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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2025

Saggi

Narrazioni erranti dentro e fuori l’impresa cooperativa: un’indagine sulle storie di vita di chi resta e chi lascia la cooperazione sociale

Antonella Cuppari


Introduzione

Questo contributo analizza, attraverso un’indagine empirica realizzata in provincia di Lecco, il modo in cui gli operatori e le operatrici attivi nella cooperazione sociale attribuiscono significato al proprio lavoro e al percorso formativo ed esperienziale che li ha portati a sceglierlo. Inoltre, esplora le motivazioni che, per alcuni, hanno determinato la scelta di abbandonare questo settore per intraprendere nuove strade professionali.

Da ormai qualche anno, infatti, il lavoro sociale sta attraversando una crisi profonda, con sempre meno professionisti disponibili a lavorare come operatori sociali[1]. Il fenomeno sembra interessare in modo importante la generazione più giovane di operatori ma non solo. Ci sono professionisti che scelgono di lasciare la cooperazione sociale dopo pochi mesi o molti anni dal loro ingresso nel settore e altri che rifiutano proposte di lavoro nell’ambito o nemmeno si candidano alle ormai innumerevoli posizioni lavorative che rimangono aperte. È un fenomeno che osservo in primo luogo da dentro, come professionista che opera nella cooperazione sociale da quasi vent’anni: penso ad alcune colleghe che hanno dismesso i panni delle cooperatrici per un vecchio sogno nel cassetto, altri che hanno scelto di andare a lavorare nel pubblico, altri ancora che hanno investito su un progetto imprenditoriale proprio. Al contempo lavoro quotidianamente con colleghe e colleghi giovani, qualcuno fresco di studi universitari, altri che all’università ci sono approdati attraverso percorsi tutt’altro che lineari, magari proprio iniziati nella cooperativa come volontari di Servizio Civile o Leva Civica. In questo andirivieni di traiettorie, lavorare nella cooperazione è diventato un crocevia complesso di storie che intreccia dimensioni personali, organizzative, culturali, economiche e politiche. Marocchi (2024) cita alcuni fattori determinanti questo movimento, per lo più di uscita, dalla cooperazione: il diffondersi di meccanismi di accreditamento e di standard di qualità che tendono a proceduralizzare e parcellizzare il lavoro; istanze per l’ottimizzazione dei servizi a discapito delle componenti relazionali; una certa pressione, indotta da talune teorie sulla valutazione, a dimostrare risultati immediati; l’enfasi sui contenuti professionali a discapito della componente trasformativa del lavoro sociale.

Di qualità del lavoro nel settore dei servizi sociali, in particolare nelle cooperative sociali, si è occupata molto la ricerca di Carlo Borzaga, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Il filone di ricerca sostenuto da Borzaga si poneva l’obiettivo di misurare non solo gli aspetti oggettivi come la retribuzione, ma soprattutto la dimensione “soggettiva” del lavoro, sfida complessa per ciò che concerne la misurabilità. Su quest’onda di ricerche, gli studi empirici degli ultimi venti anni hanno messo in luce il ruolo delle motivazioni intrinseche, relazioni e sociali, dell’equità procedurale e interazionale percepita, dell’autonomia operativa sul lavoro e della partecipazione nei processi decisionali come determinanti del benessere dei lavoratori (Carpita, Depedri e Tortia, 2023). Recentemente una ricerca realizzata da Euricse e commissionata da Confcooperative d’Adda nelle imprese sociali delle province di Lecco, Sondrio e Monza-Brianza (Depedri, Bonazza e Lattari, 2024) ha cercato di comprendere le motivazioni dell’elevato tasso di turn-over giovanile rilevato oggi nelle cooperative sociali (35,8% nelle 24 cooperative sociali analizzate). Il quadro che emerge mette in luce la copresenza di diversi fattori endogeni ed esogeni che spiegano il significativo turn-over. I principali risultati mostrano come il lavoro sia considerato dai giovani cooperatori un’opportunità formativa e di crescita dentro un percorso evolutivo professionale non necessariamente predefinito. Inoltre, le aspettative verso il lavoro sono molto concrete e materiali (stipendio, orario di lavoro, inquadramento contrattuale). Ad influenzare infine la scelta di lasciare il settore sono anche i modelli organizzativi legati al rapporto con l’ente pubblico e la scarsa visibilità e riconoscimento sociale delle professioni di cura.

Il tema della (in)visibilità del lavoro sociale professionale trova un suo senso dentro l’evoluzione stessa dei servizi (Cuppari e Luraschi, 2024; Gibelman, 1999). Ciò che oggi costituisce l’organizzazione nazionale e regionale dei servizi alla persona vede la sua genesi negli anni ’80 quando nasce quello che diventerà il privato sociale (Berzacola e Galante, 2014). I servizi nacquero in quegli anni prima ancora delle norme che li definiranno negli anni successivi, in un lungo lavoro legislativo volto a dare legittimità, forma, diffusione e sostenibilità ai servizi nascenti. Uscire dall’invisibilità aveva l’obiettivo di dare uniformità alle prestazioni sul territorio nazionale e garantire equità e accesso. Le norme hanno così sollecitato i servizi a raggiungere uno standard minimo di prestazioni e la presenza dei servizi sui territori ha anche permesso alla domanda sociale di uscire allo scoperto, rendendo visibili persone che, fino a quel momento, erano relegate all’invisibilità delle mura domestiche. La crescente enfasi sulla professionalizzazione delle pratiche ha, da un altro punto di vista, portato nel tempo i servizi a porre eccessiva enfasi sulla responsabilità tecnico-strumentale e sull’operatività, con un conseguente disinvestimento sui tempi “di pensiero” e una progressiva autoreferenzialità delle organizzazioni a discapito della riflessione critica e trasformativa delle stesse pratiche (Cuppari e Luraschi, 2024). Questa condizione ha reso muto il paradosso insito in chi si occupa di lavoro sociale professionale, quell’“esserci per non esserci” che si fa portatore di uno sguardo che sogna (Dolci, 1974), primo gesto di cura capace di vedere il potenziale e immaginare futuri possibili (Cuppari e Luraschi, 2024).

Se il lavoro perde di senso, non vi è gratificazione economica che tenga (Marocchi, 2024): questa considerazione non ha l’obiettivo di trovare un senso che renda l’operatore sociale felice anche con remunerazioni misere, ma di evidenziare l’urgenza di riaprire una riflessione collettiva sul lavoro sociale (ibid.).

È proprio nell’ambito di queste riflessioni collettive sul lavoro sociale, sostenute anche dalla ricerca empirica, che questo contributo si inserisce, riportando i risultati di una indagine svolta nella provincia di Lecco che ha coinvolto 12 cooperatori e cooperatrici sociali - che hanno lasciato o ancora lavorano nell’ambito della cooperazione sociale - in interviste in profondità sulle loro storie professionali.

Nel prossimo paragrafo saranno illustrati gli obiettivi dell’indagine e il metodo di ricerca adottato. Successivamente, verrà presentata un’analisi dei dati, basata sui temi emergenti dal materiale narrativo. Infine, questa analisi consentirà di sviluppare alcune riflessioni conclusive sul tema trattato.

Ricerca: obiettivi e metodo

Mettersi in ascolto delle storie professionali e di vita di operatori sociali che hanno attraversato o ancora transitano i sentieri della cooperazione permette di “mettere insieme frammenti, interpretare eventi personali e collettivi, disporli coerentemente entro biografie altrimenti incoerenti e sconnesse” (Gosetti, 2014, p. 62), nella consapevolezza che le vite personali e le biografie individuali di questi professionisti sono intimamente connesse agli eventi storici, al cambiamento sociale e ai processi strutturali più ampi (Bauman, 2014). Le storie di vita individuali, infatti, possono offrire un materiale molto utile a generare riflessività critica e sistemica su un dato fenomeno (Cuppari, 2021; 2022; Cuppari e Formenti, 2023). L’esplorazione di questo tipo di storie non mira a misurare dimensioni ritenute chiave per la comprensione del fenomeno ma a costruire teorie “dal basso”, cioè che prodotte dai diretti interessati, gli insiders, per esplorare con loro il senso di fenomeni nuovi o poco conosciuti, cercando le spiegazioni nei particolari e nei dettagli delle vite umane (Formenti, 2012). L’approccio narrativo non considera solo il livello micro, nel quale i soggetti coinvolti costruiscono le loro narrazioni e teorie di quello che accade, ma anche un livello macro, nel quale sono all’opera i fattori strutturati, i processi sociali, organizzativi, culturali che influenzano e determinano il campo delle possibilità e, infine, il livello meso, cioè il piano delle interazioni concrete (ibid.). Questi tre piani devono essere interrelati per dare senso alla complessità delle storie di vita.

La scelta di coinvolgermi in questo progetto di ricerca per le interviste a colleghi del contesto territoriale in cui vivo e lavoro come cooperatrice, aveva l’intento di garantire un setting di indagine il più possibile confidenziale, a partire da un terreno esperienziale e culturale comune.

Il campionamento è stato a palla di neve, perché l’obiettivo era quello di intercettare persone che avessero una potenziale ricchezza di esperienza da condividere e motivazione nel farlo. Delle dodici persone intervistate:

  • 4 erano di genere maschile e 8 di genere femminile;
  • 7 erano occupate nella cooperazione e 5 avevano lasciato la cooperazione;
  • 3 avevano meno di 30 anni, 6 avevano tra i 30 e i 45 anni e 3 più di 45 anni;
  • tutte avevano almeno una laurea triennale;
  • 7 erano educatori e 5 assistenti sociali;
  • 1 lavorava in una cooperativa con meno di 50 lavoratori e le altre lavoravano/avevano lavorato in cooperative tra i 100 e i 500 lavoratori.

Le interviste, semistrutturate, sono state realizzate attraverso l’uso di piattaforme digitali o in presenza presso le sedi di lavoro o il domicilio degli intervistati, a seconda delle preferenze espresse dagli stessi. Ad ognuno è stato fatto sottoscrivere un consenso informato e sono stati comunicati gli obiettivi e l’oggetto della ricerca e la modalità di trattamento dei dati. Le interviste sono state registrate e trascritte.

Per l’analisi e l’interpretazione del materiale narrativo mi sono avvalsa di un approccio umanistico-soggettivista (Merrill e West, 2012). Tale approccio invita i soggetti a pensarsi come partecipanti attivi nell’interpretare e dare senso alle narrazioni. Per ogni intervista trascritta, letta e riletta più volte, sono stati identificati dei temi emergenti con l’intenzione di integrare i dati con la teoria e le intuizioni in un processo interpretativo vivo e dialogico.

Vista l’ampiezza del campione oggetto di questo studio, tale indagine non mira a giungere a interpretazioni rappresentative ed esaustive della complessità del fenomeno, quanto a proporre una via d’indagine e di riflessione capace di esplorare punti di vista periferici (Lave e Wenger, 1991), di professionisti che hanno attraversato o vivono ancora i sentieri della cooperazione sociale.

Analisi dei dati e temi emergenti

L'analisi del materiale narrativo, registrato e trascritto, ha permesso di far emergere alcuni temi chiave, caratterizzati da elementi comuni e distintivi, che saranno approfonditi nei paragrafi seguenti. Osservati nel loro insieme, questi temi delineano un percorso di senso che gli intervistati hanno progressivamente costruito attraverso il racconto della propria esperienza.

Il primo tema riguarda i passaggi che hanno condotto alla scelta di intraprendere una professione nel settore sociale e alla sua conferma o meno nel tempo. Il secondo si concentra sulla qualità del rapporto tra il cooperatore e l’organizzazione cooperativa, nonché sul grado di consapevolezza rispetto all’essere e al sentirsi parte di un’impresa cooperativa. Il terzo tema esplora gli elementi di gratificazione lavorativa, mentre il quarto analizza le motivazioni che hanno spinto alcuni intervistati ad abbandonare l’ambito della cooperazione sociale. Infine, il quinto tema riguarda il riconoscimento sociale della cooperazione, sia a livello micro, attraverso l’esperienza personale degli intervistati, sia a livello macro, in relazione alla percezione e alla narrazione della cooperazione sociale da parte dell'esterno. L'analisi complessiva di questi temi consentirà di formulare alcune riflessioni conclusive.

La “vocazione” sociale tra punti di svolta e transizioni

Nelle traiettorie che hanno portato le persone intervistate alla scelta di intraprendere un lavoro sociale professionale, ad eccezione di un piccolo gruppo che riconosce un’inclinazione personale presente precocemente nella loro vita, per la maggior parte è possibile identificare punti di svolta, esperienze formative o di cittadinanza attiva che hanno assunto un valore orientativo significativo, avvenuto nella delicata fase di transizione all’età adulta. Di seguito alcuni stralci narrativi, riportati a titolo esemplificativo:

Questa propensione al lavoro educativo arriva da un viaggio fatto in Africa all’età di 17 anni come volontario internazionale, un campo di lavoro di un mese presso un centro per bambini di strada di Nairobi. (…) Sicuramente questo viaggio mi ha permesso di sviluppare questa… predisposizione che forse… mi apparteneva già un pochino. Non era ben delineata all’inizio per cui non ho scelto una facoltà che mi indirizzasse già verso una professione educativa; questa cosa è maturata con gli anni all’università. (Giovanni, 43 anni, cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Alle superiori ho fatto perito tecnico industriale, ma durante un’esperienza in un campeggio estivo avevo avuto questo incontro con i ragazzi della comunità di Exodus e lì mi è nata l’idea che, anziché andare a lavorare in fabbrica, mi sarebbe piaciuto di più lavorare con le persone. (Milo, 36 anni, ex cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Ho fatto l’educatore per vent’anni ed è stata un’opportunità in un momento della vita che mi è piaciuta molto. In quinta superiore ho fatto un’esperienza di volontariato europeo in un centro diurno per persone con disabilità. Quando ho iniziato a fare sociologia all’università, ho continuato a fare volontariato fino a quando la cooperativa che lo gestiva mi ha proposto di fare delle sostituzioni. Ho accettato: mi piaceva il servizio, mi piaceva l’ambiente e guadagnavo qualcosa mentre finivo gli studi. Quando mi sono laureato, per un po’ di anni sono stato assunto come educatore. Io però non ho mai voluto fare l’educatore, lo sapevo benissimo che quegli anni erano di passaggio e sarebbero serviti per la mia formazione futura. (Luca, 46 anni, ex cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Per molti, la scelta di intraprendere un percorso formativo e professionale nel sociale non è frutto di un progetto definito a priori, ma il risultato di un’evoluzione maturata attraverso esperienze significative, veri e propri punti di svolta nelle loro traiettorie di vita. La natura non lineare e non predeterminata di questi percorsi conferisce valore ad alcune esperienze incontrate lungo il cammino formativo, spesso descritte nelle narrazioni come momenti decisivi che hanno riorientato il loro percorso. Nell’ultimo stralcio narrativo, inoltre, il lavoro in cooperativa si inserisce in un più ampio sviluppo professionale, già proiettato oltre i confini della cooperazione sociale.

Non sono solo i punti di svolta a disorientare e riorientare i percorsi professionali, ma anche le transizioni che nella vita di un lavoratore inevitabilmente si fanno avanti come nei casi seguenti:

Sono rientrata al lavoro dopo la maternità. Avevo avuto un anno difficile (…) sentivo la fatica di non avere più un pezzo, che era quello di essere partecipe in cooperativa. Già quando avevo lasciato il CDA sentivo la cooperativa più distante. Facendo solo l’educatrice mi mancava un pezzo. Poi rientrata da mamma e con il COVID ero consapevole che quel pezzo lì non sarei riuscita a prenderlo e trovavo la cosa molto frustrante. In più il vissuto di quel periodo lì era che era tutto lontano da me, eravamo tutti divisi e dall’altro lato avevo il desiderio di fare altri figli… immaginarmi a fare semplicemente la scolastica mi ha fatto dire che era meglio fare l’insegnante. Da operatore semplice sei distante dalla cooperativa, per come era in quel momento la mia vita non potevo fare di più. (Claudia, 43 anni, ex cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

C’è stato un momento della mia vita in cui ho pensato di andare via ma era più legato al non sapere dove andare dopo il rientro dalla maternità. C’era l’arrabbiatura di non sapere e lì mi sono detta “cerco un altro lavoro”, sempre nel sociale comunque. Poi sono rimasta. Ogni tanto quando ci penso, se dovessi lasciare la cooperativa è per fare un altro lavoro, non per andare in un’altra cooperativa. Mi piace, ci investo anche il mio tempo extra… come quando sono andata a Torino (all’ “Agorà delle educatrici e degli educatori” organizzato da Animazione Sociale nel 2023, NdA) e ora con colleghi di altre cooperative stiamo lavorando a dei temi… tutto tempo volontario che ci permette di guardare il nostro lavoro, la crisi della professione educativa. Mi piace questa parte e mi piace farlo per la mia cooperativa. (Clarissa, 35 anni, cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

Nelle narrazioni delle due operatrici, il rientro dal congedo parentale si palesa come momento critico di rottura, che porta a rimettere in discussione il significato attribuito fino a quel momento al proprio ruolo di cooperatrici. Sia nelle loro testimonianze che in quelle di altri intervistati, non riportate qui per ragioni di sintesi, sembra emergere l’assenza di una cultura organizzativa consapevole dell’importanza dei punti di svolta e delle transizioni nella costruzione delle traiettorie professionali, e in grado di supportare adeguatamente questi momenti critici.

Lavoro sociale e cooperazione sociale

L’ingresso nel mondo del lavoro professionale sociale quasi per nessuna delle persone intervistate ha coinciso con una conoscenza a priori della cooperazione sociale come forma organizzativa. Questo percorso conoscitivo della propria cooperativa viene descritto in modi diversi, con delle differenze particolari. Per alcuni degli intervistati, in particolare operatori attivi in servizi territoriali come l’educativa scolastica, l’educativa domiciliare minori e il servizio sociale di base, la consapevolezza di essere parte di un’organizzazione cooperativa viene legata alla presenza effettiva di un servizio che, nelle funzioni di coordinamento, è capace di essere punto di riferimento per l’operatore e parte terza nella relazione con l’ente committente:

Io non avevo grandi conoscenze su cos’era la cooperativa. Sapevo che con la mia laurea avrei trovato lavoro lì. Ci sono stati momenti di incontro in cooperativa, periodicamente li facciamo e lì davvero mi rendo conto di come funziona. (…) Tra educatori che lavorano nelle scuole ci si confronta: la mia cooperativa è molto presente anche nelle comunicazioni con la scuola. Ci arrivano mail in cui ci spiegano i passaggi di comunicazione, mi sembra che ci sia un canale tra la cooperativa e la scuola. (Vera, 45 anni, cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

Per me la cooperativa è un punto di appoggio. La scuola non penso ami molto la cooperativa, ci sono regole diverse. Alle scuole serve avere educatori ma molte non sentono dietro il servizio, se non quando c’è qualcosa che non va in quello che faccio. Io non sono molto informata sui limiti della cooperativa, fin dove possono spingersi. (Isa, 23 anni, cooperatrice, < 5 anni nella cooperazione)

Io sono assunta dalla cooperativa che a sua volta risponde a un ente pubblico ma io lavoro per l’ente pubblico e rispondo a lui. Però c’è assonanza, c’è relazione, le comunicazioni vengono date da entrambi. La mia coordinatrice è di cooperativa, il mio direttore è di Consorzio e il mio dirigente è del Comune. All’inizio capire i riferimenti è stato faticoso. È cambiato anche il Consiglio di amministrazione, hanno prestato attenzione ai nuovi assunti, dedicandoci momenti in cui spiegarci i servizi della cooperativa e ad oggi mi sento serena, non ho problemi a chiamare la cooperativa se ho un problema di foglio ore o chiedere al mio direttore di consorzio. È chiara la suddivisione dei ruoli. (Carla, 26 anni, cooperatrice, < 5 anni nella cooperazione)

È forse utile fare una precisazione che in parte spiega la presenza efficace della cooperazione nei servizi a titolarità pubblica, che emerge nelle narrazioni di questi tre operatori. Il contesto territoriale di questa ricerca è la provincia di Lecco. La presenza capillare di cooperative sociali nate e cresciute in questo territorio e l’esperienza più che ventennale maturata nell’ambito della co-progettazione con gli enti pubblici locali ha richiesto, da un lato, alle cooperative di uscire dall’autoreferenzialità per trovare modalità di collaborazione e progettazione tra loro e con gli altri attori locali e, dall’altro, ha portato ad un certo punto alla necessità di innovare la forma di governance locale con la costituzione nel 2019 della prima impresa sociale italiana a capitale misto pubblico-privato per la gestione dei servizi di welfare.  Nonostante la complessità di gestione di un tale modello di impresa, la possibilità, attraverso tale passaggio, di ridare valore e slancio alla capacità delle cooperative stesse di innovare (e quindi immaginare il nuovo oltre l’esistente e la mera prestazione di manodopera al pubblico) è un elemento percepito positivamente anche da parte di operatori che hanno poi scelto di non lavorare più nella cooperazione ma che comunque continuano a interfacciarla quotidianamente, come nel caso di Licia, assistente sociale dimessasi dalla sua cooperativa dopo aver vinto un concorso pubblico:

Ventitre anni fa ci si faceva molta concorrenza tra cooperative, adesso si coopera. Ventitre anni fa come assistenti sociali siamo state affidate all’ente pubblico. L’ente pubblico ti formava, mi è stato detto “andrai in un servizio dove le dipendenti pubbliche ti insegneranno a lavorare”. Negli ultimi anni eravamo noi della cooperativa a insegnare alle colleghe appena entrate. E poi ho visto la possibilità di pensare e progettare, di muoversi da soli, di avere delle proprie idee e propri servizi. Ci sono delle professionalità nuove che grazie alla coprogettazione sono emerse, come per esempio il custode sociale (Licia, 48 anni, ex cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione).

Per un altro intervistato, l’essere parte di una cooperativa sociale di territorio, che ha investito sui legami con gli attori sociali e con la comunità, rappresenta un punto di forza per l’opportunità che offre di cambiare e crescere professionalmente:

Vedo la mia cooperativa come qualcosa di ben solido nel territorio. Sono davvero dappertutto gli educatori della cooperativa (ride). (...). Ci sono tante possibilità e stimoli per gli educatori. Non è che tu fai l’educatore domiciliare a vita mentre ci sono cooperative che si occupano solo di educativa scolastica o educativa domiciliare per minori. (Dario, 28 anni, cooperatore, < 5 anni nella cooperazione)

In nessuna delle narrazioni analizzate sopra, gli intervistati si definiscono esplicitamente come cooperatori sociali. La loro identità professionale è espressa principalmente in termini di ruolo, ad esempio 'sono un educatore' o 'sono un operatore del servizio sociale di base'. La cooperativa è percepita più come un datore di lavoro o un intermediario efficace nel rapporto tra l’operatore e il servizio di riferimento, soprattutto nei contesti in cui la titolarità è pubblica. Questo aspetto solleva interrogativi su come e in che misura le organizzazioni cooperative coltivino al loro interno una cultura cooperativa e ne trasmettano i valori, andando oltre la semplice (pur se in molti casi buona) gestione dei servizi. Solo due degli intervistati dimostrano una conoscenza della cooperazione che va oltre la buona amministrazione del servizio e la consapevolezza di far parte di un’organizzazione più ampia. In questi casi, emergono anche aspetti distintivi dell’impresa cooperativa, come l’inclusività, la democraticità e l’azione collettiva:

Per me essere cooperatori sociali è lavorare senza guardare solo al proprio pezzetto ma al bene comune, sapendo che il mio agire ha una ricaduta e che a volte è portatore di politiche che possono fare la differenza. Questa parte più politica l’ho scoperta strada facendo, forse era lì come un piccolo germoglio e poi l’ho sentita uscire. A me ha colpito come in un percorso soci organizzato dalla mia cooperativa, un collega aveva portato come oggetto rappresentativo del suo lavoro l’articolo 3 della costituzione. Ho pensato che il nostro lavoro, cavoli, sta tutto lì. (Clarissa, 36 anni, cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

La cooperazione è un buono strumento per raggiungere obiettivi territoriali, comunitari. Quando ci lavoravo avevo una percezione parziale, vedevo un pezzettino solo. Oggi mi sento di dire che ho scoperto delle cose guardandola dall’esterno. (Carla, 34 anni, ex cooperatrice, <5 anni nella cooperazione)

Le gratificazioni

Relativamente agli elementi di gratificazione nel lavoro, oltre alla possibilità di fare un lavoro che piace e risponde alle proprie inclinazioni personali, la maggior parte degli intervistati fa riferimento al cambiamento che la propria azione professionale genera sulle persone di cui ci si prende cura:

Mi piace che non mi sento mai da sola, anche se ci sono tutti questi soggetti diversi con cui interfacciarmi. La gratificazione arriva anche dalle persone, quando vedi che ce la fanno da sole dopo una piccola spinta. (Gaia, 26 anni, cooperatrice, < 5 anni nella cooperazione)

I principali motivi di gratificazione sono quando riesco a vedere di aver innescato un movimento di cambiamento che prima non vedevo (…). A me piace anche collaborare in rete per riuscire a smuovere queste situazioni croniche. (Ida, 32 anni, cooperatrice, < 5 anni nella cooperazione)

Io sono contenta di fare il mio lavoro. Mi gratifica la relazione con i bambini, quando ti riconoscono, si affidano, vedono in te una figura di riferimento. Quando si lasciano guidare e stanno bene vuol dire che stai facendo bene il tuo lavoro. (Vera, 45 anni, cooperatrice, > 5 anni)

Lavorare in un servizio pubblico della cooperativa è diverso dal lavorare in cooperativa e fare cooperazione. È diverso. Se uno è all’interno della cooperativa e fa cooperazione forse la vive in maniera diversa. Essendo dentro un ente pubblico senti la cooperativa come un datore di lavoro. Certo tra colleghi c’è sempre stato un buon clima, anche il coordinamento della cooperativa. Ma la mia gratificazione arrivava dal lavoro che svolgevo. (Carla, 34 anni, ex cooperatrice, < 5 anni nella cooperazione)

 

Nell’ultimo estratto narrativo, in particolare, l’intervistata distingue il lavorare per la cooperativa all’interno di un servizio di titolarità pubblica dal lavorare in cooperativa e fare cooperazione. Questa differenza è, a suo modo di vedere, il motivo per cui la gratificazione per lei non sta tanto dall’essere personale di cooperativa quanto dalla professione che si trova a svolgere. Solo per due intervistati viene riportato come elemento principale di gratificazione la possibilità di generare un cambiamento non solo personale ma anche sociale e politico:

Il lavoro in cooperativa mi è servito su due versanti: quello che ho imparato emotivamente e relazionalmente con l’utenza che ho gestito, un bagaglio di costruzione di relazioni e di gestione dell’emotività; poi mi porto a casa uno sguardo sociale sui problemi. (Luca, 46 anni, ex cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Ho scelto un lavoro che non è solo sociale ma anche politico, un muoverci all’interno dei servizi che ricade su un benessere collettivo. Ho la consapevolezza di non essere solo un operatore di servizio ma che il mio lavoro può fare la differenza anche su altri contesti, su delle politiche, ha uno sguardo molto più ampio. (Clarissa, 36 anni, cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

La possibilità di cogliere l’impatto generato dalle proprie azioni non solo sul piano del cambiamento individuale (livello micro) ma anche sociale e politico (livello macro) sembra collegarsi con la consapevolezza di non essere solo operatori sociali ma parte di un’impresa collettiva più ampia.

Quando dalla cooperativa ci si allontana

Se manca l’elemento di cambiamento sociale e viene meno il senso di appartenenza a un’impresa cooperativa inserita in un sistema più ampio di relazioni, capace di dare concretezza ai principi fondamentali della cooperazione (inclusività, democraticità, azione collettiva), il lavoro in cooperativa fatica a competere con mansioni analoghe che offrono condizioni contrattuali più vantaggiose. Lo spiega bene Claudia:

Ho fatto il concorso per insegnante anche per i vantaggi per la mia famiglia. Adesso lavoro a 2 km da casa e con un tipo di contratto più garantito. (…). Nella cooperativa è responsabilità tua non partecipare. Nella scuola, dove ora lavoro come insegnante, tutta questa parte non c’è: fai il tuo lavoro, non devi dire la tua. Qui a scuola il lavoro è solo il mio lavoro. Senza quel pezzo lì di partecipazione, lavorare in cooperativa o lavorare nel sociale da un’altra parte è per me la stessa cosa. Tanto vale lavorare da un’altra parte. (Claudia, 43 anni, ex cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

Anche per altre persone intervistate, laddove vengono meno alcune peculiarità dell’impresa cooperativa che danno sostegno alle motivazioni soggettive e intrinseche degli operatori, o nelle fasi della vita in cui le motivazioni estrinseche e soggettive come la retribuzione acquistano un peso più rilevante, la cooperazione perde attrattività e spinge a fare altre scelte, come nel caso di Milo:

Essendo un papà di quattro figli, non avendo una prospettiva di crescita a livello professionale che mi avrebbe portato a un incentivo economico maggiore, quando ti trovi a gestire un alto numero di utenti con un basso stipendio, ti trovi a riflettere sulla tua situazione familiare. (Milo, 36 anni, ex cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Dal canto suo Carla riporta come fattore determinante nella scelta di lasciare la cooperativa anche un orario lavorativo spalmato su più servizi in relazione alle richieste dei committenti pubblici, con relativi spostamenti e costi aggiuntivi:

Ho bisogno di lavorare. E questo ad un certo punto incide sulla vita. (…) Lo stipendio non riusciva a garantirmi al 100% determinate cose. E come tu sicuramente puoi immaginare, ci sono gli spostamenti tra i servizi, i costi accessori. Ci sono dei contratti più vantaggiosi. Per cui ho fatto un concorso pubblico e sono arrivata sesta. (Carla, 34 anni, ex cooperatrice, < 5 anni nella cooperazione)

Se la frammentazione del tempo di lavoro dell’operatore non viene inserita in un’organizzazione che, da un lato, lo aiuti a dare senso e coerenza ai suoi interventi e, dall’altro, lo supporti nella gestione delle difficoltà e dei costi – non solo economici – legati a questo impegno, essa si traduce in uno svantaggio. In tal caso, il lavoro non offre alcun valore aggiunto rispetto a mansioni analoghe nel settore pubblico.

Linguaggi, narrazioni e riconoscimento

In molte delle narrazioni delle persone intervistate ad un certo punto emerge il tema dello scarso riconoscimento sociale del loro lavoro e della cooperazione sociale in generale. L’invisibilità senza una narrazione che le dia senso dentro una visione di lavoro cooperativo fondato proprio sulle relazioni, la partecipazione attiva, la collaborazione, la promozione del protagonismo delle persone, si traduce nella sensazione di non essere visti e quindi riconosciuti nella capacità di produrre cambiamento e fare la differenza:

La percezione dal fuori del settore è che non sanno dove collocarlo. Tu lavori a scuola, allora sei un insegnante, tu lavori da un’altra parte e allora sei… cosa sei? Tu lavori dove? C’è sempre… io devo sempre spiegare quello che faccio. C’è l’insegnante e c’è l’insegnante di sostegno. E poi c’è l’educatore… cosa fai? Sei insegnante? In classe i bambini mi chiamano maestra. Poi però c’è la maestra che ci tiene a distinguere i ruoli. Le persone esterne non capiscono mai cosa faccio (Vera, 45 anni, cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

Molte persone vedono il lavoro nella cooperazione come una cosa semplice. Per esempio, parlo con mio papà che mi vede spesso al computer e mi chiede: “Cosa stai facendo?”. “Sto lavorando”. “Ma come, fai l’educatore!” (…). C’è una percezione strana e diversa. C’è molto altro nel mio lavoro oltre il semplice ‘vado a casa del bambino e lo faccio giocare’. (Dario, 28 anni, cooperatore, < 5 anni nella cooperazione)

Per molte persone è difficile definire chi siamo, cosa facciamo… forse perché lavoriamo in tanti contesti. (…) Trovo sempre faticoso far capire. Siamo un mondo che non riesce a raccontarsi. (Clarissa, 36 anni, cooperatrice, > 5 anni nella cooperazione)

La mancanza di una narrazione collettiva consapevole su questi aspetti caratterizzanti il lavorare cooperativo, secondo alcuni degli intervistati, viene percepito dall’esterno come forme d’impresa opache, a basso costo:

Mi è capitato di sentire dire da persone fuori dal nostro ambito di lavoro che le cooperative sono quelle che ti fregano. (Claudia, 34 anni, ex cooperatrice, < 5 anni nella cooperazione)

Il cittadino che non lavora in ambito sociosanitario non conosce la cooperazione se non associata al lavoro interinale piuttosto che ad alcuni scandali (Roma Capitale), e la abbina a una dimensione di sotto lavoro. (Luca, 46 anni, ex cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Gli intrecci tra pubblico e privato sono quella cosa che per chi non c’è dentro sono di difficile lettura. E per chi arriva dal mondo dell’imprenditoria è difficile dire in che termini ci si pone nel lavoro dentro una cooperativa. (Milo, 36 anni, ex cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Per Giovanni e per Luca tale consapevolezza apre una riflessione critica sul linguaggio che la cooperazione usa per parlare a sé stessa, alle imprese e ai cittadini:

La percezione è che il linguaggio della cooperazione sia molto distante e ciò rende difficile integrare persone provenienti da mondi diversi. Chi arriva dal mondo imprenditoriale fa molta fatica a calarsi in un contesto più democratico, come quello della cooperazione (Giovanni, 43 anni, cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

Oggi la cooperazione sociale deve tornare a parlare ai cittadini. Di fronte alle crisi climatiche, ambientali, sociali, del lavoro cosa ha da dire la cooperazione? Perché queste crisi impattano sui cittadini. (…) Oggi i cittadini si trovano da soli di fronte ai problemi globali. Anche i cooperatori sono cittadini e si trovano a vivere questi problemi. (…) La cooperazione deve tornare a parlare ai cittadini, in primis con le famiglie che aiuta ma anche con le famiglie vicine a quelle che aiuta. Sono tutte portatrici di problemi ma anche di interessi che possono aiutare a costruire modelli di servizio differenti. (Luca, 46 anni, ex cooperatore, > 5 anni nella cooperazione)

In questi ultimi estratti narrativi emerge un tema che è quello connesso a come la cooperazione racconta sé stessa, si renda comprensibile e sia capace di uscire dal proprio “mondo”. Tale tema può costituire un’occasione per riflettere su quanto e come la cooperazione sociale abbia valorizzato nella comunicazione interna ed esterna quelle peculiarità che sono proprie dell’impresa cooperativa. Il tema di come la cooperazione si narra può essere utile anche al fine di ripensare i legami di senso tra livello micro (intrasoggettivo, i valori e le motivazioni che orientano il cooperare nei singoli operatori), meso (intersoggettivo, la partecipazione alla vita democratica dentro e fuori l’organizzazione cooperativa) e macro (transoggettivo, l’agentività politica del mondo cooperativo nella relazione con il contesto storico, economico, sociale e politico più ampio).

Conclusione

Il benessere e il malessere di chi lavora nella cooperazione - e probabilmente non solo - si costruiscono nel percorso: non si nasce cooperatori sociali ma la scelta di intraprendere un percorso formativo e professionale nella cooperazione è frutto di una traiettoria che si definisce e si modifica strada facendo e che viene influenzata nella sua direzione da punti di svolta e transizioni. La metafora del percorso è stata portata a conclusione delle interviste da oltre la metà delle persone coinvolte, quando è stato chiesto loro di esprimere come si sono sentite a narrare la loro esperienza. Il piacere nel raccontare la propria storia è stato restituito come apprezzamento per aver potuto godere di un tempo e di uno spazio in cui “ripercorrere”, “rivivere”, “rileggere e raccontare il percorso nella cooperazione” (si riprendono qui alcune delle espressioni utilizzate dagli operatori), utile anche per la possibilità di “rimettere a posto i pezzi”.

Le variabili di questo percorso sono il risultato di interazioni tra un lavoratore, portatore di specifici bisogni nelle diverse fasi di vita, di valori, di aspettative professionali e relazionali, e un’organizzazione, anch’essa costantemente in evoluzione in relazione alle variabili storiche, economiche, politiche e culturali che l’attraversano.

La curiosità verso le storie professionali di operatrici e operatori sociali non è stato solo un esercizio utile a comprendere più da vicino la crisi che sta attraversando il lavoro nella cooperazione sociale. Si è trattato, invece, di una attenzione volta soprattutto a creare un contesto che permettesse agli operatori sociali di dire e dare voce a questa crisi.

Nelle narrazioni di molti dei partecipanti, la scelta di intraprendere un lavoro sociale professionale è maturata a seguito di esperienze formative e di cittadinanza attiva, punti di svolta che hanno orientato le traiettorie di vita. Sono per lo più esperienze maturate in fasi della vita intrinsecamente orientate al futuro, come l’ingresso in età adulta.  La conoscenza dell’essere parte di un’impresa cooperativa è arrivata successivamente ed è stata descritta in modo diverso dai partecipanti. In alcune narrazioni la cooperativa è stata vista limitatamente al suo essere punto di riferimento facilitante il rapporto con l’ente pubblico committente. In altre narrazioni la consapevolezza di essere parte di un’impresa cooperativa si è aperta anche alle peculiarità che la dovrebbero contraddistinguere: inclusività, democraticità e azione collettiva. Ciò è stato facilitato dalla partecipazione a percorsi di riflessione interni all’organizzazione e rivolte ai soci.

La scelta di lasciare il proprio lavoro nella cooperazione viene legata a fasi particolari della vita, come l’essere genitori, o ricondotta alla fatica di un lavoro frammentato caratterizzato da molti spostamenti. Laddove il valore aggiunto della cooperazione viene meno, laddove la partecipazione non è vista come punto di forza ma come limite, la scelta di chi ha lasciato la cooperazione viene motivata a partire da alcuni elementi estrinseci come la retribuzione, la stabilità contrattuale e la conciliazione vita-lavoro.

La mancanza di occasioni dove far crescere una cultura cooperativa interna e in relazione alle sfide sociali, e la mancanza di una narrazione che permetta alla cooperazione di essere vista e legittimata nel valore sociale che produce, non aiutano gli operatori ad uscire dalla dimensione “del proprio pezzettino” e impattano sulla costruzione di senso. Questo vale sia a livello micro (i lavoratori perdono il senso del proprio lavoro) che meso e macro (la cooperazione rimane nell’invisibilità, vista però nella sola dimensione negativa di non produttività, cioè che non produce valore sociale).

Se si guarda alla carriera nella cooperazione come un percorso, la permanenza nell’organizzazione non è data dal trovare un lavoro soddisfacente una volta per tutte quanto dalla capacità dell’organizzazione di comprendere come i bisogni e le aspettative professionali e personali evolvono in relazione al percorso dei propri operatori. Questa comprensione è poi necessario che si traduca in pensiero organizzativo, che interroghi l’organizzazione al pari delle variabili esterne al sistema. Gli strumenti di cui oggi la cooperazione dispone per fare questo possono essere molti: percorsi soci, innovazioni che mettano al centro la costruzione di legami comunitari, l’investimento sulla formazione. Io stessa ho avuto la possibilità, proprio grazie al supporto della mia cooperativa, di intraprendere un percorso di dottorato aziendale che mi ha permesso di acquisire competenze di ricerca da rigiocare nel mio lavoro, attraverso il coinvolgimento attivo di colleghe e colleghi cooperatori.

Un ultimo punto toccato da tutte le persone intervistate riguarda infine la peculiarità immateriale del proprio lavoro che purtroppo, in assenza di narrazione, si traduce in scarso riconoscimento sia degli operatori che della cooperazione in generale. L’invisibilità, al contrario, potrebbe costituire proprio il superpotere della cooperazione sociale che, esplicandosi in assenza di divisa e camice bianco, nel porsi negli interstizi tra istituzioni e cittadini, porta uno sguardo obliquo sui problemi, dà valore alle reti, alla creazione di legami, come afferma un collega cooperatore che stimo molto, Massimo Bevilacqua, presidente del consorzio Sol.Co. di Sondrio:

La forma cooperativa è finita, la pratica di cooperazione è infinita: lo spartito e la musica. (…) Ci siamo abituati (…) a curare la forma cooperativa (…). Anche il fuori, però, ci deve interrogare. (…) Si tratta di uno spazio in cui possiamo prenderci cura non tanto della forma cooperativa, quanto, invece, della pratica del cooperare. (…) È una narrazione quasi dimenticata. (Bevilacqua, 2023, pp. 70-72).

DOI 10.7425/IS.2025.01.06

 

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[1] Per facilità comunicativa nel testo userò per lo più il maschile sovresteso per indicare lavoratrici e lavoratori operanti nella cooperazione sociale, nonostante sia consapevole dell’elevata sensibilità alle questioni di genere, sia nell’ambito della ricerca che in quello del lavoro sociale professionale.

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