Per aprire un varco nelle frontiere del possibile e decostruire dalle radici le strutture del dominio maschile.
Nonostante il tema delle disuguaglianze di genere rappresenti una priorità, le agende politiche, le pubblicazioni scientifiche, l’opinione pubblica, i media e la cultura evidenziano come le radici strutturali della disuguaglianza di genere siano ancora ben radicate nella terra che le nutre e riesce a renderle sempre più resistenti. Se la violenza contro le donne nelle sue forme estreme del femminicidio - punta dell’Iceberg dello strumento cardine del dominio maschile - riesce ad unire il motus del popolo italiano, il tentativo di indagarne realmente le radici strutturali si rivela estremamente divisivo e spinoso. Pochi temi sono così trasversalmente presenti nella quotidianità della vita di tutti, supportati da una mole incontrovertibile di dati istituzionali e al contempo così frequentemente oggetto di distorsione, rimozione e negazione. Questo contributo si interroga nello specifico sul ruolo assunto dalle imprese sociali nella decostruzione del dominio maschile. Di fatto, per quanto le imprese sociali abbiano il compito di promuovere l’interesse generale, nell’ambito dei principi costituzionali - in primis nel principio di uguaglianza che l’articolo 3 richiede di perseguire attivamente - il Codice del terzo settore non inserisce tra i settori di interesse generale la lotta alla decostruzione del dominio maschile. Attraverso lo studio di nove imprese sociali attive nella regione Campania si evidenziano alcune differenze significative sul ruolo che le imprese sociali possono assumere nella decostruzione del dominio maschile e nel contrasto della disuguaglianza di genere in ragione delle loro diverse governance. L’articolo si focalizza sulle diverse modalità di organizzazione e gestione delle imprese sociali intervistate, mettendo in evidenza l’efficacia di una goverance e una leadership al femminile per la realizzazione di una maggiore equità di genere e mostrando quanto sia urgente per tutte le imprese sociali un’attenzione trasversale alle disuguaglianze di genere e al superamento di un approccio neutro nel contrasto alle discriminazioni a prescindere dalla propria mission.
Sebbene in Italia la Presidente del Consiglio dei ministri sia una donna e per molti anni il modello imprenditoriale vincente del made in Italy digitale, così detto modello instafame ereditato dalla Silicon Valley sia stato rappresentato da una donna - Chiara Ferragni - i dati generali sui ruoli manageriali femminili delle imprese for profit raccontano tutt’altro (Piga & Pisu, 2021). Anche se in Europa si laureano il 48% dalle donne contro il 37%[1] degli uomini, a ciò non corrisponde una conseguente distribuzione nello sviluppo di carriere. Parimenti in Italia, per quanto le donne si laureino prima, con voti migliori e in una percentuale maggiore rispetto agli uomini, secondo i dati 2024 forniti dall'Osservatorio Donne Executive svolto da SDA Bocconi School of management insieme a Eric Salmon & Partners, solo una donna su sei in Italia ricopre posizioni apicali in azienda e per quanto riguarda ruoli operativi, finanziari e strategici il dato sconcertante è che le donne manager rappresentano circa il 17%[2]. Nonostante questi dati siano abbastanza inquietanti (seppur non nuovi) quello che desta maggior preoccupazione è che la disparità riscontrata nel mondo delle aziende italiane for profit trova continuità anche nel mondo non for profit del terzo settore. Infatti, come riporta Picciaia (2017), anche nel terzo settore esiste un divario tra donne e uomini, le prime estremamente sottorappresentate negli incarichi di maggiore responsabilità. Il report Job 4 Good, Professioni nel Terzo Settore 2024 evidenza che le donne sono di gran lunga la maggioranza delle impiegate nel terzo settore nella nostra penisola: basti pensare che su 850 mila lavoratori, 700 mila sono donne. Tuttavia, le percentuali sono molto diverse laddove si considerino i ruoli manageriali ed apicali, anche nelle imprese del terzo settore. Per quanto riguarda il Terzo Settore, nonostante le donne siano il 70% della forza lavoro, ricoprono solo il 30,9% degli incarichi di dirigenza e presidenza[3]. Questo scenario apre interessanti quesiti sul ruolo delle realtà del terzo settore nel contrastare e decostruire il dominio maschile. Di fatto, la Riforma del Terzo settore – e poi il Codice che ne costituisce il principale dispositivo attuativo - pur attenta a garantire le “più ampie condizioni di accesso da parte dei soggetti beneficiari” adotta invece un approccio neutro rispetto alla questione di genere, tendendo a dare per scontato il fatto che non sia raggiunta una situazione di equità tra gli uomini e le donne (Lorber, 2001) o considerando di fatto la situazione socioeconomica, culturale, ma soprattutto simbolica delle donne come paritaria a quella maschile. Infatti, nell’articolo 5 del Codice del Terzo settore, quello in cui sono individuati gli ambiti di attività di interesse generale, non c’è nessun chiaro riferimento alla decostruzione, anche da un punto di vista legislativo, del dominio maschile (Bourdieu, 1998). È vero che nell’elencazione delle attività di interesse generale alla lettera w) si legge:
“La promozione e tutela dei diritti umani, civili, sociali e politici, nonché dei diritti dei consumatori e degli utenti delle attività di interesse generale di cui al presente articolo, promozione delle pari opportunità e delle iniziative di aiuto reciproco, incluse le banche dei tempi di cui all'articolo 27 della legge 8 marzo 2000, n. 53, e i gruppi di acquisto solidale di cui all'articolo 1, comma 266, della legge 24 dicembre 2007, n. 244”;
ma è abbastanza evidente che nel suo complesso il Codice non tende a considerare la situazione di svantaggio insita nelle radici strutturali della disuguaglianza di genere. Sia nel Codice del Terzo settore, sia da parte di alcuni dei protagonisti delle imprese sociali intervistati nell’ambito della ricerca qui presentata, come si vedrà nella sezione empirica di questo articolo, manca una visione critica complessiva che consenta di andare oltre una generica dichiarazione di intenti per tutelare i diritti delle donne. Vista la mancanza di consapevolezza, diventa improbabile nelle pratiche che queste organizzazioni siano sempre in grado di contrastare efficacemente disuguaglianze presenti a livello strutturale, sociale e simbolico tra donne e uomini e gli effetti che tali asimmetrie determinano e che esse operino per problematizzarne e decostruirne le radici socioculturali (Palladino, 2024).
Per Palladino (2024), quello che stupisce è che proprio quella parte del lavoro sociale, che non si è limitata ad erogare servizi, ma si è posta come agente di cambiamento, protagonista nell’attivare processi innovativi orientati a minare dalle radici le disuguaglianze e l’esclusione sociale, non riesca a far proprio quell’approccio critico che per sintesi definiamo ottica di genere. La miopia inoltre tende a diventare cecità quando, nei rari casi in cui le donne riescono a raggiungere la leadership o ruoli manageriali, esse finiscono per emulare il modello maschile e questo fa sì che continuino anche nella posizione di leader a perpetuare le stesse dimensioni di dominio e la subordinazione delle donne (Gebauer, & Krais, 2009). Infatti, il modello imprenditoriale mainstream, fortemente individualista e orientato in senso gerarchico e produttivista, è stato preso come il più importante parametro di successo personale (Sennett, 2000) anche da parte di alcune donne, tendenzialmente bianche e middle class (Lonzi 1981): donne giunte in posizioni apicali che tendono ad imitare lo stile maschile, facendo proprio il modello di direzione e di comportamenti rigidi e autoritari. Al contrario, in questo contributo, come vedremo, ci sono esempi virtuosi di leadership al femminile caratterizzata da comportamenti, peraltro profondamente intrecciati con i valori cooperativi quali la capacità di ascolto, la ricerca di forme di confronto più simmetriche ed orizzontali anche oltre le gerarchie, la capacità di valorizzare la creatività delle persone, di coinvolgere e di includere e di promuovere capability (Bassi & Miolano, 2020).
Le imprese sociali hanno la potenzialità di trasformare profondamente il panorama socioeconomico del nostro paese (Zanotti, 2024); di fatto sono oltre 16 mila le imprese sociali attive e con dipendenti iscritte alla “sezione speciale” del Registro Imprese e parallelamente nel RUNTS[4] che perseguono finalità sociali oltre che economiche, ed offrono possibilità di occupazione e di qualificazione alle persone escluse dal mercato del lavoro (Hazenberg, 2021). Nel documento a cura del Forum Diseguaglianze e Diversità e della Fondazione Unipolis, dal titolo “Per un’economia più giusta. La cooperazione come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale” si manifesta la volontà di considerare “la cooperazione”, proprio per la sua natura intergenerazionale e solidale, come strumento per mitigare le disuguaglianze. Inoltre, l’impresa sociale nel panorama italiano sta assumendo oggi una connotazione sempre più importante all’interno anche degli studi economici (Berta, 2018) e sempre più studiosi stanno concentrandosi nell’analizzare questa forma d’impresa, che, con la crisi dei sistemi di welfare, sembra rappresentare l’ultima alternativa per contrastare le disfunzionalità del mercato neoliberista (Sepulveda, 2015). In questo articolo, attraverso l’indagine empirica condotta, si mettono in evidenza le modalità attraverso cui le imprese sociali selezionate per questa ricerca stanno operando nel territorio della regione Campania, con l’intento di comprendere se queste imprese dedicano risorse, tempo ed attività alla promozione di una maggiore equità di genere e se lavorano adottando un approccio critico che contamina la loro governance, la loro organizzazione e la loro operatività. Si tratta di imprese sociali che, operando in un contesto ad elevata criticità come quello campano, appaiono particolarmente attive nel contrastare l’ingranaggio delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali e di conseguenza questa regione rappresenta un campo privilegiato di osservazione e di studio per le imprese sociali e il Terzo settore in generale. Anche da un punto di vista quantitativo, questa regione raffigura un interessante campo di indagine, se si considera che più della metà delle imprese sociali in Italia sono collocate in cinque Regioni (Campania, Lombardia, Sicilia, Lazio e Puglia) e, nel complesso, contano 31.540 occupati (Carazzone, 2024). Le imprese sociali in Campania sono 1375 secondo l’ultimo aggiornamento dell’albo regionale delle cooperative sociali[5]; si tratta di imprese che svolgono attività socialmente “desiderabili” e di pubblico interesse, capaci di introdurre soluzioni innovative per la risoluzione di problemi legati all’inclusione sociale, alle fragilità, alla povertà e capaci di sperimentare pratiche di economia sociale.
Le nove imprese sociali oggetto di indagine sono state individuate tramite la tecnica di campionamento definito come campione a scelta ragionata (McBurney & White 2014) e sono quindi state selezionate sulla base del loro spessore in termini di impatto economico, sociale e culturale. Le imprese sociali analizzate nell’indagine empirica sono imprese particolarmente rilevati in ambito nazionale e regionale.
La selezione è stata orientata da testimoni privilegiati, che per il proprio ruolo e la propria esperienza hanno consentito di circoscrivere tra l’ampia platea degli attori locali gli esempi più utili al lavoro di ricerca. Inoltre, i parametri individuati per la selezione del campione hanno tenuto conto di dati quantitativi e qualitativi a sostegno della significatività del lavoro delle imprese in termini di impatto economico, culturale, sociale. Si è innanzitutto proceduto all’esame dei bilanci sociali ed economici delle imprese studiate, dei loro siti web ufficiali; si sono quindi intervistati dei membri delle imprese, quasi sempre rappresentanti legali o soci fondatori.
I soggetti attori intervistati differiscono per storia personale ed imprenditoriale, per le motivazioni di partenza che li hanno condotti a fondare le imprese di cui parlano, per formazione, per appartenenze e culture politiche, per visioni del lavoro sociale e per le interpretazioni del contesto campano in cui tutti e tutte operano. È proprio la eterogeneità dei testimoni coinvolti, unitamente ai fattori che hanno spinto alla loro selezione, che rende utile il materiale raccolto e le considerazioni in esso contenute e che consente di disporre di un corpus di dati/esperienze utili a formulare ipotesi che possono contribuire ad ampliare le riflessioni su un tema così complesso, gettando inoltre le basi per ulteriori approfondimenti e ricerche future. Sono state intervistate le seguenti imprese:
La metodologia scelta per raccogliere e successivamente elaborare il materiale empirico è ispirata ad un approccio metodologico qualitativo (Marradi, 2007), con l'obiettivo finale di trovare risposte ai quesiti principali di indagine e di comprendere quindi quale grado di attenzione sia riposto dalle imprese sociali oggetto di indagine all’ottica di genere e se tali imprese siano efficacemente incisive rispetto al contrasto delle disuguaglianze di genere e alla decostruzione del dominio maschile. Prima di iniziare il ciclo di interviste, sono stati condotti colloqui informali per cogliere alcuni dati contestuali sulla cultura, le condizioni di lavoro e altri aspetti specifici dell'azienda o dell'area geografica in questione. Successivamente sono stati consultati i bilanci sociali e infine, nell’ultima fase di indagine, sono state implementate tecniche di analisi empiriche quali osservazione diretta e interviste semi-strutturate. Analiticamente, le fasi del lavoro sono state elencate in maniera sequenziale e schematica, ma ognuna delle fasi è stata rivalutata nel corso dell’indagine in relazione a elementi emersi nelle fasi successive.
La conduzione delle interviste si è svolta in maniera diversa e con un diverso grado di formalità per ogni intervistato. Con alcuni di essi è stato possibile adottare un linguaggio informale e in questi casi l’intervista si è svolta con la massima fluidità e questo ha permesso di generare una relazione empatica che ha consentito agli intervistati di aprirsi con la massima trasparenza. Per quanto concerne la strumentazione metodologica utilizzata nella conduzione delle interviste “in presenza” è stato possibile utilizzare soltanto lo smartphone per registrare le interviste; nelle interviste condotte in via telematica invece come strumento tecnologico, oltre allo smartphone, sono state utilizzate le applicazioni Skype e Microsoft Teams. Nel redigere il materiale empirico il linguaggio parlato è stato trasferito inserendo pause e punteggiatura preservando puntualmente il contenuto delle interviste.
Breve profilo dei professionisti riflessivi intervistati:
Storicamente le imprese, anche quelle sociali, sono state gestite prevalentemente da persone di genere maschile e/o governate comunque con logiche di potere tipicamente maschili (strutture gerarchizzate, asimmetria nei processi decisionali, dirigismo e mancanza di spazio di confronto e di ascolto); tale approccio ha portato squilibri e disuguaglianze, creando disparità e tra queste ovviamente quella di genere. Pertanto, una rivisitazione critica delle dinamiche di potere, base indispensabile per la decostruzione del dominio maschile, risulta il punto di partenza per un’analisi di modelli alternativi potenzialmente efficaci nella mitigazione delle disuguaglianze. Ripartendo dal lavoro di Bassi e Miolano (2022) in questo studio siamo interessati a comprendere se la parità di genere si realizzi, tra l’altro, partendo dal confronto tra la presenza femminile nella base sociale e quella osservata nei livelli decisionali più alti. L’impresa sociale quale forma di organizzazione che persegue la sostenibilità economica e al contempo la giustizia sociale (Borzaga, 2008), necessita infatti, per non venir meno alla sua mission, di visioni diverse e di strutture organizzative, rimodulate in ragione di un approccio critico che sia in grado di valorizzare concretamente i principi stessi della cooperazione, lasciando spazio congruo e potere decisionale a chi rappresenta la dimensione più numerosa della compagine che, come mostrato da tutti i dati sul terzo settore, è quella femminile. Conseguentemente un nodo critico per il lavoro di ricerca è la presenza di leader donne e di governance “al femminile” (Bassi & Miolano, 2020), cioè gestite con un modello alternativo, normalmente tendente a enfatizzare i valori di ascolto, relazione e cura. Delle nove organizzazioni del terzo settore studiate, soltanto in tre casi si è rilevata la presenza di leadership al femminile, con presidenti donne e CDA a prevalenza femminile. Come evidenziato dai dati qualitativi e quantitativi prodotti dal lavoro di ricerca, queste sono le imprese che incidono significativamente nella decostruzione del dominio maschile.
Come riportato dalla socia fondatrice della cooperativa numero 7,
la nostra cooperativa nasce per contribuire alla costruzione di una società migliore, accogliente e solidale, attraverso la promozione dei diritti e la realizzazione di servizi alle persone vulnerabili e alle famiglie. Durante tutti questi anni di esperienza siamo riuscite a crescere con le persone, contribuire al benessere della comunità e a implementare i servizi in particolare per le donne madri. Le operatrici e gli operatori condividono un’alta motivazione che si esplica anche attraverso le abilità relazionali, l’accoglienza, la flessibilità, la capacità di adattamento, la propositività, la propensione al miglioramento del proprio servizio e la capacità di collaborare in equipe. L’approccio di genere e l’impegno per la legalità caratterizzano l’azione della cooperativa”
Alla domanda proposta nel corso dell’intervista: Quanta attenzione viene posta all’equità di genere? l’ex presidente ha risposto:
Forse troppo. Perché su 32 dipendenti 31 sono donne e c’è solo un uomo che siede nel consiglio d’amministrazione, anche se sono convinta che a lavorare con i bambini servono maschi che diano l’esempio. Che il cambiamento verso una cultura diversa sia un’esperienza realistica e possibile lo dimostra la nostra esperienza.
La presidente della cooperativa 2, che lavora per l’inserimento lavorativo delle donne detenute, è completamente d’accordo con questa linea di pensiero. Anche la sua cooperativa è gestita da donne e, nel corso dell’intervista, polemizza sui finanziamenti per l’imprenditoria femminile, perché ritiene che non siano un vero vantaggio per le donne:
“Da noi non c’è equità perché noi siamo tutte femmine. Abbiamo due maschi che lavorano qui la sera, ma perché le detenute devono tornare in carcere e quindi la sera difficilmente possono farlo. Io ho litigato con Invitalia perché hanno promosso questo fondo “impresa femminile”, ma finanziano imprese che hanno presidenti maschi, Consigli di amministrazione con tutti i componenti maschi, basta che abbiano il 60% di lavoratrici; io ho detto “scusatemi, chiamatelo fondo per finanziare l’imprenditoria e non l’imprenditoria femminile”. Noi abbiamo un problema serissimo nel terzo settore più che nelle altre imprese, perché c’è una presenza femminile altissima tra gli operatori, ma hai un tetto di cristallo più spesso rispetto ad altre imprese per accedere ai ruoli dirigenziali. È una cosa inspiegabile!
L’adozione di modelli di governance più attenti a dinamiche relazioni e più rispettose dei tempi e delle difficoltà soggettive dei destinatari e delle destinatarie degli interventi, la capacità di gestire le dimensioni emotive del contesto organizzativo e complessivamente l’attenzione alla cura di ogni ambito dell’impresa determina una maggiore capacità di valorizzare la soggettività delle donne e rimuovere i vincoli che generano disuguaglianze di genere nei luoghi di lavoro. Di fatto la ricaduta positiva di tale modello si evidenzia nei risultati della cooperativa 2 che, gestita da donne, nel corso degli anni ha sostenuto inserimento lavorativo di più di 70 donne attraverso un lavoro che ha valorizzato le capacità e le potenzialità delle persone provenienti da contesti di marginalità economica e vulnerabilità sociale.
Il caso della Cooperativa numero 3 è decisamente quello più rilevante perché è una cooperativa di sole socie donne che ha come obiettivo quello di promuovere la soggettività delle donne, i diritti delle donne e prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne. La socia fondatrice, già presidente afferma che la cooperativa agisce:
“Non solo sostenendo le donne che riusciamo ad incontrare, ma provando a promuovere una cultura diversa e soprattutto a contrastare quella cultura fondata sulle discriminazioni di genere, sul mantenimento della disparità di potere tra uomini e donne, dalla quale poi la violenza si genera e si riproduce e infine viene anche legittimata e giustificata”.
Nel corso dell’intervista la testimone numero 1 illustra il motivo per il quale la sua cooperativa ha solo socie donne:
“La cooperativa numero 3 ha solo socie donne perché nasce da un progetto politico per gestire i centri antiviolenza. Con le donne lavorano le donne, anche perché la nostra metodologia si fonda su leggere il problema individuale della violenza subita in una dimensione collettiva. Il problema della violenza maschile contro le donne non è della singola relazione, della singola donna o del singolo autore di violenza, ma ha una dimensione culturale e strutturale. Quando una donna arriva da noi a chiedere aiuto ha bisogno di trovare un'altra donna che le dice: capisco, perché il tuo dolore è anche il mio, capisco la tua violenza perché è una violenza che tu da donna subisci e che io conosco non perché l'ho studiata ma perché l'ho vissuta. È tutto il tema della relazione tra donne, del rispecchiamento che dà la forza della metodologia di lavoro che da quaranta anni viene riconosciuta a livello europeo e nazionale e tra l'altro anche dalla convenzione di Istanbul, che è la cornice normativa nella quale ci muoviamo. Chiaramente questo potrebbe non rispecchiarsi in una dimensione d’impresa, ma visto che nella nostra mission, cioè quella di dare lavoro alle donne, per noi è fondamentale contrastare la segregazione di genere, è giusto agire una discriminazione positiva, del resto non si fanno parti uguali tra disuguali. Per questo consideriamo coerente con la nostra dimensione politica il fatto di essere tutte donne”.
La socia fondatrice ha inoltre raccontato nel corso dell’intervista:
La cooperativa si è negli ultimi 10 anni specializzata nell’inserimento lavorativo di donne in uscita da situazioni di violenza ed in condizioni di grande vulnerabilità, realizzando attività imprenditoriali nei beni confiscati e nel solco di sperimentazioni di economia circolare. In questo modo la cooperativa è riuscita a stabilizzare un numero significativo di donne: grazie ad un modello organizzativo e di lavoro sociale che integra le metodologie dei centri antiviolenza con il welfare della “capacitazione”. Mediante un’organizzazione orientata al contrasto delle disparità di potere, le donne coinvolte nei laboratori hanno potuto acquisire una rinnovata fiducia nelle proprie capacità mettendosi in gioco attraverso mansioni facili ed in contesti accoglienti, abilitanti e generativi di relazioni e competenze. Parallelamente, la possibilità di raccontare storie positive e vincenti di donne che escono dalla violenza, si riprendendo l’autonomia economica con la libertà e l’autodeterminazione in contesti pubblici quali la buvette di due teatri napoletani (il Mercadante ed il San Ferdinando) ha consentito alla cooperativa di incidere sulla narrazione dominante della violenza e decostruire anche da un punto di vista simbolico il dominio maschile.
Nell'interpretazione del materiale empirico, le risposte alle interviste degli imprenditori sociali di genere maschile, hanno evidenziato comportamenti in linea con i dati nazionali, non soltanto perché leader maschi di lavoratrici donne, ma anche e soprattutto perché, come nella maggior parte dei casi della cooperazione sociale italiana, hanno dato per scontato l’equità di genere mai realmente raggiunta. Ad esempio, sebbene uno dei testimoni, presidente della cooperativa 9 sia profondamente convinto di dover sostenere la parità di genere, nel corso dell’intervista, nel descrivere l’organizzazione della sua compagine associativa e del lavoro non presta attenzione ad alcuni elementi fondamentali per il contrasto delle disuguaglianze, quali l’adeguamento dei livelli, la partecipazione ai processi decisionali o lo stile della leadership. Per quanto, in questo momento, sia il presidente della sua impresa, afferma che questo non sia un problema perché in passato la sua cooperativa è stata gestita maggiormente da donne, senza però interrogarsi sui motivi che rendono, secondo le sue parole, “le donne più propense a lavorare nei servizi che a gestire la cooperativa”.
“I fondatori sono per la maggiore delle donne. Io sono il quinto presidente, forse quello che nella successione sono in carica da più tempo, però è pure vero che almeno 3 di questi 5 presidenti sono state delle donne. Il problema è che le donne non si candidano alla presidenza, difficilmente vogliono entrare nei Consigli di amministrazione e sono più propense a lavorare nei servizi che a gestire la cooperativa”
Nonostante le intenzioni del presidente siano autenticamente orientate al supporto dell’equità di genere, di fatto, nelle sue parole si riscontra un’inconsapevolezza disarmante non tanto su quanto sia scontato che i ruoli dirigenziali siano destinati agli uomini come una sorta di naturale sviluppo della vita organizzativa, ma sui vincoli culturali che determinano scarsa assertività, difficoltà a proporsi e a percepirsi adeguate per i ruoli apicali.
Tra gli argomenti proposti a supporto della presunta equità di genere nella cooperazione sociale i presidenti intervistati sottolineano che, da un punto di vista strettamente retributivo, le imprese sociali, a differenza di quelle profit, non presentano gender gap e donne e uomini hanno la stessa retribuzione come previsto dal contratto collettivo nazionale. Invece, i dati testimoniano che nei ruoli gestionali, nei processi che generano le discriminazioni nei ruoli dirigenziali, non sembrano distanziarsi molto dalle logiche del mercato del profit. È molto indicativa la testimonianza del testimone numero 5, che ammette di non avere come obiettivo primario all’interno della sua impresa, di cui è presidente, la parità di genere, seppur ne sposi la causa:
“C’è ancora una maggioranza maschile. La compagine iniziale della cooperativa era di soli uomini. Nessuna donna attualmente ha un ruolo gestionale, né siede nel Consiglio di amministrazione”
Anche il Presidente della cooperativa n.1 sembra confermare questa scarsa attenzione alle dinamiche di genere nel lavoro sociale.
“Non facciamo una particolare politica per incentivare la presenza delle donne nei ruoli direzionali, però sicuramente proviamo a non discriminare. Spesso nelle imprese il livello di retribuzione dei maschi è superiore a quello delle donne. Da noi questo non succede perché noi abbiamo il contratto collettivo e retribuiamo le persone a seconda di quello che il contratto dice rispetto alle funzioni. Non posso dire lo stesso purtroppo nei percorsi di carriera perché oltre me che ne sono il presidente, nel Consiglio di amministrazione siamo soltanto tre e siamo tutti uomini”.
A questo presidente, dirigente molto attento ai diritti di tutti e noto per la sua capacità di condurre trattative vantaggiose per i lavoratori del sociale, non viene però in mente che molto spesso anche l’attribuzione dei livelli e con essa delle retribuzioni è condizionata, seppur inconsapevolmente, da scelte orientate dall’appartenenza di genere, a prescindere dai percorsi formativi e dalle esperienze presentate.
Anche il presidente della cooperativa 8 non sembra considerare la condizione di svantaggio di partenza che scontano le donne per cui, egli ragiona in termini di meritocrazia dal momento dell'assunzione. Inoltre, dalle sue risposte si evince una visione stereotipata della genitorialità ed un modello decisionale e di gestione “al maschile”
“Qui va avanti chi è bravo, chi sa fare le cose. Nel CDA anzi qualche maschietto ci vorrebbe perché si tirano sempre indietro, gli uomini sono sempre più vigliacchi nell'affrontare l'autismo nella coppia, sono le donne che sono più forti”.
La sintesi perfetta di questo ragionamento è offerta dall’intervistato numero 2, che ammette i propri limiti sulle dinamiche di genere, comprende che il dato della presenza numerosa di donne nel lavoro sociale non determina una maggiore giustizia sociale né l’assenza, all’interno delle imprese sociali di svalutazioni, di discriminazioni e soprusi da parte dei colleghi maschi,
“Il lavoro sociale, aimè, questo lo dico stigmatizzandolo e segnalandolo come un limite non come elemento di cui farsi vanto, è legato ancora troppo all'idea che il lavoro di cura sia di genere femminile perché tradizionalmente assicurato dalle donne e quindi, indipendentemente da come noi vogliamo reclutare, nelle nostre imprese prevale l'occupazione al femminile perché oggettivamente ci sono più assistenti sociali donne che non assistenti sociali uomo, ma nei ruoli decisionali e di potere continuiamo ad essere di più”.
Risulta evidente che gli imprenditori sociali uomini, nonostante la volontà politica dichiarata, le spinte valoriali che orientano le loro azioni, il bisogno di contribuire attivamente al cambiamento positivo della regione in cui operano costruendo reti e partnership collaborative e perseguendo in maniera ottimale le loro mission, restano condizionati da radicati resistenze culturali che li spingono inconsapevolmente a riprodurre dinamiche di esclusione che rallentano l’affermarsi di leadership al femminile e non contribuiscono alla decostruzione del dominio maschile. Se da un punto di vista etico e politico sono schierati al fianco delle donne, nel senso pratico (Bourdieu, 1980) non sembrano rappresentare una reale e concreta alternativa per l’equità di genere alle aziende del profit.
Per quanto il presente lavoro non abbia l’ambizione di generalizzare i risultati prodotti, data la natura qualitativa del contributo e l’approccio metodologico utilizzato, circoscritto ad un’unica regione e ad un campione limitato, risulta evidente che per generare cambiamenti significativi nel complesso processo di decostruzione del dominio maschile non bastano le buone intenzioni e il rispetto della cornice normativa.
Attenersi al contratto collettivo nazionale, assicurare parità di retribuzioni a parità di funzioni, assicurare la tutela della maternità e scongiurare licenziamenti non sono dimensioni sufficienti per generare l’auspicabile cambiamento culturale che, parallelamente alla creazione di servizi, interventi e azioni oggettivamente mirate all’empowerment delle donne, deve essere sostenuto da una radicale rivisitazione critica di tutto l'ambito organizzativo delle imprese.
Fondamentale è infatti assumere una nuova consapevolezza dell’esistenza di un problema strutturale che non può prescindere dal partire dal proprio interno, ripensare la propria organizzazione con le sue dinamiche di potere scontate e naturalizzate dal proprio ordine simbolico, quell’approccio critico che per sintesi definiamo ottica di genere.
“Quell’approccio che sa leggere le discriminazioni ancora in essere ed assumere come dato di partenza che le persone non sono esposte al medesimo rischio di disparità ma è reale e persistente un pregresso, trasversale divario in ragione del sesso alla nascita che determina inevitabilmente una diversa traiettoria di vita a partire dalla socializzazione primaria” (Palladino, 2024).
Al di là di quanto emerso dai contenuti delle interviste, sono significativi i risultati delle attività realizzate dalle diverse cooperative e l’impatto sociale generato dalle loro azioni per dimostrare il loro diverso peso nel decostruire il dominio maschile. Dall’interpretazione del materiale empirico si considera che solo le cooperative con una governance al femminile e promosse con un’esplicita ottica di genere – che hanno quindi nella propria mission il contrasto alla discriminazione di genere - hanno generato nel tempo politiche complessive in grado di determinare cambiamenti significativi nei territori di riferimento realizzando buone pratiche note anche a livello nazionale sul tema oggetto di studio. Infatti, le imprese sociali più attive nel realizzare servizi per garantire l’occupazione di donne in condizioni di vulnerabilità e percorsi di inclusione sostenibili hanno promosso contestualmente interventi di sensibilizzazione e attivazione di reti locali sinergiche in grado di attivare trasformazioni culturali di contesto.
Dimostrare che è possibile riappropriarsi della propria vita nonostante condizioni di vulnerabilità estreme, superare le condizioni di inefficacia appresa tipiche dei contesti deprivati, marginali e violenti, recuperare dignità, autonomia, autorevolezza e libertà in territori segnati da illegalità diffusa e da molteplici fattori di esclusione è un elemento significativo non solo per i soggetti coinvolti nei percorsi di lavoro sociale sia nel ruolo di destinatari dei servizi che in quello di operatori ma per la valenza simbolica che tali percorsi veicolano. Le cooperative con leadership al femminile riescono così ad aprire un varco nelle frontiere del possibile e decostruire dalle radici le strutture del dominio maschile.
DOI 10.7425/IS.2025.01.09
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[1] https://ec.europa.eu/eurostateurostat
[2] https://www.osservatoriobilancisostenibilita.it/parita-di-genere-in-italia-nei-ruoli-executive/
[3] https://www.open-cooperazione.it/web/
[4] https://excelsior.unioncamere.net/pubblicazioni/2022/imprese-sociali#:~:text=Sono%20circa%2017.000%20le%20imprese,(Re<gistro%20Nazionale%20Terzo%20Settore).
[5] https://www.regione.campania.it/regione/it/tematiche/albo-regionale-delle-cooperative-sociali/aggiornamento-albo-regionale-delle-cooperative-sociali-q51s?page=
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