Nel corso degli ultimi anni l’ambito culturale si è progressivamente diffuso anche nel contesto dell’impresa sociale. A fronte di dati sulle istituzioni nonprofit e del terzo settore che collocano le attività culturali soprattutto fra soggetti di natura non imprenditoriale o che manifestano la vocazione imprenditoriale in termini di potenzialità più che formali, si possono comunque rilevare tendenze espansive che riguardano l’impresa sociale in senso stretto, cioè quella riconosciuta a livello normativo, in particolare nella riforma del terzo settore[2]. A fronte di un quadro evolutivo generale che può dirsi ormai consolidato, l’indagine esplorativa promossa da CGM ha consentito di individuare alcuni segmenti relativamente coerenti a livello di attività svolte, struttura dei mercati e architettura delle politiche; in questi segmenti la convergenza tra impresa sociale e cultura ha assunto un certo livello di consistenza, così da far emergere alcune peculiarità rispetto ad altre forme giuridiche e organizzative che operano nello stesso campo. Si tratta quindi di un’analisi non solo di natura descrittiva, ma volta a individuare direttrici di azione che si possono tradurre in investimenti.

Il primo segmento è quello rappresentato dalla gestione di beni e infrastrutture culturali che in questi anni ha consentito di rafforzare la capacità delle imprese sociali di creare lavoro sia per soggetti fragili, sia “normodotati”, anche in aree, come quelle del sud Italia, dove il modello dell’impresa sociale d’inserimento lavorativo trova condizioni meno favorevoli per il suo sviluppo, pure a fronte di problematiche legate all’inclusione lavorativa ancora più evidenti rispetto ad altre regioni del paese. La presenza numerosa e diffusa di attrattori culturali - anche se non sempre effettivamente riconosciuti come tali - ha consentito di avviare iniziative d’impresa sociale in campo culturale legate soprattutto alla gestione e valorizzazione di questi beni attraverso cui realizzare percorsi di inserimento lavorativo a favore di persone svantaggiate. Ora però questo segmento relativamente consolidato intorno a un approccio di gestione e di inclusione richiederebbe di essere ampliato ricercando un rapporto più stretto e articolato con il contesto sociale ed economico di riferimento. Ciò significa transitare da un’offerta di servizi ascrivibili soprattutto all’ambito del facility management (apertura, manutenzione, ecc.) a progettualità di rigenerazione che riconoscono nell’attrattore culturale una risorsa comunitaria. L’obiettivo è di riscrivere i modelli di “valorizzazione” di questi beni provando a gestire e a governare, per quanto possibile, la convergenza tra dimensioni di flusso (tipicamente turistico) e di luogo (comunità, prossimità), evitando così forme sia il sottosviluppo che, all’opposto, il sovrasfruttamento dei beni culturali. Tutto ciò attraverso modelli di inclusione sociale ed economica che possono educare i diversi pubblici verso modalità consapevoli di “godimento” dei beni culturali, anche per quanto riguarda le ricadute delle risorse generate.

Il secondo segmento di attività, mercato e politica relativamente consolidato tra cultura e impresa sociale è rappresentato dalla produzione artistica (teatro, spettacoli, media, ecc.). Una dimensione che appare ancora poco rappresentata nel contesto sollecitato dall’indagine esplorativa, ma rispetto alla quale l’intento è di testare l’efficacia del modello dell’impresa sociale variamente declinato nelle sue diverse qualifiche (cooperative sociali, ma anche società di capitali ed altri enti di terzo settore) per verificare se è possibile individuare una modalità alternativa al mainstream per la gestione di attività tipiche delle industrie culturali e creative. L’intento, su questo fronte, non è solo di mettere a disposizione una capacità pluridecennale di costruire e gestire questo modello d’impresa, ma anche di arricchirlo intercettando, ad esempio, innovazioni sociali e tecnologiche e, con esse, il capitale che meglio la sa applicare e utilizzare, cioè, quello giovanile.

La terza industry, di più recente apparizione ma che risulta piuttosto dinamica nel suo sviluppo più recente, è quella riconducibile al welfare culturale, cercando di realizzare interventi e programmi non solo all’interno di attività di natura educativo / ricreativa come è accaduto in via prevalente negli ultimi anni all’interno del terzo settore, ma anche in ambiti hard del welfare come servizi assistenziali e sanitari. Questi ultimi settori, in particolare, hanno assunto un ruolo promozionale e di leadership rispetto agli elementi definitori e applicativi del welfare culturale, elaborando e applicando modelli di servizio come la prescrizione sociale e schemi valutativi evidence-based rispetto ai benefici generati sui determinanti di ben-essere di individui e comunità. In questo senso l’impresa sociale potrebbe individuare nel welfare culturale un ambito d’investimento per rimarcare la propria distintività rispetto ad altri soggetti sia pubblici che privati fin qui più affermati. E forse, attraverso un’adesione più decisa e “radicale”, si potrebbe attenuare il rischio che il welfare culturale rimanga una scelta di ripiego, un optional e non una componente centrale della propria offerta di servizi.

Un quarto e ultimo segmento corrisponde, in senso estensivo, a tutte quelle filiere economiche - artigianato, turismo, agricoltura, gastronomia - nelle quali è visibile una qualche “trazione culturale”. Queste catene del valore sollecitano in particolare le imprese sociali che riconoscono nel radicamento territoriale non solo un elemento dichiarato a livello di missione, ma un vero e proprio asset di sviluppo. Tra queste imprese, che provano a reinterpretare modelli e strategie di sviluppo locale, sembra rilevarsi infatti una tensione crescente all’emancipazione da mercati pubblici a basso valore aggiunto (a volte anche sociale) provando a riconfigurarsi come hub territoriali di inclusione e coesione sociale che sanno costruire e gestire filiere più articolate ma anche più strette nei legami per essere più incisive ed efficienti nel generare e redistribuire valore. La presenza di attività e infrastrutture economiche di prossimità che incorporano un valore culturale “site specific” e riproducibile su base comunitaria può quindi rappresentare un capitale, a volte “immobilizzato” o non adeguatamente riconosciuto, sul quale investire per riavviare catene del valore in grado di ritornare valore economico e cambiamenti sociali positivi.

 

In sintesi, ad uno sguardo d’insieme, l’ambito culturale appare diffuso nel contesto dell’impresa sociale, seppur attraverso modalità diverse che non sempre vengono forse adeguatamente evidenziate, forse perché la manifestazione meno strutturata è quella legata alla cultura come oggetto di produzione, in particolare attraverso modelli riconducibili al paradigma del welfare culturale. Risulta invece più evidente il suo ruolo per organizzare percorsi di inclusione sociale attraverso il lavoro, in particolare per quanto riguarda la gestione dei beni culturali. E infine appare in forma di “sostrato” da cui scaturiscono elementi di vocazione territoriale e genius loci che rappresentano risorse importanti per imprese sociali che individuano nel radicamento nei contesti non solo un elemento identitario ma un vero e proprio fattore di sviluppo.

Driver per favorire la convergenza

La presenza di alcuni ambiti già piuttosto definiti dove è possibile riconoscere il “valore aggiunto” derivante dall’incrocio tra l’impresa sociale come istituzione del terzo settore e un insieme di attività, economie e politiche riconducibili al campo della cultura richiede, come passo successivo, di individuare alcuni vettori che favoriscano la convergenza e facciano da “legante”. Tutto ciò al fine di generare veri e propri impatti e non un semplice, per quanto utile, allargamento del sistema di offerta di beni e servizi di interesse generale secondo quanto previsto dalla normativa in materia d’impresa sociale.

Attingendo ancora una volta ai rimandi dell’indagine esplorativa promossa da CGM al fine di definire le condizioni per un investimento della propria rete in campo culturale si possono evidenziare alcuni apprendimenti utili anche in senso più ampio.

Una prima importante acquisizione riguarda proprio la cultura come driver di trasformazione del ruolo dell’impresa sociale e non solo come mera diversificazione del proprio core business storicamente concentrato nel campo del welfare sociale (socioassistenziale, educativo, sociosanitario) e dell’inclusione di soggetti fragili attraverso il lavoro. Tale osservazione deriva soprattutto da un approccio alle attività culturali che si colloca all’interno di progettualità e strategie più ampie di sviluppo territoriale, di rigenerazione di infrastrutture sociali, di investimenti sulle comunità locali, ecc. Questo posizionamento in senso strategico delle iniziative in campo culturale fa quindi emergere un modello d’impresa sociale che presenta tratti di agenzia o di piattaforma, caratterizzato quindi non solo dalla produzione di beni e di servizi “finiti”, ma anche dall’orchestrazione di una pluralità di apporti provenienti da soggetti diversi che sono stati abilitati in tal senso. La cultura rappresenta, in questa prospettiva, un fattore di innesco e di progressiva strutturazione di svariate iniziative e progettualità che mettono al centro competenze e aspirazioni al cambiamento e che, per ragioni diverse, sono in stato latente o non adeguatamente collocate all’interno di un comune “orizzonte di senso”.

Un secondo fattore di convergenza e legante tra impresa sociale e cultura è legato al “peso specifico” assunto dalle attività culturali in termini organizzativi ed economici. Da una parte, attività di natura culturale vengono approcciate in termini di sviluppo di nuova imprenditorialità dando vita a startup che, come su altri fronti di innovazione, accelerano e focalizzano gli investimenti delle imprese sociali promotrici. Ma questa soluzione appare comunque minoritaria rispetto a quella rappresentata dalla costruzione di business unit o rami aziendale interni dedicati alla produzione e gestione di risorse culturali. Se nel primo caso si assiste, almeno a livello di intenzioni, all’avvio di un’impresa sociale a base culturale dove la componente d’impatto è “nativa”, nel secondo sembra prevalere un approccio che riconosce nella cultura una sorta di service a favore dei settori più consolidati dell’impresa agendo quindi attraverso approcci di innovazione incrementale.

Altro fattore che favorisce la convergenza consiste nell’aspettativa, piuttosto marcata, di incrementare, sia in senso estensivo che di significato, il carattere inclusivo dell’impresa sociale. Ciò sembra avvenire, da una parte, in riferimento a gruppi target caratterizzati da fragilità “non certificate”, in particolare guardando alla popolazione giovanile o alle comunità insediate in aree marginali e periferiche. D’altro canto, l’approccio a base culturale da parte delle imprese sociali sembra essere ricercato al fine di generare mutamenti a livello di mentalità e consapevolezza sia individuale che collettiva, superando quindi un approccio basato sul classico meccanismo di risposta al bisogno attraverso “l’erogazione” di una risposta. L’adozione di questo approccio presenta ricadute anche per quanto riguarda la struttura dei business model delle imprese sociali in campo culturale. A differenza di altri settori caratterizzati dalla prevalenza di risorse derivanti da scambi di mercato (in particolare, ma non solo, con enti pubblici), si nota infatti una più consistente presenza di risorse donative, soprattutto di provenienza filantropica. Probabilmente ciò è dovuto sia all’impianto di natura promozionale e trasformativa assegnato alle attività culturali, sia alla ricerca di elementi di inclusività che passano anche da una maggiore accessibilità ai palinsesti culturali. Sarà interessante verificare, da questo punto di vista, se l’approccio in senso “venture” da parte di risorse filantropiche orientate a sostenere progettualità di inclusione attraverso la cultura da parte di imprese sociali saprà interagire anche con apporti di risorse finanziarie, in particolare d’investimento, volte a dare continuità a queste iniziative.

Infine, un driver di particolare rilevanza è costituito dagli ecosistemi culturali e dalla capacità delle imprese sociali di operarvi all’interno, contribuendo così ad arricchirli. Le attività di supporto connesse alla cultura presentano infatti architetture ben più articolate ed estese rispetto a quelle del campo “sociale”. La cultura opera infatti su contesti globali, mobilita una pluralità di soggetti e di risorse a livello di produzione e gestione, presenta una componente mainstream decisamente strutturata pur a fronte di soggettività “indipendenti” degne di nota e spesso in rapporto contraddittorio con la componente dominante. Le osservazioni e valutazioni raccolte su questo fronte restituiscono un orientamento delle imprese sociali improntato a un certo “generalismo” a livello di interlocutori e a un approccio a corto raggio rispetto al posizionamento negli ecosistemi culturali. Sembra quindi delinearsi uno spazio di sviluppo ancora significativo al fine di favorire il confronto e l’apprendimento reciproco con la componente più strutturata e professionale della produzione e gestione culturale. D’altro canto, appare comunque positivo un orientamento all’innovazione a base culturale da parte delle imprese sociali basato più sulla coprogettazione delle soluzioni piuttosto che sull’acquisizione di “pacchetti” di servizi e attività, superando così il classico approccio make or buy a favore di uno più orientato al codesign. Ciò potrebbe contribuire a mettere in evidenza componenti ecosistemiche non solo in chiave di fornitura, ma di più complessa e promettente ibridazione orientata a generare trasformazioni consistenti. Tra le risorse su cui investire per perseguire questo approccio ecosistemico risulta particolarmente interessante la componente immateriale che fa riferimento al capitale umano e alle sue competenze e aspirazioni per sviluppare e rafforzare il know how in campo culturale. Questa esigenza può rappresentare un’ulteriore leva di cambiamento organizzativo (e di mindset) interno alle imprese sociali, tanto che le risorse umane riconosciute come più adeguate vengono collocate come priorità strategica prima della sostenibilità in termini economici generata da business plan e investimenti finanziari.

A fronte di queste tendenze e della loro consistenza, verso quale assetti tra impresa sociale e cultura si sta tendendo? Una prima indicazione riguarda i processi di riorganizzazione che ormai da tempo sembrano caratterizzare le imprese sociali, soprattutto quelle del modello più affermato della cooperazione sociale e in particolare nelle aree territoriali dove il fenomeno è più maturo come quelle del centro nord Italia. Le operazioni di fusione, accorpamento, acquisizione e dismissione di rami aziendali che contraddistinguono l’evoluzione di molte cooperative sociali possono trovare nei driver culturali opportunità non solo per diversificare attività e mercati o efficientare i processi e gli assetti formali, ma soprattutto per sostanziare il reengineering organizzativo verso nuove logiche d’azione per le quali servono nuovi orizzonti di significato oggi ispirati alla generazione d’impatti.


In conclusione: quale intenzionalità per quali impatti

Il progressivo consolidamento di alcune aree di attività all’interno delle quali il rapporto tra impresa sociale e cultura assume connotati di peculiarità in termini di valore generato e il progressivo rafforzamento di alcuni driver di sviluppo che favoriscono questa convergenza consentono di individuare in modo più chiaro alcune intenzionalità - cioè direttrici di sviluppo - capaci di configurare questa relazione non solo come un nuovo layer di offerta ma come un campo di trasformazione sociale.

Il primo elemento d’intenzionalità riguarda il ruolo dell’impresa sociale all’interno di ecosistemi di produzione culturale che assumono, anche a livello europeo e internazionale, conformazioni sempre più ampie e articolate attraendo una quantità crescente di risorse. La dinamica tra offerta mainstream e indipendente che connota il campo culturale può rappresentare per l’imprenditoria sociale del terzo settore una sollecitazione importante, forse fin qui inedita, rispetto alla scalabilità dei propri modelli e quindi delle partnership attraverso le quali intende operare.

La seconda intenzionalità è costituita dall’orientamento all’impatto. In una fase in cui si moltiplicano le valutazioni in tal senso può essere interessante comprendere come approcci “impact oriented” a base culturale possono risultare efficaci per generare mutamenti significativi tra i vari beneficiari delle attività. Può valere nei confronti di persone e gruppi fragili, in quanto l’approccio della cultura agisce su determinanti bio-psico-sociali e non solo in senso riparativo su specifici sintomi o bisogni. Ma può riguardare anche pubblici più ampi soprattutto quando la produzione culturale intende agire su mentalità e consapevolezza. Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente rilevante a fronte dell’indebolirsi di valori e istanze di sostenibilità, giustizia sociale, partecipazione civica e del manifestarsi di narrative e progettualità, inquietanti, che vanno in direzione opposta. 

Infine, l’approccio in chiave di cultura può presentare ricadute promettenti anche per quanto riguarda l’orientamento all’innovazione delle imprese sociali. Le attività di mappatura, scambio di pratiche, formazione, ricerca e sviluppo in campo culturale hanno rappresentato negli ultimi anni una modalità importante per alimentare iniziative e approcci di innovazione sociale.

La possibilità di moltiplicare e consolidare produzioni culturali che contengano sia nel messaggio che nelle modalità di progettazione elementi di natura trasformativa rivolti ai beneficiari e alle loro comunità di riferimento rappresenta un campo di generatività ancora attivo all’interno del quale è possibile elaborare sia contenuti d’innovazione che modelli di scalabilità. A proposito di questi ultimi in particolare, la presenza reti ormai piuttosto estese tra infrastrutture sociali rigenerate come luoghi di coproduzione culturale potrebbe rappresentare l’occasione per capacitare le imprese sociali rispetto ad alcune competenze culturali chiave. Gestire palinsesti di eventi, organizzare residenze d’artista, costruire e interagire con i pubblici della cultura, rappresentano capacità che retroagiscono in modo piuttosto evidente su quelle istanze di cambiamento attraverso approcci di comunità e di inclusione che sostanziano il fare impresa sociale.

DOI 10.7425/IS.2025.01.05

 

Bibliografia

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Sacco P. (2024), “La cultura come esplorazione del possibile”, intervista a Pierluigi Sacco scritta da Giacomo Bottos, Pandora rivista, 30 luglio 2024.

 

[1] L’indagine è stata condotta attraverso survey di mappatura, focus group con dirigenti e seminari di approfondimento. Ha coinvolto cinque reti consortili di CGM che a partire dal 2022 hanno iniziato a condividere buone pratiche e modelli di gestione a base culturale. I materiali raccolti, seppur non attraverso una metodologia scientifica strutturata, hanno comunque consentito di costituire una base dati qualitativa da cui scaturiscono le analisi proposte in questo contributo. La responsabilità di tali contenuti è da riferire esclusivamente all’autore che da parte sua ringrazia CGM e le imprese sociali coinvolte nel percorso per l’accesso ai materiali d’indagine.

[2] Una prima descrizione delle industries presentate di seguito è stata pubblicata su AG Cult letture lente con Andrea Biondello e Anna Voltolini. L’autore desidera ringraziare i colleghi per la possibilità di riprendere e riscrivere contenuti elaborati in comune.

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