L’articolo si propone di osservare approccio e metodologia di una governance dinamica di un’impresa sociale in ambito culturale, disegnata seguendo alcuni criteri; per farlo è richiesto un viaggio d’avvicinamento, parziale e non esaustivo, all’interno di una direttrice che attraversa la dimensione relazionale e l’innovazione culturale: tutti ambiti che incrociano la rigenerazione urbana e sociale a leva culturale e la produzione di futuro e che delineano organizzazioni modulari, orizzontali, efficaci, capaci di adattarsi e di produrre cambiamento.
La vita delle imprese sociali in ambito o a leva culturale incrocia esigenze intersettoriali, risponde a molteplici bisogni e vive nella contemporaneità, caratterizzata da incertezza e vulnerabilità. Grazie alla capacità di cogliere molteplici sfide, le imprese sociali in ambito culturale contribuiscono alla creazione di nuove risorse e opportunità per le comunità locali, attivando e animando sviluppo economico armonico e coesione sociale. Tutto ciò porta a pratiche organizzative via via più complesse, che comportano la definizione di una struttura, di regole, protocolli, e di conseguenza processi di governance articolati.
Il centro di questo articolo verte proprio sul come dare vita a governance dinamiche e partecipate, che possano sostenere le organizzazioni che operano nel settore culturale: le imprese sociali che in tale ambito sono nate e operano e che in tal modo possono aspirare a funzionare con attenzione sia alla dimensione relazionale, sia a quella innovativa, considerate entrambe come intrinseche al fare cultura e avere impatto.
Si descriverà il processo, l’attivazione e l’evoluzione di una governance dinamica, portando l’esempio di Magnete a Milano, la cui forma e struttura organizzativa e di governance è stata elaborata dopo alcune fasi di sperimentazione. Prendendo le mosse da questa esperienza, si analizzeranno alcuni aspetti, così da delineare un breve e parziale vademecum metodologico.
Nel primo paragrafo si tratterà il ruolo della cultura come leva di sviluppo e di coesione, per considerarla una dimensione del futuro. Proseguendo nelle riflessioni su quali siano i fattori chiave e superando di fatto la distinzione tra matrice attrattiva e generativa, si andrà brevemente a verificare il ruolo della cultura per curare il senso e l’operatività di tutti quei soggetti che sono impegnati nel contesto sociopolitico attuale nell’attivare prospettive di cambiamento a vantaggio delle comunità.
Si procederà quindi con una breve definizione del campo di osservazione: quello della rigenerazione urbana a base culturale, che ha dato forma a centri comunitari o culturali di nuova generazione, la cui formula sarà brevemente descritta; tali centri sono quindi presi ad esempio, senza pretesa di esaustività, delle tante possibili applicazioni di intrapresa culturale realizzate e realizzabili.
Si arriverà infine a trattare il caso specifico, Magnete e la sua governance, da cui trarre spunti metodologici, definendo dapprima il contesto di quartiere e una breve cronistoria, come cornice entro la quale osservare l’esperienza. Qui è opportuna una sottolineatura, fin da subito: non si propone il racconto di un caso per proporne l’emulazione, ma per osservare metodologicamente come si è lavorato su alcuni cambiamenti di cultura operativa, necessari per produrre innovazione di processo anche a livello organizzativo.
Si propongono infine, a conclusione, alcune note e spunti critici, destinati a organizzazioni consapevoli e votate alla creazione di futuri possibili.
“Perché la cultura è importante? (…) A tale domanda si può rispondere affermando che è nella cultura che prendono forma e nutrimento le idee del futuro, al pari di quelle che riguardano il passato”. Appadurai A., (2011)
Se la cultura è pensata come dimensione del futuro, intendendola - seguendo Appadurai - come una “piattaforma”, uno spazio dove può avvenire un processo di empowerment e di capacitazione, tale da permettere un’immaginazione di futuro (Mulgan, 2022), è necessario domandarsi quale tipologia di cultura stiamo considerando. Non si pensa a una cultura elitista, o ancorata (non dovrebbe esserlo più) all’idea di status e al mantenimento delle differenze sociali e di censo presenti nella società, né a una cultura cosiddetta “alta”, separata da quella cosiddetta “bassa”.
Ci si riferisce qui ad una cultura, una proposta di ricerca e di offerta culturale, che possa essere di attivazione, di co- creazione e di partecipazione attiva, di disturbo e di lavoro anche intorno al potere e ai poteri, e di apertura verso nuovi equilibri anche in ottica “more than human” (Puig de la Bellacasa, 2017). Si delinea una cultura sostenibile nel senso di equa e aperta, capace di dare forma ai linguaggi, e di ascoltare e accogliere i modi e i linguaggi diversi che agiscono nella nostra società. Una cultura che coniughi ricerca e al contempo apertura e divulgazione, con tanti strati di lettura e di avvicinamento, tanti quanti sono le persone e le comunità che si intendono attrarre o a cui si intende dare spazio di parola. Una cultura, che sia in grado di dare vita a un nuovo uno spazio politico, di cittadinanza piena e attiva, di cucitura e di reinvenzione di senso[1].
La cultura, quindi, è una leva che produce futuro, perché permette di curare il senso e il significato dell’agire comune, permette di rivedersi, rispecchiarsi, prefigurare; permette di sviluppare capabilities, capacità concrete di mettere in atto azioni e strategie per modificare il proprio futuro, perché parte dalla capacità di poterlo immaginare autonomamente come prodotto di un gruppo accomunato da un medesimo interesse. Questo ascrivere la cultura alla dimensione del futuro è applicabile anche quando si lavora quasi esclusivamente sul patrimonio culturale, materiale e immateriale, considerando tutte le pratiche di conservazione preventiva e programmata o di restauro e tutte le azioni di curatela, studio e ricerca, produzione di servizi, e di valorizzazione.
Il paradigma della valorizzazione ha introdotto ulteriori criteri di valutazione della vitalità del patrimonio culturale, con un focus specifico sulla relazione con i pubblici: a iniziare dalla didattica museale, fino ad arrivare ai nuovi servizi di mediazione e divulgazione culturale, spesso derivanti o interconnessi con le esperienze di turismo culturale, o agli esempi di mediazione culturale per adulti e alle azioni di people engagement o di citizenship attivate dai musei, istituzioni che ambiscono ad agire come luoghi rilevanti per le loro comunità (Simon 2016). Si cita, a questo proposito, il caso emblematico del Museo di Volterra, Pinacoteca che contiene la Deposizione del Rosso fiorentino; il Museo, mentre si scrive, sta avviando un processo per diventare living lab, ovvero uno di quei luoghi di comunità e di innovazione, dedito ad ospitare processi di co-creazione, di invenzione collettiva, ad essere un luogo di scambio, confronto e di interazione[2].
Il patrimonio culturale, la cultura per esteso, agisce come una potente leva economica: anche in questo senso è appropriato definirla come una dimensione del futuro, non solo perché capace di attrarre pubblici, siano essi turisti o visitatori o pubblico interessato ad un’esperienza di intrattenimento culturale, ma proprio perché può agire coniugando sviluppo economico e coesione sociale e può quindi sostenere una crescita equa e inclusiva (ICOM, OCSE, 2019). Per questo è importante non cedere all’applicazione monodica della sola matrice attrattiva, quella cioè che permette di contare il numero di visitatori e di individuare poi l’impatto prodotto nel tessuto economico della città.
Questa tendenza, che in fondo ha una storia antica - dai tempi del grand tour l’Italia è meta privilegiata per visitatori appassionati di arte e antichità, di città d’arte e paesaggio - ha preso ultimamente una portata tale da essere qualificata come over tourism, fenomeno che produce un attrito sempre più forte con i coesistenti interessi e necessità della cittadinanza: è richiesto quindi di individuare soluzioni per progettare uno sviluppo economico-sociale più armonico. Mentre si considerano possibili strategie alternative, emerge nel dibattito pubblico, tra addetti e professionisti, la questione del come dare valore alla cultura in sé, per ribilanciarne il ruolo e ridare slancio a ricerca, attività, azioni e opere, numero e tipologia di operatori del settore e, in definitiva, per rinforzarne la natura intrinseca di bene comune (O’ Connor J., 2024, Polivtseva E., 2024), facendo valere la cultura come un vero e proprio patrimonio collettivo, un living heritage, la cui vitalità sia considerabile in modo multidimensionale.
È un tempo, il nostro, in cui nei molti incontri pubblici, forum e ricerche tra operatori di settore e non solo, si chiede di sostenere politiche pubbliche che mettano a fuoco quanto il ruolo della cultura possa essere promosso sia secondo una matrice attrattiva (prevalentemente turistica, ma anche legata alla creazione di imprese culturali e creative), sia contestualizzato dentro la matrice generativa (coesiva e multidimensionale) come leva di sviluppo dei territori, di miglioramento dei collanti sociali, di immaginazione, di contrasto alle povertà culturali ed educative, di empowerment e di capacitazione, di welfare culturale e di cura (cura è una “parola matassa”, fatta da un insieme intrecciato di significati, come si argomenterà più avanti).
Qui si sta cercando di definire un campo di azione che non sia esclusivo o escludente, né meramente ornamentale o di intrattenimento, che produca effetti di sviluppo anche economico in modo giusto e inclusivo, e infine che consideri la dimensione politica, coesiva, di rigenerazione e gli effetti virtuosi che essa può produrre nella nostra società.
Stiamo mettendo in contatto diverse funzioni normalmente appartenute a settori tradizionalmente vissuti come separati, quello del sociale e quello della cultura; lo possiamo fare anche seguendo le traiettorie che hanno portato in evidenza il tema e le pratiche legate all’innovare, nei due settori, sociale e culturale, e nell’intersezione tra i due.
Se l’innovazione sociale può essere descritta criticamente in un momento di disincanto o di necessità di riattivazione del desiderio (Venturi e Zandonai, 2024), quella culturale è tutt’oggi molto meno univocamente definita e osservata. In sintesi, quando si parla di innovazione culturale lo si fa in misura minore con riferimento all’evoluzione delle formule di governance - per quanto sia stato forte il dibattito intorno agli accordi quadro pubblico-privato, alla costruzione del migliore governo del patrimonio culturale e della sua efficienza ed efficacia, con riferimento ai conti economico-finanziari, ai numeri prodotti e ai pubblici attratti e coinvolti - mentre molto più spesso si parla di innovazione con riferimento ad alcuni portati: tra tutti il principale è quello dell’innovazione tecnologica e digitale, anche se ultimamente prende rilevanza anche la dimensione partecipativo-comunitaria e legata al benessere, producendo nei casi migliori ambiti di ricerca e rilevanza internazionale come quelli delle digital-humanities e del welfare culturale. Ci si sofferma su quest’ultimo punto, proponendo alcune citazioni significative sul tema:
“La Nuova Agenda Europea della Cultura 2030 (maggio 2018) indica come pilastri delle prossime decadi i crossover culturali, ovvero le relazioni sistemiche e sistematiche con altri ambiti di policy, un tempo debolmente interconnessi, in primis quello tra cultura e benessere. Perché il Welfare culturale si innesti nella quotidianità del Paese, diventando leva sociale ed economica, occorre superare la frammentarietà degli interventi e puntare ad azioni di sistema” (Fondazione Symbola, 2022)[3]
La voce dedicata dalla Treccani al “welfare culturale” (Cicerchia A, Rossi Ghiglione A, Seia C, 2020) indica alcune caratteristiche che servono a definire interconnessioni utili per proseguire il nostro ragionamento verso la descrizione di un caso di governance dinamica. Il welfare culturale infatti è descritto come:
“un nuovo modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale” fondandosi “sul riconoscimento, sancito anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, dell’efficacia di alcune specifiche attività culturali, artistiche e creative, come fattore: di promozione della salute; in ottica biopsicosociale e salutogenica, anche legato all’acquisizione di abilità di coping, e sviluppo delle life skill; (…)”.
Sono messi in contatto non solo diversi settori, ma anche diversi habitus operandi, tratti sia dal mondo culturale, sia da quello della cura e della salute. Entrambi hanno in comune una forte dimensione relazionale.
Nel parlare di impresa sociale nell’ambito culturale non possiamo non considerare la presenza di diversi modi di intendere il lavoro di ricerca e di produzione di servizi, di diverse forme organizzative, e non ultimo di diversi modi di intendere l’innovazione. Tutti accomunati però dal desiderio di produrre cambiamenti significativi e nel caso culturale anche rispetto al modo consueto di fruire e di “vivere” un patrimonio culturale come quello italiano, vasto, diffuso, soggetto a diversi vincoli di conservazione, e a una nuova spinta di valorizzazione e di ingaggio del pubblico. Cambiamenti significativi che agiscono e hanno impatti misurabili nei confronti di reti di stakeholder, di gruppi di beneficiari, di parti delle proprie comunità, sempre più spesso collegati a una dimensione non estrattiva del valore economico e di sviluppo ma relazionale, comunitaria, generativa e di cura.
Questa lunga introduzione permette di sgombrare il campo da una possibile dissonanza, quella che ancora ci porta a leggere i fatti culturali in modo alternativo o secondo criteri propri della matrice attrattiva, quindi prevalentemente legati alla lente economica (i numeri di visitatori attratti e gli effetti di moltiplicazione economica di un dato evento o luogo culturale), o secondo valori appartenenti alla matrice generativa quindi più riferibili alla lente sociale (tipologie di esperienze prodotte, effetti misurabili nel tempo, superamenti dei divari economici e culturali di accesso) e alle opportunità che dati eventi o luoghi culturali producono anche per gli abitanti. È opportuno abbandonare la contrapposizione didascalica, che non permette di assolvere a un’analisi del campo vasto e ibrido di soluzioni e realizzazioni. Ad esempio, osserviamo quando, nel produrre servizi di tipo turistico per rendere visitabili luoghi archeologici o culturali che si giovano della presenza di turisti oltreché di cittadini, si producono lavoro e inclusione sociale per categorie specifiche e si creano servizi di inclusione e di accessibilità; in molti casi si lavora sui linguaggi di mediazione culturale, compresi quelli tecnologici e digitali, ma anche quelli creativi e artistici; quasi sempre si sta innovando un settore e si sta, nei casi migliori, lavorando proprio a ricercare un equilibrio e un bilanciamento tra esigenze e bisogni, curando le proprie attività, la propria organizzazione, il proprio pubblico di riferimento, le comunità su cui ricadono gli effetti, in modo ampio. Si fa, volendo semplificare, riferimento sempre di più a una cultura che cura: ma quale tipo di cura intendiamo in questo documento?
Lo si accennava, il termine cura, è parola “matassa”, come la definiscono Màdera e Janigro (2023), e include molte professioni e linguaggi disciplinari che la utilizzano per intendere un complesso sistema di procedure e protocolli: qui si fa principalmente riferimento alla cura come sistema di relazioni, come cucitura di senso propria del fare e rifare mondi, parte anche del mestiere di progettista e innovatore culturale. Condividiamo la constatazione del collasso della capacità sociale di sostenere i legami e le relazioni (Fraser 2017), e al contempo non si può non osservare quanto le “potenzialità etiche delle emozioni” siano fondamento per le domande di giustizia sottese alle pratiche di cura (Pulcini 2020), tutto a riportarci al significato politico e di policy del termine cura. Con cultura che cura, si fa riferimento ad una prassi trasformativa basata sul fatto che tanto la cura, quanto la cultura siano intrinsecamente relazionali.
Molte di queste riflessioni si rispecchiano con quanto il “Manifesto della cura” (The care collective, 2021) evidenzia quando, prendendo le mosse dalla critica alle politiche socio-sanitarie che hanno sottratto capacità di cura alle fasce economicamente più deboli a favore di quelle più ricche, propone come antidoto la continua attivazione di comunità interdipendenti, plurali, diverse, spurie, grazie a quelle che chiama infrastrutture della condivisione (scuole, ospedali, biblioteche, piscine, piazze, centri e spazi pubblici)[4]. Sempre nel Care Manifesto, che afferma l’interdipendenza come un valore chiave da assumere anche per la progettazione, si richiama quanto la cura sia «la nostra abilità, individuale e collettiva, di porre le condizioni politiche, sociali, materiali ed emotive affinché́ la maggior parte delle persone e creature viventi del pianeta possa prosperare insieme al pianeta stesso». Al centro della cura e della cultura come pratica trasformativa di contrasto all’ingiustizia e di ri-costruzione nel tessuto urbano e sociale, sono poste le infrastrutture della condivisione, ossia tutti quegli spazi pubblici che generano scambi e connessioni solidali; a questo aspetto si dedicano le successive riflessioni.
Per un’organizzazione culturale superare la sterile distinzione tra attrattività e rigenerazione, posizionarsi quindi tra sviluppo economico coesivo e armonico e cura del benessere di tutti, significa implicitamente dare forma al futuro, costruendo piattaforme di ri-creazione di cittadinanza attiva, per aprire a un nuovo modo di intendere il curare e il curarsi; inoltre permette al settore culturale, che rappresenta anche grazie al coinvolgimento di altre organizzazioni, un ambito d’azione trasversale a diversi altri, di creare sperimentazioni e modelli organizzativi ed economici che producono trasformazione, cambiamenti; e che può offrire insieme servizi per beneficiari al di fuori del mercato e offerta culturale a pubblici paganti.
Considerato tutto ciò, e sapendo che il ventaglio di attori, realizzazioni e organizzazioni di tipo culturale che si possono considerare è davvero ampio, proviamo a concentrarci sulla realizzazione e gestione di centri culturali di nuova generazione, centri ibridi, community hub, living lab, punti di comunità, in tutti quei luoghi che come infrastrutture della condivisione, hanno storie di fondazione diverse, e raccontano di diverse pratiche economico-organizzative, di coesione e di rigenerazione sociale.
“Le forme rigide e sovradeterminate stanno soffocando la città moderna. Gli ambienti non flessibili reprimono la libertà d’azione delle persone ostacolano le relazioni sociali informali e inibiscono la capacità di crescita della città. In questo libro proponiamo un modello di progettazione urbana alternativo e sottodeterminato. Un city making che per mezzo di “perturbazioni” (disruptions) sovverte le forme rigide, realizzando al loro posto progetti che migliorano la vita.” Sendram P, Sennet R, (2022)
In Progettare il disordine, Sendra e Sennett analizzano la relazione tra individuo e comunità portando in evidenza alcuni concetti non secondari: la relazione tra individuo e comunità, tra “solitudine” e condivisione, tra libertà dell’individuo e articolazioni del potere e relazione con lo spazio. Lo spazio può essere generatore di veri processi partecipativi e di co-design, con una differenza netta tra spazi determinati a priori e spazi “indeterminati”, anche caotici, e quindi liberi o dove maggiore è la possibilità di interazione e di determinazione da parte dei cittadini. Caos e creatività, semplificando un po’, per Sendra e Sennett sono due criteri da non osteggiare, ma da ricercare attivamente per fare emergere, grazie il protagonismo dei cittadini proprio a partire da un oggetto indeterminato. Gli autori sottolineano quanto gli interstizi e gli spazi di risulta siano il punto di partenza per l’attivazione di idee e azioni da parte degli abitanti, spesso con la costruzione di processi vivi e duraturi di presa in carico di aree abbandonate o mal utilizzate e loro trasformazione in luoghi ricchi di significato.
Questa è un’indicazione importante per il progettista che passa dall’osservazione, all’ingaggio, alla gestione e conduzione di processi di lungo periodo sul territorio. Risulta importante, anche per capire la linea di sviluppo di un’attività di rigenerazione urbana, seguire il processo che produce nuovi luoghi culturali proprio dalla dismissione di grandi spazi industriali o artigianali, da cambi di funzioni di molti margini sfrangiati del nostro territorio (sottopassaggi, giardini abbandonati, spazi in transizione). Nuovi luoghi culturali possono nascere insomma da “vuoti” cittadini, spazi in disuso o malusati, che vengono presi come occasioni per ricreare qualcosa che non c’era prima: luoghi di socialità, di formazione, di cultura. Nuove agorà di scambio e di condivisione.
Questi spazi vengono spesso ricreati, usando questi cosiddetti vuoti – sia urbani, sia sociali - come occasione di rigenerazione tramite processi e dinamiche sia di tipo top-down (interventi di risanamento gestiti a livello istituzionale, con fonti di finanziamento provenienti da piani di riqualificazione urbanistica o di sviluppo integrato d’area vasta, e poi con processi istituzionali quali avvisi, appalti di gestione, o altro, che chiamano in causa cordate temporanee di realtà già esistenti, messe in rete per l’occasione) sia in modalità bottom-up, con gruppi di cittadini e organizzazioni che si auto-organizzano per gestire, riusare, far rivivere. Questi ultimi spesso sono privi di risorse economiche, ma con un’energia degli inizi che fa da motore per una prima prefigurazione del cambiamento possibile. Questo tipo di “rigenerazione di senso d’uso” dei luoghi avviene per lo più in ambito urbano, anche se non mancano esperienze degne di nota in zone rurali o in aree a minore densità abitativa. Quasi sempre si producono punti di ritrovo, nuovi servizi, luoghi che producono aggregazione e coesione sociale. Sempre di più sono luoghi orientati a rispondere a temi e domande sociali emergenti o che pongono l’accento su specifici aspetti significativi per la qualità della vita delle comunità: povertà educativa o culturale, invecchiamento attivo, orientamento al lavoro, accrescimento delle opportunità formative, ecc.
La leva culturale è quella maggiormente utilizzata per attivare le comunità, per renderla partecipe, per produrre protagonismo; serve inoltre a sostenere orientamento e formazione al lavoro, in certi casi a sostenere il contrasto al fenomeno dei NEET e infine a stimolare ricerca e produzione culturale anche in contesti non istituzionalmente votati a questo, ma che in questo modo diventano capaci di creare programmi di ricerca e di produzione di rilievo anche in contesti internazionali.
I modelli economici e organizzativi di questi centri culturali cambiano molto da un’area d’Italia all’altra: normalmente hanno una parte di finanziamento pubblico, derivante da bandi o da diretta erogazione da parte delle amministrazioni locali, sempre integrata da una parte di vendita di servizi, ristorativi, formativi, o di affitto location (più utile e praticabile in contesti urbani dove il costo per metro quadro degli spazi è significativamente alto). Hanno modelli di gestione organizzativa ed economica che cambiano a seconda della composizione e varietà degli stakeholder coinvolti, e portano in breve tempo ad esiti diversi nello sviluppo e nelle realizzazioni. Come detto, sono moltissimi gli esempi da osservare e da valutare, come vasta è la letteratura su questo fronte, sia nel produrre mappature sia nella valutazione della qualità e dei raggiungimenti di queste molte esperienze e realizzazioni[5]; tuttavia in questo contributo ci si concentrerà su un caso specifico, quello di Magnete[6] Milano, funzionale a raccontare un processo e per trarne alcuni spunti metodologici, con riferimento soprattutto al momento in cui è stata disegnata la governance.
“(…) per esempio, governo può designare il controllo di un cavallo, di un’automobile o di una nave (“com’io vidi una nave piccioletta / venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto”, scrive Dante in Inferno, VIII, 15-17). Quest’ultimo è anzi il suo senso originario, dato che il latino gubernum (che a sua volta viene dalla terminologia navale greca) designava il timone di un’imbarcazione; e quindi il senso di regolazione e controllo di organismi complessi, e perfino dello Stato, deriva già per metafora dal governo della nave”. Sulla governance, Accademia della Crusca[7]
Dalla ricerca etimologica arrivano suggerimenti interessanti sul termine governance che, tramite la comune radice in governo, riporta al timone di un’imbarcazione e alla metafora della navigazione; governance rimanda quindi a quell’azione di controllo, di definizione di strumenti, risorse, pratiche per indirizzare e manovrare un’organizzazione - come un’imbarcazione - mentre è in movimento e compie il suo viaggio, lungo il suo percorso verso la meta. Dunque, la governance contiene nella sua radice etimologica un’azione dinamica e chiede un primo ragionamento volto a pensare strutture di governo agili, capaci di adattarsi e di esprimere appieno la complessità che devono attraversare.
Quando parliamo di nuovi luoghi culturali, così come di imprese sociali in ambito culturale, ci riferiamo spesso a organizzazioni originate da processi creativi o da percorsi di attivazione culturale e comunitaria, promosse da un collettivo o da un manipolo di avanguardisti o da un gruppo di organismi di settore: ma quali regole di gestione si danno questi soggetti, come orchestrano le persone che operano all’interno del processo, con quale sostenibilità, con quali strumenti e rituali?
La vita di queste intraprese culturali, siano esse nuovi centri culturali o nuove organizzazioni di servizi o creativo - artistiche, collegate o slegate da un luogo fisico specifico, porta a delle pratiche organizzative via via più complesse, che comportano struttura, regole, protocolli e di conseguenza rituali di governance.
“La governance è un disegno complesso che rappresenta internamente ed esternamente l’evoluzione delle relazioni e delle interdipendenze all’interno e all’esterno di un’organizzazione. È frequente vedere che si pone la fondazione di una governance istituzionale, prima di avere chiarito quali siano disegno strategico, modello organizzativo, forza operativa, risposte. È un processo vivo le cui frizioni portano già in seno i germogli di soluzioni e le soluzioni contengono le frizioni cui rispondere. Progettare la governance diventa quindi un lavoro di continuo sensemaking in grado di dare forma alle soluzioni e creare lo spazio per far emergere le frizioni nel momento in cui nascono.”[8]
Se la tentazione forte è quindi quella di avere soluzioni pronte per individuare, nella rosa dei modelli già sperimentati e funzionanti, quello più adatto alla propria organizzazione, l’approccio qui descritto è invece quello di indagare i bisogni i desideri, di osservare le esperienze che si intendono vivere o che già si producono e di condurle a un livello di realizzazione che permetta di individuare il proprio strumentario (all’inizio sarà più probabilmente un galateo interno di conduzione, o forse un processo che per adattamenti successivi raccoglie prassi e modifiche da tutti i componenti del gruppo di lavoro) di regolazione di relazioni, servizi, flussi di lavoro ed economici, di comunicazione interna ed esterna, per giungere infine solo dopo riflessione e osservazione di quanto sperimentalmente realizzato alla migliore forma giuridica, perché derivante dal proprio modello empirico di funzionamento economico e organizzativo.
Quindi non si propone come buona prassi un modello di governance da adattare a qualunque centro culturale o a qualunque impresa culturale, ma di seguito si potrà leggere il racconto di un’esperienza che a livello metodologico può dare spunti da seguire per crescere ed evolversi, pensando la propria organizzazione come fosse un essere e un ecosistema vivente e in mutamento.
“Noi accediamo al futuro quando ci rendiamo disponibili al cambio della grammatica del nostro pensiero”. Baricco A. (2022)
“Certo il futuro che ciascuno di noi può costruire è forse piccola cosa rispetto a quello che va disegnandosi attorno a noi. Al contempo se riusciamo a costruire alleanze significative, legami sufficientemente forti abbiamo qualche possibilità in più di incidere. Incidere nel senso appunto dello scrivere cosa sarà di noi, di chi e di cosa ci interessa. È anche vero che le organizzazioni vivono il futuro, sempre e comunque, perché tutte le azioni che compiono determinano il futuro. Non si tratta di costruire o meno il futuro, perché questo accade comunque, si può però pensare o no al futuro, ed il pensarlo implica la disponibilità e la capacità di tenere insieme visione, consapevolezza, sperimentazione, coraggio, incertezza, rischio, paura, diversità, provvisorietà.” Gacci C., D’Agostino C., (2008).
Magnete nasce in una periferia di Milano, in un’area poco connotata, non dissimile da altre urbanizzazioni recenti in Italia, distante dal centro e da altre aree ben servite, con molti spazi verdi e pochi servizi. Il quartiere Adriano si trova nella porzione urbana al confine nord-est di Milano, territorio sospeso tra spazi vuoti, dismessi e in attesa di destinazione, con nuclei residenziali sviluppati in decadi diverse, servizi rarefatti e un tessuto associativo presente, ma che richiede di essere potenziato. Tra il 2016 e il 2019 e poi negli anni a seguire, il quartiere è interessato dal programma intersettoriale di rigenerazione urbana a base culturale “Lacittàintorno”, promosso da Fondazione Cariplo. Gli interventi previsti partivano dall’assunto cruciale che la cultura sia uno dei principali strumenti di rigenerazione territoriale, in quanto essenziale per migliorare la qualità e la vita delle persone. L’intero programma prendeva avvio dall’idea che il paniere culturale di un territorio e di una popolazione dovesse essere ricco e variegato, e che fosse opportuno lavorare sulla facilitazione dell’accesso e della partecipazione culturale.
Per questo nel quartiere Adriano avvengono diverse azioni: un approfondimento conoscitivo grazie alla ricerca del Politecnico (AA.VV. 2019; Cognetti F. - Gambino D. - Lareno Faccini J., 2020); un ricco programma di attività culturali, iniziando dalla festa, lunga 12 ore, di avvio del programma, Rompiamo le righe; il coinvolgimento di realtà piccole e grandi in laboratori di co-progettazione per giardini da ricreare (nell’ambito dell’azione congiunta tra Comune e Fondazione Cariplo dedicata ai patti di collaborazione); azioni di mappatura e costruzione creativa di nuove cornici di lettura dei quartieri fatta con i bambini, e molte altre macro azioni, compresa la disseminazione delle principali manifestazioni cittadine (Pianocity, Bookcity, Jazzmi) nel quartiere; fino a tutto il calendario di animazione culturale che diventa poi attivo con il nome Sottocasa (bando inizialmente destinato alle aree target del programma e successivamente aperto all’intero bacino regionale lombardo). Tutto questo serviva ad aumentare la capillarità dell’offerta, la biodiversità dei proponenti, e di fatto ad aumentare il raggiungimento di pubblici diversi e di diverse componenti della comunità. Nel programma l’offerta culturale andava in qualche modo a innervare una missione, quella di combattere divari e disuguaglianze territoriali, partendo dal rendere accessibili anche ai cittadini del quartiere Adriano nuove opportunità culturali. Un obiettivo non secondario era poi quello di agire sulla creazione di una geografia nuova che, grazie alla disseminazione di un’offerta culturale prevalentemente gratuita per il pubblico, permettesse di inserire il quartiere dentro i confini percepiti di Milano, attraendo quindi soggetti interessati all’offerta culturale anche da fuori quartiere.
Dentro questa cornice strategica si inserisce l’iniziativa Adriano community days[9] che, nata su ispirazione del format internazionale 100in1giorno, promuoveva un fitto calendario di due giorni in cui più di 60 realtà dislocate in diverse aree del quartiere (bar, circoli, piazze, aree del cantiere del Adriano community center, l’ex RSA che si stava rifunzionalizzando, giardini, spazi associativi, etc.) facilitavano la diffusione di attività culturali e aggregative, prevalentemente basate sul principio della co-creazione: nasce così un palinsesto ricchissimo, che va a innestarsi con quanto il programma aveva portato in quartiere.
Si stava lavorando sulla costruzione di un pubblico in quartiere (il tema del “pubblico” e del “non pubblico” è sia una questione strategica per l’offerta culturale, per istituzioni piccole e grandi, sia una questione di accessibilità e di superamento dei divari culturali ed economici), iniziando nel frattempo a individuare dove far cadere uno dei principali dispositivi del programma, quello di creazione di un punto di comunità, di un luogo culturale, uno spazio di aggregazione, che potesse fare da connettore tra diverse esigenze e possibilità.
Inizialmente era presente solo una volta di legno di un auditorium, senza le mura, in uno spazio di metratura non particolarmente ampia ancora a rustico che prometteva di diventare un Punto di comunità. La pandemia aveva messo in evidenza quanto fossero strettamente connesse le due funzioni che in planimetria erano distinte in due aree della struttura: quella della salute, dell’invecchiamento attivo e della cura sociosanitaria nelle volumetrie destinate a RSA, e quella della cultura come leva di rigenerazione sociale e territoriale nella porzione destinata a essere un cosiddetto auditorium. L’interconnessione e l’integrazione tra la base relazionale e la direttrice dell’innovazione, entrambe comprese nel concept di un nuovo luogo culturale e comunitario multifunzionale e interdisciplinare, hanno dato forma a un corpus di azioni, strategie, reti e alleanze e, al tempo stesso, allo sviluppo in modo graduale e parallelo di dinamiche di governance che, già prima della costituzione della forma societaria, hanno permesso di sperimentare la vitalità del progetto di Punto di comunità fin dal cantiere. Sottolineiamo questo passaggio, il primo passo: il concept nel rendere le due aree tematiche di cura e di cultura intrinsecamente interconnesse, e non semplicemente sovrapposte, poneva la base per una costruzione di attività e di scenari di sostenibilità non per silos settoriali, non per spazi separati e divisi, ma per integrazioni di competenze e professionalità e infine di pubblici, con un effetto anche sulla creazione dello spazio. Si individuava a livello metodologico uno scarto tra la progettazione soggiacente i bandi, tipica sia del mondo del sociale sia del mondo culturale, e la definizione di strategie e sfide proprie (rispetto alle quali trovare fonti di finanziamento), basate su fasi di ascolto e di sperimentazione. Dall’impianto strategico del concept che prevedeva di lavorare sull’ambito culturale, su quello della formazione, su quello del cibo, deriveranno una serie di azioni che porteranno a definire la governance nel tempo, per fasi intermedie, in modo adattativo rispetto al mutare delle condizioni (nel biennio pandemico) e all’emergere di esigenze e bisogni.
Come in una prova generale, la governance è presente fin dall’inizio, considerata come azione di apprendimento gestionale, che avviene effettivamente ad avvio di una qualunque impresa culturale quando, sperimentando servizi e risposta dei pubblici, si capisce quali ambiti funzionano meglio e come rendere l’intera organizzazione fluida e flessibile rispetto alle sperimentazioni, tra successi e inciampi, fino alla modellizzazione di alcuni format esterni e di alcuni rituali interni. Un approccio non diffusissimo, strettamente collegato alla radice dell’intervento, di tipo relazionale e con la forte componente innovativa, radice comune a questo tipo di nuovi luoghi culturali e in generale che caratterizza la fondazione della maggior parte delle imprese sociali e culturali di questo ultimo periodo. Dunque, impossibile non pensare contemporaneamente sia i momenti interni all’organizzazione, sia quelli destinati ai pubblici esterni: sia i rituali (Sennet 2012) - momenti che vanno a definire lo scambio di idee, la co-costruzione e la suddivisione delle responsabilità internamente -, sia i servizi per i pubblici e i format diversi erogati all’esterno, anche essi con una matrice prevalentemente collaborativa. Nel dare rilievo a questo aspetto si sta dicendo che la parte di progettazione delle attività (i format) è direttamente connessa con quella di definizione della migliore governance (i rituali e i modi per portare avanti l’organizzazione).
Per questo, la tentazione di individuare i partner in partenza e di metterli poi in operatività grazie a un bando, o a un finanziamento, definendo la forma societaria più adatta alla gestione, senza aver preventivamente lavorato in modo approfondito su una visione condivisa e sulle strategie da attuare, rischia di designare velocemente una governance, che viene però spesso percepita come astratta, perché non aderente e talvolta addirittura distante dall’operatività e dalla vita reale di un’organizzazione. Il rischio è di dare forma a organismi che ricalcano schemi organizzativi e di realizzazione più tradizionali, verticali e per canne d’organo: preludio di uno sforzo successivo e di un surplus di azioni da dedicare alla comunicazione interna, al ricucire le strategie per individuare strategie di collaborazione interne. Molte operazioni, sia top-down sia bottom-up, tendono a ragionare sulle forme prima ancora che sui contenuti, solo parzialmente accennati: il processo che descriveremo di seguito, quello per dare vita a Magnete, è partito per questo da ascolto, ricerca, sperimentazione, collaborazione.
Mentre si scriveva il concept del nuovo punto di comunità, un nuovo centro culturale per il quartiere, la prima struttura di governance disegnata nel concept prevedeva dunque questi punti essenziali:
Si strutturavano delle funzioni al servizio dello sviluppo graduale dell’impresa: una regia strategica, delle aree di intervento, dentro cui progressivamente far emergere i protagonisti, dei processi e alcuni strumenti o dispositivi di attivazione, eventualmente replicabili.
Un primo strumento di attivazione è stata la call chiamata “Future days” (un richiamo al futuro, con quel forte valore politico e poietico definito fin dall’inizio), che mirava ad aggregare potenziali partner in base alle idee che propongono. Alla base della call erano poste tre sfide: 1) come innovare ricerca e produzione culturale sapendo coinvolgere pubblici nuovi; 2) come lavorare tramite nuovi format e processi formativi per diminuire il divario culturale e il digital divide esistente in quel momento e per contrastare il fenomeno dei NEET; 3) come rendere l’ambito del cibo una piattaforma di aggregazione, coesione e scambio a supporto e integrazione delle altre aree di attività. A tutti i soggetti partecipanti si chiedeva di candidare un’idea che rispondesse a una o più sfide, di indicare i pubblici di riferimento, di individuare linee guida per la sostenibilità delle idee (tema destinato ad essere poi sviluppato lavorandoci poi insieme nel percorso successivo), e si chiedeva un portfolio di attività e i bilanci degli anni passati.
La call è stata molto ben comunicata, è diventata essa stessa bandiera dell’avvio di un processo che andava a lavorare sui contenuti prima ancora che sulla mura (la riqualificazione era in corso, il futuro punto di comunità era ancora un cantiere): la comunicazione se ben innervata con le strategie generali, facendone essa stessa parte, con i processi, con la governance, diventa un’azione intrinsecamente culturale, relazionale, e a tal fine è opportuno considerarla fin dall’inizio nella progettazione. La call era curata nel linguaggio, volutamente non burocratico, riuscendo così a richiamare molte candidature, tra le quali si è scelto di selezionare non la migliore idea in assoluto, ma le migliori parti di ogni proposta, per avviare un processo di co-design. Si è preferito azionare l’intelligenza collettiva che scaturiva dalla collaborazione, per disegnare risposte e servizi/dispositivi più validi rispetto alle sfide. La call è diventata quindi la scintilla per far partire un processo collaborativo che si è avvalso delle competenze e delle conoscenze delle persone partecipanti e che ha messo insieme organizzazioni diverse, per grandezza, per anzianità, per provenienza (locale ma anche extra locale), per settore di specializzazione, in un percorso non consueto di lavoro.
Si è scelto, come già detto, di progettare per strategie di risposta e di risoluzione delle sfide, sia per orientare la scelta dei migliori partner e alleati (scelti in base alla qualità e al valore delle proposte fatte), sia per elaborare le soluzioni progettuali più adatte, insieme e in fase successiva, e non più di privilegiare l’impianto per bandi (che definisce a priori partner e preimposta linee guida del progetto). Questo è stato un primo cambio di mindset operativo; il secondo è stato certamente quello di non lavorare per l’assegnazione di spazi, sui quali designare una destinazione d’uso, ma di progettare il tempo e i modi di viverli e usarli: vincolati di fatto alla non amplissima metratura (450 metri quadri), era necessario progettare considerando la porzione dell’auditorium come un tutt’uno da modificare continuamente, nell’ambito di una cornice polifunzionale, in modo tale da renderla continuamente adattabile al tipo di pubblico presente, alle attività e ai servizi proposti. Il concept - come la call - portava alla base del percorso alcune delle principali esigenze di innovazione, evidenziavano i cambi di habitus operandi, con richieste che proponevano uno scarto rispetto alle consuetudini di lavoro tanto dell’ambito sociale quanto di quello culturale. Derivando dal concept le sue principali caratteristiche:
“la call, sia per la spinta sulla coprogettazione, sia per il presentare un concept dello spazio regolato dai tempi d’uso e dalle azioni da condividere per pubblici di riferimento (e non appunto dalla assegnazione di metri quadri da recintare), conteneva alcuni dei principali tratti di innovazione che sono poi stati sviluppati sia nel calendario di attività fin dal primo periodo sia nel progetto di allestimento (a cura di Studio Gisto). Quest’ultimo correttamente comprendeva la valorizzazione degli spazi interni indivisi, tramite l’uso di oggetti molto grandi e componibili, sì da rendere l’assetto dello spazio sempre cangiante in base alle esigenze, e degli spazi esterni sapendo trovare il minimo, il retro, l’intimo, così lontano dalle rette verticali che tanto caratterizzano il quartiere: il tutto per favorire la varietà e l’inaspettato che nasce dall’incontro delle diversità. Questi e altri aspetti sono stati progressivamente integrati nel processo di apprendimento collettivo, come parti non trascurabili dell’essere parte di Magnete”. (Cavalli e Satta, 2025 in via di pubblicazione).
Dalla call for partners Future Days deriva il processo di co-design che abbiamo appena descritto, ma anche un palinsesto di attività (da luglio 2021 a marzo 2022), comprendente una serie di format e laboratori culturali e formativi rivolti ai pubblici della città, che permette da subito di realizzare le azioni e di proseguire nel dare forma e corpo alle comunità territoriali di quartiere, e al contempo lascia alle diverse organizzazioni la liberta di sperimentarsi nei ruoli di co-agenti dello spazio. Si iniziano a osservare le potenzialità, le risorse, le capacità e competenze; e al tempo stesso inizia ad emergere anche la vocazione dei diversi soggetti e l’intenzione di entrare nella gestione e come. Si arriva così a proporre una mappatura dei ruoli che ciascuno potrà rivestire all’interno del Punto di Comunità (elaborata con una sequenza di interviste singole a ognuna delle organizzazioni) per definire un modello che, a partire dall’input iniziale degli asset strategici, dell’impianto modulare e il più possibile reticolare e orizzontale, dell’innovazione e della competenza a rispondere a determinate sfide, ha portato all’individuazione da una parte di un nucleo ristretto di partner che poi saranno i fondatori della impresa sociale Magnete (nel 2022), e dall’altra di una galassia di partner da mantenere comunque legati. Si individua per questi ultimi una gradualità di intensità di partecipazione: come co-progettanti, co-agenti, co-abitanti dello spazio, così da delineare una rete di partner e alleati ciascuno con un ruolo corrispondente all’effettiva partecipazione all’iniziativa.
Si delinea così una governance a intensità variabile, che mantiene un nucleo fisso di gestione e che prevede come parte costitutiva, ma mobile, la galassia di partner. Sono disegnati e individuati gli strumenti per tenere i singoli partner collegati alla governance, con una corrispondenza equilibrata tra oneri e onori. Nasce così un programma di membership che individua determinate caratteristiche della partecipazione, una fee da investire nel progetto, possibilità, reti, relazioni e servizi. Il tutto è corredato da un primo disegno dell’articolazione dei flussi di lavoro (disegno dei work flow, delle relazioni e interdipendenze) emersi fino a quel momento e in previsione necessari per realizzare la vita concreta di Magnete. Emerge chiaramente, quindi, come il passaggio per delineare la governance abbia visto, prima della forma societaria, la definizione e conduzione di un processo per individuare le sfide, per attrarre i migliori alleati, abilitarli a mettere in circolo e a fattore comune competenze, interdipendenze, pubblici. Inoltre:
“prerogativa di questa nuova impostazione della Governance è la possibilità di farne parte anche rimanendo in un ruolo non centrale, collaborando per singole occasioni su singoli progetti, o producendo una co-progettazione per e di Magnete, portando il valore di un soggetto più a contatto con altri mondi, altri pubblici, altri bisogni. Aggiungiamo anche l’altra caratteristica, quella di un approccio trasversale che porta i livelli e le specializzazioni settoriali a contaminarsi l’un l’altro: non vanno considerati come dei livelli gerarchici dove chi ricopre un certo ruolo dirige le organizzazioni sottostanti né come delle canne d’organo che non comunicano tra loro.” (Satta 2023).
Molti dei partner di Magnete fotografati a fine 2021 non sono più presenti, mentre partecipano e sono entrati in membership nuovi soggetti nel corso del tempo: la natura dinamica facilita l’uscita come l’entrata mentre variano le condizioni. Proprio osservando questo aspetto dinamico della variazione dell’assetto di rete e al contempo richiamando all’intensità di impegno nella continua armonizzazione e cucitura dicevamo che “Magnete, come modello di community hub, prima ancora che un'impresa che opera la governance classica - amministrazione, gestione e regia strategica – è un'organizzazione orchestrante”. Molta attenzione, nella fase di accompagnamento lungo tutto il 2023 e buona parte del 2024, è stata posta sull’apprendimento continuo e diffuso, sull’aprire tavoli alle organizzazioni per prendersi cura di determinati aspetti in modo partecipato, e sul farlo con qualche indicazione semplice (format e canvas di progettazione, impegno definito e rispetto dei tempi, produzione di risultati in termini di format preselezionati e messi in produzione in base a criteri definiti e condivisi in partenza). Diversi rituali sono stati proposti, non tutti adottati immediatamente, che hanno promosso il legame interno ed esterno rispettivamente tra le organizzazioni e tra Magnete e il territorio. Cornice collaborativa, rituali e apprendimento continuo sono sicuramente i valori principali su cui si basa l’attività di un’impresa sociale e culturale di questo tipo.
In conclusione, si è cercato di mettere l’accento, nella descrizione del processo, sulla cornice relazionale e collaborativa e sui principali dispositivi utilizzati nella strumentazione metodologica per questo caso. È utile chiudere con qualche nota critica rispetto a un percorso così impegnativo.
Sicuramente è richiesta una grande dedizione per il mantenimento della cucitura di senso e per l’orchestrazione continua; dedizione che si traduce in risorse umane, metodologia e tempo, anch’essi da disegnare, sperimentare, e rimodellare con il crescere e il mutare delle condizioni. Non si deve mai dare per scontato che un buon impianto di governance non possa essere da rivedere, da vagliare di tanto in tanto, anche se ben funzionante. Può essere utile inoltre uno sguardo esterno (certamente questo è il ruolo sia di un consulente, inteso come un soggetto indipendente che guida i processi, individua metodi e propone processi e soluzioni, sia di un soggetto finanziatore che si proponga non solo come erogatore di fondi, ma che, pur nella terzietà del proprio ruolo, voglia agire anche nel policy making), simile, per tornare alla metafora della navigazione, alla funzione di un pilotino, un vascello leggero e agile, che aiuta nelle manovre il piroscafo che esce o rientra in porto. Può essere fondamentale lo sguardo anche interno di chi nell’organizzazione ha la mansione chiave di guidare l’innovazione e di portare il valore dell’accettazione dell’incertezza a favore della sperimentazione.
Quello che è stato possibile imparare infatti durante il percorso fatto è proprio il valore della vulnerabilità (termine che va ad accrescere l’acronimo VUCA - volatilità incertezza complessità ambiguità – adatto a rappresentare il tempo attuale) e come questo stimoli a curare lo spazio del cambiamento. Poter accogliere tra le caratteristiche della progettazione anche l’incertezza e la vulnerabilità permette di far emergere leadership responsabili e condivise che sanno nutrire visioni collettive, sapendole prima di tutto stimolare, poi animare e, quando serve, ricucire. Ricordandoci che la cura è di per sé relazionale (Tronto 2013; Puig de la Bellacasa 2017; Care Manifesto, 2021; Janigro e Madera 2023; Satta 2023) e che il curare il senso del fare (nel mondo, dentro le organizzazioni come al di fuori) è un’azione continua.
A proposito delle leadership, poi, quelle che emergono e quelle che sono definite, è importante che siano capaci di stare a cavallo di tante esigenze: la cura del senso, la guida dell’innovazione, l’orchestrazione delle dinamiche relazionali e organizzative, quasi a lavorare su nuovi patrimoni comuni: quanto le relazioni siano valore patrimoniale è oramai assodato, ma forse è soprattutto riprendendo in mano il senso dell’operare nell’ambito dell’innovazione sociale che emerge con forza quanto le dinamiche organizzative siano interconnesse con l’attivazione di un paradigma collaborativo che esso stesso costituisce un patrimonio dell’impresa[10]. Individuiamo a chiusura tre ultimi esempi per assumere alcune traiettorie proprie della contemporaneità e proporre alcuni spunti.
Il dato relazionale, senza confinarlo in momenti isolati della vita organizzativa, ma assunto come un modus operandi, diventa essenziale per navigare la società dentro e fuori le organizzazioni. È possibile citare la celeberrima performance d’arte relazionale dell’artista Maria Lai della durata di diversi mesi "Legarsi alla montagna" (Lai 2006), esperienza condotta nel piccolissimo paese di Ulassai all’inizio degli anni 80, che incontrò molti ostacoli nel suo farsi. Si scontrò proprio con il tema del conflitto, quello presente tra le famiglie di abitanti, e l'operazione stava per fallire, finché l’artista, ascoltando gli abitanti e con il passo laterale proprio dell’arte, non sceglie di acquisire il dato del conflitto, senza nasconderlo o edulcorarlo, e di rappresentarlo: diventa non un ostacolo né qualcosa da oscurare o censurare, ma un pezzo di realtà nel quale lei ha lavorato. Un pezzo dell'opera stesso. Operare anche con il conflitto, sapendolo ascoltare, sempre più è un pezzo del mestiere che è necessario portare dall’interno delle organizzazioni verso le società nelle quali si opera.
Il dato ambientale, come parte dell’innovazione oggi richiesta, fin dalla fase della progettazione ad arrivare a quella di governance. Citiamo Amitav Gosh (2019), uno tra i pochi, che parla del ruolo della letteratura e dell'arte nei confronti delle transizioni climatiche e di tutto ciò che dobbiamo fronteggiare in termini di giustizia sociale e climatica. Ma potremmo portare molti esempi (da Valencia alla Romagna) che chiedono di ripensare tutto un ecosistema di servizi e funzioni per poter essere, in previsione, sempre più pronti non solo a gestire le frequenti emergenze, ma soprattutto a prevedere luoghi e servizi che permettano di equilibrare le disparità sociali causate anche dal fattore climatico.
Il dato politico, di libertà di espressione e d’uso e accesso agli strumenti di produzione culturale, così importante nell’epoca dell’emergere del potere dell’intelligenza artificiale, strumento da utilizzare e dal quale non farsi usare. Nominiamo, a questo proposito, Method collective, un collettivo canadese inter disciplinare tra ambiente arte e tecnologia, che non si sottrae al confronto con la sfida (opportunità/minaccia) dell’intelligenza artificiale e cerca di lavorare sull'educare l’AI nell'intersezione tra culture e prospettive indigene e ambiente[11].
Forse è implicito nei punti precedenti, ma si preferisce esplicitarlo: separare la cultura, la cittadinanza attiva e la capacità di esercitarla pienamente, l’accesso alle risorse da quelle culturali in poi, e le tematiche ambientali, oggi è impossibile. Eppure, si continua a lavorare, anche quando siamo all'interno di organizzazioni avanzate e molto consapevoli, per silos: la cultura, e l'arte possono entrare in contatto con il mondo e i valori della coesione sociale, anche senza considerarli in relazione e in rapporto con tutto quello che, in termini di giustizia sociale, sta creando il cambiamento climatico. Aumentare il livello di consapevolezza e iniziare a introdurre soluzioni e mitigazioni trasversali è fondamentale. Forse questo è il vero antidoto, che può portare una nuova impresa sociale e culturale: pensare e dare vita a modelli di governance, e di conseguenze modelli di impresa che possano in modo permanente lavorare sull'immaginazione/aspirazione al futuro e quindi su una ricostruzione di cornici politiche e di senso nelle quali riconoscersi di nuovo.
DOI 10.7425/IS.2025.01.02
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[1] Citiamo qui il lavoro corale “L’arte nella contesa per il senso comune”, a cura di Fabrizio Barca e di Alessia Zabatino, all’interno del Forum Disuguaglianze Diversità dal 2022 al dicembre 2024, consultabile al link https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/presentato-a-genova-il-documento-larte-nella-contesa-per-il-senso-comune/, dove sono disponibili i video collegati al testo (in via di pubblicazione)
[2] È opportuno ricordare che questo passaggio non scontato avviene anche grazie alla partecipazione del Museo al bando Recharge Next (acronimo di REsilient European Cultural Heritage As Resource for Growth & Engagement) promosso dal programma europeo Horizon. Evidenziamo inoltre la definizione internazionale dell’ICOM aggiornata nel 2022 e adottata anche a livello nazionale, per cui “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”. Questa nuova definizione di museo è stata approvata durante la 26esima Assemblea Generale Straordinaria di ICOM – International Council of Museums svoltasi a Praga il 24 agosto 2022, frutto di un lungo processo partecipativo che ha coinvolto 126 Comitati Nazionali e Internazionali, chiamati a consultare a più riprese i loro associati e ad esprimere le loro valutazioni.
[3] E proseguendo con uno stralcio ancora: “il Welfare culturale promuove un modello integrato di benessere degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale. Fondato sul riconoscimento, sancito anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in uno studio rivoluzionario pubblicato a fine 2019, dell’efficacia delle attività culturali e creative come fattore di promozione del benessere individuale (dalla salute fisica alla soddisfazione per la vita) e della coesione sociale, per favorire l’accesso e lo sviluppo di capitale sociale, individuale e di comunità locale. Sperimentato da almeno 30 anni, soprattutto nei Paesi scandinavi e nel Regno Unito, il Welfare culturale presuppone la collaborazione interdisciplinare e l’integrazione di scopo fra sistemi istituzionali connessi alla salute, alle politiche sociali, alla cultura e creatività. In Italia pratiche di questo tipo sono numerose e in via di consolidamento negli ultimi due decenni.” (Fondazione Symbola, 2022)
[4] “Prima di tutto mettere la cura al centro significa riconoscere e accogliere la nostra interdipendenza. In questo manifesto quindi usiamo il termine cura in senso ampio, tenendo insieme la cura nelle relazioni intime e la cura come attività di chi lavora nelle case di cura, negli ospedali, nelle scuole, di chi assicura ogni giorno i servizi essenziali. Ma facciamo riferimento anche alla cura delle attiviste e degli attivisti che danno vita a “biblioteche degli oggetti”, alternative di lavoro in cooperativa ed economie solidali, e alle politiche che tengono bassi i costi delle abitazioni, riducono l’uso di combustibili fossili e aumentano gli spazi verdi. La cura è la nostra abilità, individuale e collettiva, di porre le condizioni politiche, sociali, materiali ed emotive affinché la maggior parte delle persone e creature viventi del pianeta possa prosperare insieme al pianeta stesso.” (The care collective, 2021)
[5] Per avere una mappatura non esaustiva su centri culturali e su rigenerazione urbana a base culturale si vedano: Lo stato dei Luoghi https://www.lostatodeiluoghi.com; Livi T, (2023); Franceschinelli R. (a cura di) (2021), Niessen B. (2019), Satta N (a cura di) 2023, in particolare da pag 63 e seguenti
[6] Per informazioni, contatti e per conoscere da vicino tutte le iniziative si veda https://magnete.mi.it
[7] Sulla governance, Accademia della Crusca, https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/sulla-governance/17163
[8] Satta N, (a cura di) 2023, si veda in particolare pag. 99 e seguenti.
[9] Realizzato da Shifton per Proges, nella prima edizione del 2019, è adesso dal 2022 un format permanente di Magnete Milano.
[10]Recensendo Venturi e Zandonai, si riprendono alcuni concetti chiave quali il “saper lavorare su attrazione di desiderio e su costruzione di bene comune e collettivo, in partenza, per poi ridefinire i propri equilibri interni anche in termini di nuove dinamiche organizzative. Se dalla Convenzione Unesco di Faro del 2005 è possibile parlare di comunità patrimoniali che condividono beni culturali intangibili, legati al sapere immateriale (e si potrebbe dire perfino al sapere tacito seguendo Sennett), è possibile forse traslare questo paradigma e farlo risuonare anche per la vita delle organizzazioni da ri-pensare secondo un approccio comunitario” Noemi Satta, Recensione di Venturi Zandonai, (2024) per Letturelente https://www.agenziacult.it/letture-lente/ti-raccomando-la-cultura/spazio-al-desiderio/
[11] Al link https://www.methodcollective.ca/sohkepayin si può conoscere il collettivo The method collective e la ricerca citata The Sôhkêpayin Guide.
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