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Numero 1 / 2025

Saggi

Sguardi di orizzonte per un arcipelago del Terzo Settore

Carola Carazzone


La versione completa di questo testo sarà pubblicata nel corso del 2025 nel volume per il Trentennale del Forum del Terzo Settore dal titolo: Dalla percezione al cambiamento: il Terzo Settore oltre il “fare”.


Oggi, di fronte ad un contesto geopolitico e internazionale in rapido cambiamento è più che mai necessario uno sguardo lungo (con un orizzonte temporale, per esempio, al 2050) e - allo stesso tempo - ampio, d’insieme, che abbracci tutta la complessità di un Terzo Settore in continua trasformazione. Uno sguardo “di orizzonte” che riesca a comprendere le grandi correnti sotto le onde del mare, i mindset, i modi di pensare, le strutture logiche e i processi cognitivi ed epistemologici, le narrazioni, i bias anche impliciti che ci ancorano al passato, e non ci consentono di liberare tutto il potenziale che il presente – allo stesso tempo - richiede e consente.

Sono convinta che il Terzo Settore possa cambiare il mondo, possa davvero essere un’alternativa reale al sistema estrattivo che ci ha portato fino a qui, a questo violento deterioramento della democrazia, a questi profondi crepacci sociali e spaccature con gli ecosistemi naturali cui apparteniamo, con la natura e la biodiversità, e anche interiori, con noi stessi, a livello individuale. Penso all’inedita concentrazione della ricchezza globale e alle rampanti diseguaglianze regionali e nazionali, al consumo di più risorse naturali di quelle che il pianeta ha a disposizione, al tasso di suicidi crescente a livello globale e ormai superiore ai morti in guerra o di morte violenta.

Sono anche convinta, però, che - per cambiare il mondo - il Terzo Settore debba osare una trasformazione, appropriandosi con coraggio e collettivamente di nuovi approcci e processi che sono già emersi – e sperimentati – più o meno timidamente. Partendo da uno spazio di ascolto reciproco, alleanza e consapevolezza profonda, possiamo scardinare i bias impliciti che ci legano in una sorta di coazione a ripetere meccanismi e processi forse da decenni inadeguati – inconsapevolmente, se non dolosamente - ma certamente ormai obsoleti, e dotarci di nuove competenze.

Necessità di nuovi processi di consapevolezza, re-immaginazione sociale e trasformazione

In un’era inedita come quella che viviamo, caratterizzata da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità (acronimo VUCA), per potersi trasformare è necessario cambiare il “come”, il processo di consapevolezza, re-immaginazione e trasformazione viene fatto. Il “come” diventa una scelta intenzionale e “politica”, non meramente tecnica. Il processo conta almeno quanto, se non più, del risultato, e va scelto.

Albert Einstein insegnava che “Non si possono risolvere i problemi con le stesse strutture di pensiero che li hanno creati”. Oggi, nella cosiddetta era VUCA e BANI[1], approcci predittivi e lineari risultano limitanti, se non fuorvianti e diventa fondamentale non limitarsi a leggere il passato ma anticipare i futuri possibili “con mente aperta, cuore aperto, volontà aperta” (Otto Scharmer)[2].

Futures thinking [3] sarà una competenza fondamentale negli anni a venire.

La capacità di anticipazione (foresight e anticipation, non forecast in inglese) non ha nulla a che vedere con previsioni predittive, proiezioni lineari o con la progettazione, ma è un nuovo ambito di conoscenza sistemica volto a esplorare, con approcci rigorosi e strutturati, futuri plausibili al fine di anticipare e gestire al meglio i cambiamenti in atto.[4]

Se il Terzo Settore vorrà re-immaginare e trasformare sé stesso e il proprio ruolo, dovrà farlo con processi completamente nuovi e le metodologie sperimentate con la Teoria U, Futures thinking[5] e gli Inner Development Goals possono essere molto utili per prendere decisioni/posizioni strategiche trasformative (come settore, ma anche come singole organizzazioni). Se il Terzo Settore promuoverà questa trasformazione dei processi collettivamente, sia al suo interno sia con l’ecosistema circostante e con stakeholder inusuali, potrà unire esperienze e visioni, sfruttando le tensioni/opposizioni come generative di nuove opportunità – diventando anche promotore e facilitatore di processi innovativi che altri settori potranno apprendere.

Solo con processi inediti di consapevolezza, re-immaginazione e trasformazione il singolo ETS, così come il Terzo Settore nel suo complesso, potranno andare oltre la ripetizione di schemi mentali acquisiti e decostruire bias impliciti e coazioni a ripetere. Oggi, di fronte alla vastità e velocità dei cambiamenti epocali in atto, non è nemmeno sufficiente un cambio di paradigma da fronteggiare i sintomi ad affrontare le cause profonde, bisogna diventare capaci di anticipare futuri possibili e gestire processi sistemici.

Necessità di nuove narrazioni: due macro-equivoci da sradicare per poter re-immaginare il Terzo Settore

Il primo cambio di narrazione sul Terzo Settore è avvenuta quando “Terzo” è passato da avere un’accezione residuale (né Stato, né mercato) ad avere un riconoscimento, con la riforma del Terzo Settore, di parità formale (rispetto allo Stato e al mercato). La seconda trasformazione di narrazione è in atto quando il Terzo Settore prende coscienza di non potere né volere relegare il proprio ruolo a quello di service-provider[6]. È ora il momento di portare a compimento questa trasformazione, con una presa di consapevolezza non solo di cosa non si vuole, ma di ciò che si vuole essere, del ruolo che il Terzo Settore vuole avere.

Se abbiamo chiaro che alleviare sofferenza, tamponare emergenze, restaurare un po’ di bellezza, questo è un mestiere molto diverso rispetto a contribuire ad eliminare diseguaglianze, promuovere cambiamento sociale, lavorare per un cambiamento sistemico. Dobbiamo avere altrettanto chiari i mindset e le competenze necessarie per modificare i nostri orizzonti di senso e di impatto in questa direzione. Per passare, cioè, da un approccio che mantiene lo status quo a uno che sposta potere, partecipazione, agency per promuovere cambiamento sistemico.

Tra i due poli – con semplificazione plastica, “salvare vs. risolvere” – esiste chiaramente un variegato spettro di possibilità. Consapevolezza e chiarezza di posizionamento nell’arco di tale spettro sarebbero già, di per sé, passi avanti piuttosto importanti. E si badi bene che qui nessuno vuole sminuire l’importanza della risposta all’emergenza. Quando parliamo di system change ci riferiamo infatti non solo a interventi e beneficiari, ma ad approcci sistemici.

Senza pretesa di dare risposte di merito, vorrei però, in questa sede, porre alcune domande preliminari utili – auspico – a sfatare alcuni equivoci generalizzati, narrazioni sottese ancora pervasive, possenti correnti sotto la superficie, bias, falsi miti monolitici e incontrastati che fanno a mio modo di vedere da barriera ad aprire “mente, cuore e volontà” e non consentono di liberare il campo per permettere un profondo ripensamento di noi stessi. In un contesto esterno in continua trasformazione, se non riusciremo ad accogliere una dialettica permanente di cambiamento e flussi di sperimentazione – proposta – rilancio – messa a terra – nuova sperimentazione, il Terzo Settore rischia di rimanere al palo con battaglie di retroguardia e progettualità pensate come innovative che di fatto oggi risultano conservative.

Il mito dell’efficientismo del profit e il complesso di inferiorità del non profit

Il Terzo Settore può cambiare il mondo. Non solo lenire dei bisogni e distribuire servizi essenziali in una deriva-tampone rispetto ai fallimenti del welfare, ma – proprio - cambiare il mondo. Ci sono changemaker nel Terzo Settore che sono “eroi di tutti i giorni”, sconosciuti, donne e uomini che hanno saputo immaginare come possibile l’impossibile e aggregare intorno ad un’idea decine, centinaia, migliaia di persone.

L’umiltà, la tenacia, la visione, la creatività, il coraggio di gettare il cuore oltre gli ostacoli, la capacità di persuasione e di coinvolgimento di stakeholder diversi, la leadership intrinsecamente collettiva e collaborativa di questi changemaker che imparano e guidano insieme, sono semplicemente straordinari nella loro semplicità. Ben diversi dai condottieri epici o dai geni da start up stile Silicon Valley, quelli del Terzo Settore sono “eroi di tutti i giorni”, sicuramente diversi rispetto al modello di successo e massimizzazione dei profitti mainstream[7].

Eppure, negli ultimi 35 anni, il “business thinking” come sinonimo di ben gestito ed efficace è stato applicato come un mantra al Terzo Settore. A partire dagli anni Ottanta, infatti, prima USAID poi l’Unione Europea e i vari ambiti nazionali, hanno adottato procedure e metodologie tese a professionalizzare, ingegnerizzare, adeguare il non profit ai criteri del profit. Penso al PCM (Project Cycle Management), quadro logico, valutazione di KPI (Key Performance Indicators), ma anche al contenimento dei costi di struttura come criterio di efficienza.

Per 35 anni - in base ad una sorta di pregiudizio implicito in merito all’efficacia del profit, rinforzato da una sorta di complesso di inferiorità del non profit - alle imprese sociali, alle ONG, agli ETS si è continuato a chiedere di adeguarsi alle metriche del profit. C’è un’enorme responsabilità in questo da parte delle business school, dalle Ivy League americane alle nostrane, che negli ultimi trent’anni hanno insegnato a pletore di studenti poi divenuti decision-maker che il non profit doveva essere snaturato per essere ricondotto alla standardizzazione del mondo profit.

Il Terzo Settore - per lo meno quello generativo e trasformativo - mira esattamente a risolvere i prodotti del fallimento di un sistema capitalista estrattivo che ci consegna un mondo iniquo, insalubre, violento. Non è paradossale allora volerlo imbrigliare e addomesticare per ricondurlo proprio a quegli standard disastrosi che ne bloccano il potenziale trasformativo?

Così come la filantropia ha logiche di investimento diverse da quelle del mondo della finanza, gli ETS hanno logiche di performance (o forse meglio di senso) e di impatto, diverse da quelle delle aziende nel settore privato. La ragione d’essere, le motivazioni di chi ci lavora, l’approccio mentale, gli standard e le metriche di misurazione del successo sono intrinsecamente diversi. Penso a accountability verso i beneficiari, collaborazione come mindset orizzonte temporale di lungo periodo, scaling deep e scaling out, impatto indiretto e collettivo, generatività sociale.

Ora cerchiamo di esemplificare. L’azienda profit si ritiene responsabile (accountable) innanzitutto verso la propria governance e i propri azionisti. Gli ETS che mirano al cambiamento sistemico sentono accountability verso un’altra costituency e cioè le comunità di persone o gli ecosistemi naturali che subiscono le conseguenze del problema che si vuole risolvere e che non sono “clienti”, ma agenti di partecipazione, cittadinanza, sviluppo umano.

La competizione è il criterio guida del profit - dalla analisi di mercato e benchmark di riferimento iniziale fino alla valutazione della “performance against competitors”. Invece, gli ETS che mirano al cambiamento sistemico si basano sulla collaborazione come mindset, non come utilità strumentale o eventuale esternalità positiva: approccio collaborativo, costruzione di partnership e alleanze inusuali a 360 gradi sono fondative. I tempi delle aziende profit sono stretti (la proiezione annuale ha spesso tempistiche di misurazione della performance anche infra-trimestrali); gli ETS che cambiano sistemi hanno capacità di immaginazione sociale e di grandi visioni insieme alla consapevolezza di un orizzonte temporale di impatto di medio-lungo periodo, almeno 8 -10 anni.

Rispetto ad un’altra ossessione ereditata dal profit (da parte degli impact capital providers così come della filantropia) che è quella della paura di rendere dipendenti le organizzazioni a scopo sociale che si supportano dai propri finanziamenti, l’analisi del passato ci insegna che, in realtà, si tratta di un falso problema. Fino alla “rivoluzione” di MacKenzie Scott sono pochissimi gli enti non profit che hanno potuto contare su fondi sicuri per lunghi periodi, normalmente si è trattato di rapportarsi con donatori discontinui. Per questo motivo sono diventati bravi a cambiare e intercettare nuove fonti di finanziamento. Tuttavia, questa non è una buona notizia: sappiamo che il cambiamento sistemico ha tempi di 8-10 anni e vediamo quindi nuovamente una incongruenza tra capitale necessario e quello effettivamente disponibile.

Capita molto spesso che nei bandi venga richiesto che il progetto diventi “sostenibile” dopo solo 12, 24 o 36 mesi, con un presupposto irrealistico di sostenibilità finanziaria, a causa non solo dell’orizzonte temporale imposto ma anche dei vincoli sull’allocazione delle risorse – per liste di attività e progetti anziché per organizzazioni. Questo in concreto non permette di strutturare processi di sostenibilità di lungo termine, costringendo le realtà a cercare fondi nel breve per stare a galla e spesso a trasformarsi in progettifici ed appaltatori a basso costo per la pubblica amministrazione nei servizi sociosanitari.

Ancora, mentre per le start up profit il successo corrisponde normalmente a scaling up come crescita di bilancio, di clienti, di dipendenti etc., per gli ETS che cambiano il mondo spesso scaling up significa cambiare norme giuridiche e politiche pubbliche. Il successo può essere anche scaling out, attraverso repliche indipendenti promosse da altri (che non sono considerati concorrenti, ma alleati in una logica di cambiamento sociale) per riuscire ad arrivare a una popolazione numerosa e/o a una vasta area territoriale. Oppure scaling deep, arrivando a cambiare paradigmi culturali e mentalità radicate. In questa prospettiva in cui contano le repliche indipendenti più che il fatturato, e l’impatto indiretto più di quello diretto, KPI del profit non funzionano per gli ETS che mirano al cambiamento sistemico perché misurano le cose sbagliate, gli output[8], e non l’impatto indiretto e collettivo che è ciò a cui più ambiscono questo tipo di changemaker. Nel profit tutto è attribuzione e visibilità, ego e logo sono fondamentali. Nel cambiamento sistemico no, anzi, ciò che rende la trasformazione possibile e sostenibile è l’impatto indiretto e collettivo, processi di decentramento dall'autoreferenzialità, la replicabilità open source, senza copyright.

La valutazione di impatto per gli ETS che trasformano il mondo è importantissima, ma con tempi e criteri adeguati all’orizzonte di cambiamento sistemico che mirano a produrre. Se questa viene intesa come strumento di compliance e di comunicazione, tipo concorso di bellezza della rendicontazione sociale, in cui tutto deve essere un successo, purtroppo apporta molto poco, se non forse come strumento di fundraising per altri donatori della stessa tipologia.

La valutazione di impatto diventa invece un potente strumento di trasformazione quando è processo permanente di apprendimento collaborativo, quando si creano spazi sicuri basati sulla fiducia reciproca per affrontare problematiche e sperimentazioni fallite da cui, insieme, imparare[9].

 

Profit

Non profit

accountability

Verso gli shareholder

Verso i cosiddetti “beneficiari” che in realtà sono rights-holder (comunità di persone ed ecosistemi naturali)

performance

competitiva

collaborativa

orizzonte temporale

mesi

anni

impatto

lineare, diretto

ecosistemico, indiretto

scaling

up

out and deep

 

L’equivoco bisogni – diritti – capabilities

Passiamo ora al secondo macro-equivoco che vorrei affrontare in questa sede.

Il Terzo Settore ha il potenziale di cambiare il mondo irrompendo nella visione binaria pubblico-privato, al cui esterno non c’è spazio solo per il buonismo o la “buona volontà” e la beneficenza. Il Terzo Settore ha il potenziale di uscire dalla residualità e scardinare l’idea di ineluttabilità di un modello di sviluppo centrato sul profitto e non sulla persona. Il Terzo Settore può creare e popolare luoghi di espressione della cittadinanza attiva, dando nuova linfa alla partecipazione democratica e politica e a un mondo più giusto, più equo, più salubre.

Oggi conosciamo la differenza antipode tra assistenzialismo vs. giustizia sociale, approcci caritatevoli vs. approcci di diseguaglianze, beneficenza vs. cambiamento sistemico.

Negli ultimi trent’anni fior di intellettuali e di attivisti hanno contribuito con elaborazioni di pensiero illuminanti e sperimentazioni coraggiose a tracciare l’inconciliabilità tra approcci di risposta ai bisogni e di eliminazione delle diseguaglianze, tra distribuzione di beni e servizi e approcci sistemici e intersezionali al cambiamento sociale, tra orizzonte di impatto diretto e impatto indiretto, tra aiuto dei bisognosi e allargamento delle capabilities e agency.[10]

Eppure, anche in questo caso, se guardiamo oltre le dichiarazioni di superficie e osserviamo le lunghe e ampie correnti sottese degli ultimi 25 anni, il Terzo Settore sembra essere rimasto schiacciato sulla logica assistenzialista della risposta ai bisogni, sopperendo sempre più spesso alla crescente carenza dei servizi pubblici e alle lacune dello Stato, in una sorta di deriva-tampone riparativa e prestazionale, che anziché essere orientata al cambiamento, contribuisce a salvare il cosiddetto “ultimo miglio”, ma non riesce quasi nemmeno a lambire, non certamente a risolvere, diseguaglianze, ingiustizie e iniquità.

Di questo hanno un’enorme responsabilità i donatori istituzionali pubblici e privati che per decenni hanno costretto – inconsapevolmente, se non dolosamente – gli enti del Terzo Settore ad adattarsi a modalità di finanziamento nefaste con meccanismi di bandi e finanziamenti solo su progetti, in cui la percentuale dei costi di struttura/costi generali è stata l’unico indicatore di efficienza, che hanno prodotto organizzazioni deboli, in starvation cycle e in concorrenza vitale tra loro e un effetto di adattamento, di isomorfismo delle organizzazioni del Terzo Settore come progettifici.[11]

Lo spettro pernicioso dell’influenza di Abraham Maslow e della sua piramide o scala gerarchica delle necessità umane[12] con la sua limitante concezione lineare di necessità “superiori” da soddisfare solo dopo che le necessità “inferiori” siano state soddisfatte, ha inficiato alla base un approccio di complessità, indivisibilità e interdipendenza dei diritti e delle libertà fondamentali.

Uniformandosi sull’ultimo miglio in una rincorsa ai bisogni primari, il Terzo Settore non riesce a contribuire ad approcci davvero basati sui diritti e il quadro di riferimento dei diritti fondamentali può risultare meramente formale se non retorico. Un approccio sostanzialmente - non formalmente - basato sui diritti e le libertà fondamentali comporterebbe un cambio di paradigma dai bisogni alle diseguaglianze, alla costruzione nel lungo periodo delle opportunità, delle capacità di scelta individuali e comunitarie (le capabilities elaborate da Amartya Sen).

Gli anni Novanta sono stati anni entusiasmanti per la promozione e protezione dei diritti umani. Nel periodo tra la caduta del muro di Berlino e l’abbattimento delle Torri gemelle, il riconoscimento dei diritti umani nelle convenzioni internazionali e a livello nazionale ha segnato, allo stesso tempo, un punto di arrivo e partenza. Il miraggio che la persona in condizioni di vulnerabilità potesse divenire da soggetto passivo – nella peggiore delle ipotesi oggetto di repressione, o, nella migliore, oggetto di protezione e destinatario di beni e servizi – a soggetto attivo e principale attore del processo di sviluppo umano: soggetto di diritti[13].

Oggi, che la retorica populista dell’estrema destra ritorna a propugnare politiche pan-penaliste di stigmatizzazione e repressione, la battaglia per i diritti come politiche formali di parità anziché sostanziali di eguaglianza, ci ritorna indietro, con una sorta di effetto di rinculo, come una battaglia di retroguardia per privilegiati che lascia sempre più escluse sacche di persone e intere comunità.

La sfida odierna, infatti, riguarda proprio la comprensione del concetto di equità con chiare implicazioni a livello politico e strategico e l’ammissione esplicita che le politiche delle pari opportunità si sono rivelate gravemente insufficienti.

Parità, eguaglianza, equità: proviamo a semplificare concetti che non sono affatto sinonimi[14]. La parità si focalizza sull’eguaglianza formale e sul punto di partenza (riconoscimento di diritti e doveri), l’equità mira ad un potenziale punto di arrivo, in considerazione della valorizzazione delle differenze e della rimozione delle discriminazioni sostanziali, anche a livello culturale e psicologico[15]. La parità consiste nel trattare tutti allo stesso modo, a prescindere dalle esigenze e dalle caratteristiche individuali.  L’equità consiste nella considerazione e nel rispetto delle differenze, senza che queste rischino discriminazioni o assimilazione, e nel trattare in modo diverso condizioni diverse offrendo a ciascuna quanto necessario per sviluppare appieno il proprio potenziale.

Eguaglianza non significa identicità, sameness, ma c’è differenza tra equità ed eguaglianza. Uguaglianza vuol dire che a ogni individuo o gruppo di persone vengono date le stesse risorse o opportunità: pari opportunità. L’equità riconosce che ogni persona si trova ad agire in circostanze diverse e può aver bisogno di risorse o opportunità diverse per ottenere un risultato uguale. Se l’obiettivo è l’uguaglianza dei risultati, l’equità è il processo per raggiungerlo. In linea con l’art. 3 della nostra Costituzione, un approccio basato sostanzialmente sui diritti umani è intrinsecamente interrelato, in relazione di reciprocità vitale, con un approccio di eliminazione delle diseguaglianze e di promozione dell’eguaglianza.

In relazione ad approcci che mirino non a lenire i sintomi rispondendo a bisogni standardizzati, ma a eliminare le cause delle diseguaglianze, diventando capaci di anticipare futuri possibili e gestire processi di cambiamento sistemico, l’attualità delle parole pronunciate da Lilla Watson negli anni Settanta è sconcertante “Se siete venuti qui per aiutarmi, state perdendo il vostro tempo, ma se siete venuti perché la vostra liberazione è legata alla mia, allora lavoriamo insieme”.[16]

Changing the Imagination of Change: cambiamento sistemico, isole di coerenza e arcipelaghi

Ma facciamo un ulteriore passaggio dalla somma degli ETS alla collettività di essi come sistema, che è ben di più della somma dei singoli fattori.

Cos’è il cambiamento sistemico?

Nel 1977 Ilya Prigogine ha vinto il premio Nobel per la chimica dimostrando che, quando un sistema è lontano dall’equilibrio, piccole isole di coerenza in un mare di caos hanno la capacità di innalzare l’intero sistema a un livello di armonia superiore.

Credo il concetto delle “isole di coerenza” rappresenti in maniera eloquente[17] la potenza trasformativa di tante esperienze straordinarie di change-making tra gli attori del Terzo Settore: fondazioni di comunità da Messina a Mirafiori e Porta Palazzo a Torino; cooperative di comunità da Sciacca a Ostana; imprese sociali da Scampia a Paraloup in alta Val Stura, Oasi del Cervo e della Luna in Sardegna; al Collegio del Mondo Unito in Friuli; reti di accelerazione e moltiplicazione come il Forum Diseguglianze e Diversità, Abilitando, Worldrise, The Good Lobby, Labsus, Lo stato dei luoghi. Da nord a sud, dalle periferie alle aree interne, sappiamo che tante delle soluzioni alle grandi sfide attuali esistono già, le conosciamo[18], le possiamo andare a vedere. Ciò che manca è la nostra capacità collettiva di sviluppare queste sperimentazioni e soluzioni in modo tempestivo e su larga scala in un’ottica di ecosistema. 

Penso alla significatività dell’arcipelago come metafora per il Terzo Settore per il nostro Paese[19] e vorrei metterla in relazione al teorema di Prigogine. La differenza tra una serie di isole sparse e un arcipelago è nella connessione, nel “non isolamento”. Il mare in cui esse si trovano e che le separa l’una dall’altra è, in realtà, l’elemento che le accomuna, è la fonte per eccellenza delle relazioni, degli scambi reciproci, del legame. Nell’irriducibile distinzione e distanza che caratterizza la forma e la posizione delle singole isole dell’arcipelago, esse appartengono allo stesso mare: pluralità, molteplicità e l’ossimoro di una “distanza prossimale” rendono l’idea di comunione e, al tempo stesso, di autonomia, che sono i tratti costitutivi delle isole di un arcipelago.

In una prospettiva di system thinking[20], l’arcipelago è più di una metafora: indica un “ecosistema” che non può essere ridotto a uniformità – sameness – poiché le sue singole componenti riescono a coesistere e a convivere solo in quanto irriducibilmente uniche e distinte, ma stando in relazione, in un sistema di reciprocità vitale, quasi di entanglement[21]. Un'altra metafora pregna di significato è quella dell’ecosistema di una foresta primigenia e, più precisamente, della invisibile rete micorrizica[22].

Rimaniamo ora sulla visione arcipelagica. Il Terzo Settore in Italia è un arcipelago? O è una serie di isole isolate e solipsistiche che ancora parlano linguaggi diversi e non si comprendono o, peggio, nemmeno si incontrano e si ascoltano? Chi si impegna perché quel “mare principale”, quell’ecosistema sia uno spazio sicuro, un ambiente abilitante, perché enti di tipologia diversa possano lavorare per cause condivise raggiungendo obiettivi trasformativi e missioni fondamentali per il presente e il futuro della nostra società, della democrazia, del nostro pianeta? Il Forum Terzo Settore può divenire il mare abilitante per nuovi legami, sinapsi, relazioni, connessioni, collaborazioni, scambi e fare la differenza per le grandi cause che ci stanno a cuore? Oggi più che mai abbiamo bisogno di impatto collettivo e di attori collettivi, corpi intermedi, reti che, guardando al futuro, in una prospettiva intergenerazionale abbiano tra i propri leader anche i e le giovani. Ma di che tipo? Non certo di associazioni di categoria o gruppi di interessi stile anni Ottanta, né di ulteriori “ego-sistemi” autoreferenziali o erogatori di servizi affastellati a silos o a canne d’organo.

Oggi, di fronte al vuoto lasciato dal disfacimento dei corpi intermedi del passato - partiti, sindacati, media tradizionali – di fronte a cittadini che hanno sempre meno voce o potere di influenza - le cosiddette democrazie dell’audience sono solo uno specchietto per le allodole e le “eco-chamber” create dai social-media riescono solo, all’opposto, a polarizzare e acuire frammentazione sociale e isolamento individuale[23] - è il tempo di nuove tipologie di corpi intermedi, reti, comunità di pratica, scambi e condivisioni per accelerare i processi di apprendimento collettivo, di attivazione e sviluppo di fiducia sociale, capitale sociale, coesione sociale, partecipazione democratica e presenza politica[24].

Le reti oggi possono e devono avere l’umiltà e il coraggio di ripensarsi per diventare backbone organization di ecosistemi, “sviluppatori e custodi di ambienti abilitanti, field builders[25] capaci di influenzare, di dare voce e catalizzare il cambiamento nel settore.

Tocca alle reti locali, nazionali, europee, globali re-immaginare se stesse, come corpi intermedi capaci di svolgere un ruolo catalitico e trasformativo a livello di sistema, andando oltre la prospettiva della rappresentanza di somme di interessi individuali e promuovendo il cambiamento sociale attraverso l’aumento della circolarità delle informazioni, l’accelerazione dei processi di apprendimento collettivo, la facilitazione di collaborazioni e dando voce a sistemi complessi e multi-attoriali. Il cambiamento sociale può essere solo frutto di un processo collettivo. Il cambiamento sistemico, quello che comporta un cambiamento culturale profondo, è raramente lineare, a volte è complesso come la teoria del caos e lento come l'evoluzione. Anche le cose che sembrano accadere all'improvviso nascono, in modo carsico, da radici profonde nel passato o da semi magari dormienti da tempo. E un cambiamento incrementale.[26]

Le trasformazioni profonde, quelle che riescono a cambiare lo status quo, i mindset, avvengono attraverso l’impatto indiretto. Il territorio più importante da conquistare è nell'immaginazione sociale[27]. In un libro bellissimo del 2003 (riedito 2016), “Hope in the dark”, Rebecca Solnit lo dimostra tracciando un flusso, un movimento non coordinato ma concorde, e riallacciando i fili delle idee in diverse geografie e attraverso diversi decenni e secoli, come per esempio le tattiche di disobbedienza civile di Martin Luther King ispirate da quelle usate da Gandhi, e come quest’ultimo sia stato ispirato da Tolstoj e dagli atti radicali di non cooperazione e sabotaggio delle suffragette britanniche.

Il lavoro di rete ha il potenziale di accelerare e moltiplicare esponenzialmente, scalare out e deep i processi di cambiamento sistemico, eppure è un ambito ancora strutturalmente e drammaticamente sotto finanziato. Il sotto-investimento cronico nelle organizzazioni del Terzo Settore, affligge gli enti di secondo e terzo livello (le reti) in modo abnorme. Su ciascuna di queste questioni, la filantropia come parte integrante del Terzo Settore ha il privilegio di potere, con umiltà e coraggio, svolgere un ruolo unico e trasformativo[28].

Otto Scharmer Philanthropy 4.0

 

DOI 10.7425/IS.2025.01.11

 

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WINGS, (2017), “Using the 4Cs: Evaluating Professional Support to Philanthropy” .

 

 

[1] BANI acronimo per Brittle, Anxious, Nonlinear, and Incomprehensible.

[2] Otto Scharmer, uno dei più innovativi studiosi di gestione del cambiamento, docente al MIT di Boston e fondatore del Presencing Institute, ha elaborato la “Teoria U” come processo metodologico per supportare il cambiamento sistemico attraverso un processo collettivo di presenza profonda, presencing. Solo con uno sforzo più profondo e ampio, quello che Scharmer chiama sensing, riusciremo ad affrontare le grandi questioni che ci stanno a cuore senza applicare schemi mentali precostituiti. La Teoria U porta persone e gruppi ad andare a fondo rispetto ad un problema o ad un’opportunità attraverso tre fasi essenziali: osservare – riflettere – agire, suddivise in vari passaggi co-initiating; co-sensing; co-presencing; co-creating e co-evolving, al fine di comprendere vari livelli: il livello micro, costituito dalla persona, quello meso, composto dal gruppo-organizzazione, quello macro della comunità e poi quello del sistema-ecosistema. Si veda https://ottoscharmer.com/.

[3] I Futures studies nascono negli anni Cinquanta in ambito militare e dell’industria petrolifera, ma è solo nell’ultimo decennio (nel 2012 l’UNESCO inizia a parlare di Futures Literacy, alfabetizzazione ai futuri) che se ne comprende il valore per tutti gli ambiti (nel 2019 la Commissione Europea costituisce la Vicepresidenza alle Relazioni Inter-istituzionali e al Foresight; oggi nel mondo ci sono 27 ministri del futuro). Nei Futures studies, il futuro non è intrinsecamente un concetto che è possibile guardare al singolare, ma dipenderà dalla consapevolezza delle scelte di oggi. L’anticipazione strategica non consiste nel prevedere un unico futuro. Si tratta dell’analisi di futuri plausibili, che possono supportare una migliore elaborazione delle politiche. Piuttosto che fare previsioni basate sull’estrapolazione lineare delle tendenze passate e attuali, la anticipazione coltiva la capacità di anticipare futuri alternativi e l’abilità di immaginare possibili conseguenze molteplici e non lineari, in un approccio sistemico.

[4] L’Italia si sta da poco e timidamente affacciando a Futures Studies, grazie al decennale lavoro pionieristico di Roberto Poli all’Università di Trento.

[5] Philea- Philanthropy Europe Association lavora dal 2021 per portare questo approccio nella filantropia. Si veda il rapporto “Futures Philanthropy: Anticipation for the Common Good”, 2024.

 

[6] Si veda Federico Mento, “Terzo settore e capitale umano, c’è bisogno di una filantropia coraggiosa”, 2024.

[7] Si veda Septian Rahardjo, Unicorns vs. Zebras: Why Startups Should Consider a Different Approach, 2023.

[8] Si veda Phil Buchanan, “Giving done right. Effective philanthropy and making every dollar count, 2019 in particolare su “cost for life ratio”. Sul paradosso dei costi di struttura (overhead ratio) invece come metrica specifica per il nonprofit si veda “The nonprofit Starvation Cycle, Standford Social Innovation Review, 2009.

[9] Si veda in merito lo studio appena pubblicato di Paola Dubini, Diana Martello, Alberto Monti, Rendere conto: il bilancio di sostenibilità delle organizzazioni culturali, 2024.

[10] Il riferimento è al lavoro decennale di intellettuali come Amartya Sen e Martha Nussbaum e di attivisti come Dambisa Moyo, La carità che uccide (2011).

[11] Carola Carazzone, “Due miti da sfatare per evitare l’agonia del Terzo Settore”, 2018.

 

[12] Abraham Maslow, “Teoria della motivazione umana”, 1943 e successivamente ampliata, opera che ottenne un'incredibile notorietà, non solo nel campo della psicologia, ma in moltissimi campi del sapere.

[13]  Penso per esempio ai grandi pedagogisti - Don Milani, Padre Balducci, Don Mazzolari, Danilo Dolci, Paulo Freire - che hanno lavorato con ragazzi in situazione di strada, di povertà, analfabeti, abbandonati, trasgressori della legge penale, con problemi di dipendenza e al loro ruolo nel cambio di paradigma propugnato dalla “Convenzione di New York sui diritti dei bambini e degli adolescenti” per il passaggio da politiche repressive e di istituzionalizzazione o, nella migliore delle ipotesi, politiche sociali di tipo ridistributivo o assistenziale, a politiche basate sui diritti. In Italia è emblematico l’esempio delle cooperative basagliane pionieristiche a livello internazionale nel proporre una nuova concezione della persona con malattia e/o disabilità mentale.

 

[14] Si veda in merito il capitolo: “Per una Europa femminista” nel libro “Quale Europa? Capire, discutere, scegliere”, curato da Elena Granaglia e Gloria Riva e pubblicato dal Forum Diseguaglianze e Diversità nel 2024.

 

[15] Chiara Volpato, “Le radici psicologiche della disuguaglianza, 2019. Ad occuparsi di diseguaglianze sono stati finora soprattutto economisti e sociologi. Mentre oggi risulta dirompente il contributo della psicologia sociale, in quanto apre frontiere originali.

 

[16] Dal punto di vista teorico sul ruolo della dignità nel mettere in discussione vittimizzazione e agency in una società giusta, si legga Martha Nussbaum.

[17] Otto Scharmer, 2023 In Eight Points: Meditating On Our Planetary Moment, 2023.

[18] Si veda per esempio “Spazi del possibile. I nuovi luoghi della cultura e le opportunità della rigenerazione”, a cura di Roberta Franceschinelli, Franco Angeli, 2021 e “Spazi di comunità. Ricerca valutativa sulle pratiche di riuso di spazi dismessi a fini collettivi, coordinata da Tecla Livi, Nucleo di valutazione e analisi per la programmazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche di Coesione, 2023. Si vedano inoltre la rete Lo Stato dei Luoghi e Labsus.

[19] Si veda per la Rivista Impresa Sociale, Carola Carazzone, “Un arcipelago da co-creare. Rompere l’isolamento tra enti filantropici e imprese sociali”, 2024.

[20] Donella “Dana” Meadows (1941- 2001), scienziata e ambientalista, ricercatrice e professoressa all’MIT e Dartmouth College, autrice principale e unica donna del saggio forse più influente dello scorso secolo, “The limits of growth” (1972), con i suoi lavori (Thinking in systems: a primer, first circulated in 1993, published in 2008; 12 Leverage points, 1999) in particolare su iceberg model, leverage points to intervene in systems, narrative change continua ad influenzare il pensiero sistemico ed è più attuale che mai. Per maggiori informazioni si veda al seguente link.

[21] Sul principio di entanglement si veda “Entangled states – from theory to technology” Nobel Prize in Physics 2022 congiuntamente assegnato a Alain Aspect, francese, John F. Clauser, americano, e Anton Zeilinger, austriaco.

[22] Carola Carazzone,”The Social life of forests: takeaways for the co-creation of the PEX community”, 2021; Carola Carazzone, “La vita sociale delle foreste: riflessioni dopo Padova capitale europea del volontariato”, 2021. Le metafore dell’arcipelago e della rete micorrizica nelle foreste primigenie rendono meglio del concetto più diffuso di infrastrutturazione che rimane più neutro e freddo.

[23] Sul deterioramento della democrazia e il ruolo del decadimento dei corpi intermedi tradizionali e il venir meno del loro ruolo di intermediazione si veda Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York che in merito ha scritto decine di opere. Segnalo in particolare Nadia Urbinati, “Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico” (2007); “Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri” (2010); “Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista” (2011); “La mutazione antiegualitaria. Intervista sullo stato della democrazia” (2013); “Democrazia sfigurata” (2014); “Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia”, (2020); con Gabriele Pedullà, “La democrazia afascista”, (2024).

[24] In merito al ruolo delle reti nazionali nel Terzo Settore: “Filantropia istituzionale, superiamo l’associazionismo di categoria per diventare attivatori di cambiamento”, Vita, 2019; Carola Carazzone, “I corpi intermedi, cuore del Terzo settore”, capitolo del libro “Una società di persone? I corpi intermedi nella democrazia di oggi e di domani”, curato da Franco Bassanini, Tiziano Treu e Giorgio Vittadini, Il Mulino, 2021. In merito al ruolo dei corpi intermedi in ambito filantropico a livello globale Alliance Magazine and Propel Philanthropy, “Illuminating the invisible: Social Impact Infrastructure Organizations”, 2024.

[25] Si veda in merito la recente pubblicazione di Alliance Magazine e Propel Philanthropy “Illuminating the invisible: Social Impact Infrastructure Organizations” 2024. Le (SIIOs) sono definite nel modo più ampio possibile, comprendendo in senso lato, organizzazioni di supporto e sviluppo alla filantropia, coloro che offrono servizi filantropici, di sviluppo e formazione, acceleratori di investimenti sociali, intermediari filantropici, piattaforme per le campagne di fund raising. Molto interessanti anche le sperimentazioni di definizione e valutazione di impatto collettivo promosse da WINGS con il quadro delle 4Cs: Capacity, Capabilities, Connections, Credibility; a cui più recentemente si è aggiunta la quinta C: Catalyzing. Sulla comprensione dell’impatto collettivo del lavoro di rete si veda anche “Changemaking Network Effects: A Playbook for Social Entrepreneurs”, Sushmita Ghosh.

[26] Rebecca Solnit, “Want to see political change? Look to the margins”, 2022.

[27] Geoff Mulgan, “The imaginary crisis and how we might quicken social and public imagination”, 2020.

[28] Interessantissimo in merito l’articolo di Otto Scharmer, “Philanthropy 4.0: Giving in Times of Disruption”, 2023 e, recentissimo, l’articolo di Nina Luo, “Left organizing is in crisis. Philanthropy is a major reason why”, 2025.

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