Negli ultimi anni è emerso un nuovo movimento interessato a finanziare le imprese sociali: la finanza sociale, un termine generico per designare diversi strumenti e modelli che mirano a consentire al capitale di raggiungere un triple bottom return, ossia un ritorno economico, sociale e ambientale. Questo movimento è stato concepito con un approccio “calato dall’alto”, dove le offerte finanziarie vengono definite in anticipo, costringendo le imprese sociali ad adattarsi per soddisfare i criteri di finanziamento e dimostrare di essere pronte per l’investimento. Questa impostazione solleva interrogativi non solo sulla rigidità dei criteri di finanziamento, ma anche sulla più generale difficoltà di definire indicatori che siano al contempo semplici, economici, immediati e realmente rappresentativi degli impatti generati. In questa prospettiva, la difficoltà delle imprese sociali a soddisfare i requisiti richiesti non è necessariamente un sintomo della loro inadeguatezza strutturale, bensì un segnale della necessità di riconsiderare l’appropriatezza dell’approccio adottato nella finanza sociale.
Per indagare questo tema, riportiamo qui i risultati di uno studio sperimentale di economia comportamentale che è stato condotto per valutare la risposta dei diversi stakeholder dell’impresa sociale a differenti meccanismi di finanziamento, con l’obiettivo di ricreare in laboratorio la relazione tra impresa sociale, beneficiari e finanziatori in cui, a partire da un modello stilizzato di fornitura di servizi sociali, si confrontano diverse strutture di finanziamento e si verifica come le scelte del lavoratore in termini di quantità e qualità siano influenzate dalla disponibilità di fondi aggiuntivi, dalla presenza di un finanziatore e dai diversi schemi di remunerazione del finanziatore.
I risultati mostrano che i meccanismi di finanziamento hanno un impatto sulle motivazioni intrinseche degli agenti e generano effetti sulla produzione di beni e servizi di qualità, a seconda delle metriche di performance che sono collegate alle strutture di pagamento.
In particolare, la presenza di un finanziatore esterno orientato al profitto e remunerato in base a un indicatore di impatto approssimato e imperfetto spinge i lavoratori a concentrarsi su quello che viene misurato.
Quando il lavoratore percepisce che il proprio sforzo verrà valutato sulla base di indicatori che privilegiano il raggiungimento di soglie minime di impatto o la mera quantificazione delle attività svolte, piuttosto che sulla reale qualità dei beni e servizi prodotti, egli è indotto a orientare il proprio operato più in funzione dell’indicatore che dell’obiettivo che quest’ultimo dovrebbe rappresentare. In altre parole, si genera un disallineamento sistematico tra ciò che viene misurato e il valore effettivo generato, portando il lavoratore a privilegiare il rispetto dei criteri richiesti per il finanziamento, anche a scapito dell’efficacia sociale dell’intervento. Questo effetto distorsivo può manifestarsi anche quando il sistema di remunerazione non incide direttamente sulla retribuzione del lavoratore, ma condiziona comunque il funzionamento dell’organizzazione e le sue priorità operative.
Keywords: finanza a impatto sociale, economia sperimentale, motivazioni pro-sociali
La finanza a impatto sociale è emersa negli ultimi anni, offrendo nuovi strumenti finanziari per convogliare capitali privati verso l’imprenditoria sociale al fine di creare un impatto sociale positivo combinato con ritorni economici (Agrawal & Hockerts, 2021; Höchstädter & Scheck, 2015).
Il discorso sulla finanza a impatto sociale può essere collocato all’interno di un più ampio dibattito sul finanziamento basato sulla performance nei servizi pubblici (pay-for-performance e pay-by-results), che propone una logica di quasi-mercato nell’erogazione dei beni di welfare (Edmiston & Nicholls, 2018) con uno spostamento dell’attenzione dagli input, output e processi dei servizi verso risultati sociali quantificabili.
Il modello sottostante si basa su una catena di risultati (detta anche “modello logico”) che comprende diverse fasi: input, attività, output, risultati (outcome) e impatti (Frechtling, 2015; Hatry, 2006) che vengono utilizzati per programmare gli interventi dei servizi sociali e identificare le misure di performance più adatte.
Gli input corrispondono alle risorse che vengono utilizzate per realizzare un intervento, e comprendono tanto le risorse finanziarie quanto quelle umane, ma anche il tempo, i beni materiali, le attrezzature, gli spazi e le tecnologie.
Le attività sono le azioni concrete che un’organizzazione svolge quotidianamente per gestire le proprie operazioni. È in questa fase che un’organizzazione può scegliere di fornire prodotti o servizi di qualità alta oppure bassa (ad esempio, interventi chirurgici ben eseguiti, programmi educativi personalizzati, pasti con ingredienti di qualità), ma spesso questa scelta non è osservabile o misurabile da osservatori esterni e nemmeno dai beneficiari stessi. Si tratta dell’asimmetria informativa tipica della produzione di beni sociali o di welfare.
Gli output sono i risultati diretti delle attività dell’organizzazione, generalmente espressi in termini di numero di prodotti realizzati o servizi erogati (ad esempio, il numero di visite mediche effettuate, le ore di lezione erogate, il numero di pasti distribuiti). Si tratta di misure facilmente quantificabili, che tuttavia non catturano necessariamente gli effetti a lungo termine o l’impatto sociale complessivo di un’attività.
Tali effetti più profondi sono rappresentati dagli outcome, ovvero i cambiamenti reali nella vita dei beneficiari: il miglioramento della salute dei pazienti, l’aumento delle competenze degli studenti e l’accesso a opportunità lavorative in linea con le loro aspettative, la riduzione della malnutrizione.
Infine, l’impatto rappresenta una misura ancora più sofisticata, che considera anche il contesto e le influenze esterne, permettendo di distinguere quanto l’intervento abbia effettivamente contribuito ai cambiamenti osservati.
Sembrerebbe quindi ideale spostare la misurazione dalle prime fasi (input, attività) alle fasi finali, attraverso la “misurazione dei risultati” o la “valutazione dell’impatto”, perché questo spostamento consente di misurare ciò che conta, in quanto più ci si avvicina alla parte finale della catena, più si è vicini al risultato che veramente si intende generare. Tuttavia, nonostante le fasi finali forniscano una misura più significativa dell’efficacia dell’intervento, è necessario tenere in considerazione che la misurazione dei risultati e dell’impatto è intrinsecamente complessa e imprecisa, specialmente quando si cerca di sintetizzare aspetti multidimensionali in un unico indicatore numerico.
Gli impatti spesso riguardano cambiamenti qualitativi e diversificati nelle vite dei beneficiari, come il miglioramento della salute, dell’istruzione o delle condizioni sociali, che non possono essere catturati integralmente da un solo indicatore. Ad esempio, la qualità dell’apprendimento in un contesto educativo non può essere ridotta esclusivamente al punteggio medio di un test, poiché tralascia aspetti fondamentali come lo sviluppo delle competenze critiche o l’impatto sul benessere emotivo di studenti e studentesse. Analogamente, un alto numero di visite mediche effettuate non garantisce che queste abbiano realmente migliorato la salute dei pazienti.
I meccanismi di valutazione tendono a favorire indicatori facilmente osservabili e quantificabili, tralasciando dimensioni più profonde ma meno evidenti. Questa semplificazione è ulteriormente aggravata dall’asimmetria informativa: gli operatori che forniscono i servizi spesso possiedono una conoscenza più dettagliata delle reali dinamiche del lavoro svolto, rispetto ai finanziatori o agli stakeholder esterni. Sugli impatti influiscono eventi ex ante imprevisti ed ex post di difficile valutazione, che cambiamo l’efficacia e i significati degli stessi outcome misurati. Questo può condurre a misurare cose sbagliate, con indicatori che non riflettono l’effettiva qualità dell’intervento, a interpretare nel modo sbagliato le stesse misurazioni, o a trascurare aspetti rilevanti per il benessere complessivo dei beneficiari.
L’esperimento qui presentato intende verificare gli effetti di questo spostamento dell’attenzione verso “obiettivi sociali misurabili” sulle motivazioni dei lavoratori, in un contesto sperimentale che permette di osservare come gli incentivi legati alla misurazione dell’impatto sociale possano influenzare il comportamento e le motivazioni degli operatori coinvolti. In particolare, si intende comprendere se la presenza di misure di performance focalizzate sugli output o sugli outcome sociali possa incentivare comportamenti che migliorano il benessere dei beneficiari finali, oppure generare potenziali effetti indesiderati, come la riduzione delle motivazioni intrinseche dei lavoratori.
Attraverso questo lavoro si intende contribuire al dibattito su come i meccanismi di finanziamento basati sulla performance possano avere effetti ambivalenti sul comportamento dei soggetti che operano nel campo del welfare. Da una parte, la spinta verso una maggiore efficienza economica e un impatto sociale misurabile può portare a risultati tangibili; dall’altra, l’uso di misurazioni imprecise o l’eccessiva enfasi su indicatori quantitativi potrebbe distorcere le motivazioni pro-sociali degli operatori, che vedono il proprio lavoro valutato su aspetti secondari, se non addirittura disallineati, rispetto alla qualità del servizio erogato.
Inoltre, non è solo la misura dell’impatto ad essere problematica, ma anche il fatto che essa viene utilizzata per ripagare un finanziatore esterno il cui obiettivo primario è la massimizzazione del profitto. Questo elemento introduce un’ulteriore complicazione, poiché il lavoratore potrebbe essere incentivato indirettamente a privilegiare le esigenze del finanziatore piuttosto che concentrarsi sulla qualità del servizio offerto ai beneficiari. In altre parole, l’adozione di una misura di impatto imprecisa o incompleta, che viene poi utilizzata come base per remunerare un investitore orientato al profitto, può portare a distorsioni nelle motivazioni intrinseche dei lavoratori. Questi ultimi potrebbero sentirsi spinti a conformarsi a tali metriche, sacrificando la qualità del servizio in favore di obiettivi che non rispecchiano realmente i bisogni dei beneficiari finali.
In particolare, lo studio si propone di analizzare se e in che modo l’associazione tra la valutazione del lavoratore, basata su una misura di impatto incompleta e approssimativa, e la possibilità di remunerare un finanziatore esterno orientato al profitto, ma condizionato da tale misura incompleta di impatto, possa creare un incentivo indiretto per il lavoratore. Sebbene la remunerazione del lavoratore non dipenda direttamente da questa dinamica, si esamina se egli possa essere spinto a privilegiare la remunerazione del finanziatore piuttosto che a concentrarsi sulla produzione di beni di alta qualità, a vantaggio dei beneficiari finali. L'obiettivo è comprendere se l’introduzione di tali meccanismi possa distorcere le motivazioni intrinseche del lavoratore, orientando le sue scelte produttive verso criteri che favoriscono il finanziatore, piuttosto che verso il miglioramento del benessere sociale.
Ad esempio, nel caso di programmi di inserimento lavorativo per persone svantaggiate, se i finanziatori ottengono profitti in base al numero di posti di lavoro creati, il sistema potrebbe teoricamente funzionare. Tuttavia, poiché il raggiungimento di un impiego stabile è un obiettivo relativamente raro e di difficile misurazione, si tende spesso a introdurre obiettivi intermedi – come la partecipazione a corsi di formazione o la firma di un impegno ad accettare un lavoro – che, al di fuori di un percorso reale e verificabile, rischiano di diventare meri adempimenti formali. Questo fenomeno, amplificato dall’asimmetria informativa tra chi finanzia e chi gestisce l’intervento, può generare le ben documentate distorsioni nel comportamento degli operatori e nella qualità del supporto offerto. Allo stesso modo, in un progetto di contrasto alla povertà educativa, un finanziamento condizionato al numero di studenti raggiunti potrebbe portare a sacrificare l’effettiva qualità didattica. Oppure, in ambito sanitario, gli operatori potrebbero essere indotti a focalizzarsi solo su aspetti considerati importanti dai finanziatori, come il numero di prestazioni erogate, a discapito di un miglioramento complessivo delle condizioni di salute dei pazienti più vulnerabili.
Il dibattito sull’effettiva applicazione degli strumenti di finanza a impatto sociale si è finora concentrato principalmente sui metodi di valutazione e misurazione dell’impatto sociale, con l’obiettivo di determinare la remunerazione del capitale investito. Tuttavia, questo dibattito ha trascurato un aspetto cruciale: il ruolo delle motivazioni che spingono gli agenti coinvolti, come investitori e imprenditori sociali, ad agire. In particolare, si è spesso ignorato il fatto che le distorsioni derivanti dagli indicatori utilizzati non siano meri errori tecnici, ma abbiano una natura sistematica, legata all’asimmetria informativa e ai vincoli di costo-opportunità nella definizione di criteri di misurazione.
La produzione di beni sociali o di welfare coinvolge spesso lavoratori che sono spinti da motivazioni “intrinseche” o “ideali”. Medici, infermieri, insegnanti, e operatori sociali, per esempio, operano non solo per ottenere un guadagno economico, ma anche per un senso di missione e per il desiderio di migliorare il benessere dei propri beneficiari. La qualità dei beni o servizi prodotti da questi lavoratori dipende strettamente dal loro impegno.
Poiché i beni e servizi prodotti dalle imprese sociali sono tipicamente non di mercato, l’inclusione di elementi di profitto potrebbe, da un lato, spingere verso attività più redditizie, escludendo alcuni settori o beneficiari, e dall’altro, minacciare le motivazioni ideali dei lavoratori e dei donatori.
In questo contesto, c’è il rischio che gli interessi del settore privato, coinvolto in queste iniziative, possano privilegiare la generazione di profitti rispetto ai reali bisogni dei beneficiari dei servizi (Warner, 2013). Tale rischio potrebbe portare a una riduzione della qualità dei servizi erogati e a una perdita di fiducia nel sistema da parte degli operatori sociali.
Come evidenziato da Bernardoni (2018), l’adozione di strumenti finanziari orientati alla performance rischia di imporre alle imprese sociali una logica di mercato che può alterarne la missione originaria. Questo approccio, spesso promosso con l’intento di migliorare l’efficienza e l’efficacia degli interventi sociali, può invece portare a una standardizzazione delle pratiche e a un indebolimento della capacità delle imprese sociali di rispondere in modo flessibile e innovativo ai bisogni emergenti.
Inoltre, l’introduzione di schemi di incentivo tipicamente associati a meccanismi di mercato può compromettere le motivazioni pro-sociali degli operatori, generando effetti negativi. Questo effetto è noto nel caso di incentivi diretti ai lavoratori, ma il rischio è altrettanto reale quando le modalità di finanziamento indirizzano i comportamenti degli attori coinvolti, perché veicolano un messaggio su ciò che l’organizzazione ritiene importante, in una dinamica di tensione tra il ritorno economico e quello sociale che caratterizza il dibattito sulla finanza a impatto sociale.
Questo lavoro intende quindi evidenziare i limiti e le potenzialità della finanza a impatto sociale, esplorando come diverse modalità di misurazione e remunerazione dei finanziatori possano influenzare sia l’efficienza del sistema, sia la qualità dell’intervento sociale. Questi risultati saranno fondamentali per comprendere meglio come progettare meccanismi di incentivo che siano in grado di bilanciare gli obiettivi economici con quelli sociali, senza compromettere la missione di fondo degli operatori del welfare.
Per esplorare questi aspetti, abbiamo adottato un approccio sperimentale, proponendo un esperimento di economia comportamentale per valutare la risposta dei diversi stakeholder dell’impresa sociale a differenti meccanismi di finanziamento. Il nostro esperimento coinvolge tre soggetti principali: un lavoratore, un finanziatore e un beneficiario. Questo schema permette di rappresentare in modo stilizzato le interazioni che si verificano tipicamente all’interno di un’impresa sociale.
Nel design sperimentale, il lavoratore prende decisioni relative alla produzione di beni, i quali rispecchiano le caratteristiche dei beni o servizi “sociali” tipicamente prodotti dalle imprese sociali. Questi beni non solo generano un ritorno finanziario per il lavoratore, ma producono anche un beneficio sociale per un beneficiario esterno. Questi due ritorni si traducono, nel contesto dell’esperimento, in un guadagno monetario per il lavoratore e per il beneficiario.
Al lavoratore è chiesto di scegliere come utilizzare una dotazione iniziale di risorse per produrre una combinazione di due tipi di beni: i beni “di tipo 1” sono meno costosi e generano scarsi benefici per il beneficiario e corrispondono quindi a beni di scarsa qualità; i beni “di tipo 2” sono invece beni di alta qualità, che richiedono più risorse per la loro produzione e generano benefici più alti per il beneficiario. La differenza di qualità tra i due tipi di beni si riflette sul costo per produrli da parte del lavoratore, cioè sulle risorse che deve impiegare nella produzione, e sul beneficio generato per il beneficiario, ma entrambe queste dimensioni non possono essere tradotte nel valore di mercato del bene prodotto: infatti, entrambi i tipi di beni generano lo stesso guadagno per il lavoratore, in quanto la qualità non viene osservata dall’esterno.
I guadagni del lavoratore sono massimi se decide di produrre solo beni di bassa qualità, perché richiedono meno risorse ed è quindi possibile produrne di più. I guadagni del beneficiario, invece, sono massimi se il lavoratore produce solo beni di alta qualità.
In questo contesto, la scelta di produzione del lavoratore dimostra la sua disposizione nei confronti del beneficiario: dati i vincoli di risorse disponibili e i costi dei beni, il lavoratore può scegliere tra diverse combinazioni di beni di tipo 1 e di tipo 2. Può scegliere solo beni di bassa qualità e ottenere il massimo guadagno per sé; oppure prediligere la qualità ottenendo un guadagno inferiore ma generando guadagni anche per il beneficiario.
Da un lato può quindi scegliere di massimizzare il proprio guadagno, puntando a produrre il maggior numero di beni; dall’altro può privilegiare la qualità dei beni prodotti, a favore del beneficiario e a discapito del proprio guadagno. La prima scelta rappresenta la scelta di un lavoratore razionale auto-interessato che massimizza il proprio pagamento; la seconda scelta rappresenta la scelta di un individuo caratterizzato da motivazioni pro-sociali o comunque non esclusivamente auto-interessate, che chiamiamo “intrinseche”.
A partire da questo modello, abbiamo introdotto la presenza di un finanziatore che osserva la scelta di produzione del lavoratore e può decidere se contribuire ai costi di produzione con un finanziamento. Ogni finanziatore è abbinato a cinque lavoratori, mentre ciascun lavoratore produce beni per un solo beneficiario.
Il finanziatore ha la possibilità di utilizzare risorse esterne (fornite dal ricercatore) per contribuire ai costi di produzione: nella realtà si avvicina quindi a un gestore di fondi, a un manager di una fondazione o di una banca che può decidere come investire le risorse. Se decide di non finanziare un lavoratore (un’impresa sociale), ottiene un pagamento fisso: è come se investisse le risorse in altre attività caratterizzate da un rendimento sicuro. Se invece decide di finanziarlo, ottiene un rendimento variabile, a seconda dei trattamenti.
Un lavoratore che ottiene il finanziamento riceve un contributo ai costi di produzione, che si traduce in un incremento del suo pagamento. Il finanziamento interviene quindi solo sul guadagno del lavoratore: in questo modo assumiamo che un finanziatore possa contribuire ai costi di un’impresa sociale e renderla più efficiente e remunerativa per l’aspetto relativo al ritorno finanziario, ma non possa agire direttamente sulla qualità dei beni prodotti, e quindi sui benefici sociali. Infatti, il pagamento del beneficiario dipende sempre e solo dalla scelta del lavoratore.
Per quanto riguarda il finanziatore, ha una duplice caratterizzazione: valuta i piani di produzione e può decidere se finanziare o non finanziare il lavoratore (agisce quindi come valutatore) e allo stesso tempo ne ricava un beneficio, cioè quando decide di finanziare è come se investisse nell’impresa sociale e quindi guadagna qualcosa in base al piano di produzione scelto. La regola con cui il finanziatore viene ripagato in base alla produzione del lavoratore varia fra i trattamenti.
Il trattamento iniziale ha permesso di raccogliere dati sulle scelte effettuate dai soggetti che assumono il ruolo dei lavoratori in una situazione caratterizzata dalla sola presenza di beneficiari, che non svolgono alcun ruolo attivo ma ricevono guadagni in base alle scelte dei lavoratori. I partecipanti a questo esperimento si sono prevalentemente suddivisi in tre "tipi": coloro che hanno prodotto solo beni di bassa qualità, massimizzando il proprio guadagno (il 25%); coloro che hanno scelto di produrre solo beni di alta qualità, massimizzando il beneficio per i beneficiari (il 26%); e coloro che si sono collocati a metà tra questi due estremi (il 13%). La restante parte dei partecipanti (il 36%) ha invece mostrato scelte più diversificate, senza una chiara appartenenza a uno dei tre gruppi principali.
A partire da questa prima osservazione, i trattamenti successivi hanno indagato l’effetto di diverse forme di finanziamento esterne sui comportamenti dei lavoratori.
La prima ad essere valutata è stata l’introduzione di maggiori risorse: l’effetto di questa variazione è stato uno spostamento verso la produzione di più beni di qualità. La percentuale di coloro che hanno prodotto solo beni di qualità, con il maggior guadagno per i beneficiari, è salita dal 13% al 22%; il 26% dei soggetti ha continuato a produrre solo beni di bassa qualità; al centro sono rimasti il 24% dei soggetti, che hanno scelto di produrre un mix di beni di alta e bassa qualità. Quando le risorse a disposizione sono maggiori, aumentano quindi i lavoratori disposti a condividere i benefici della produzione con i beneficiari.
I trattamenti successivi hanno previsto l’inserimento di una figura ulteriore, il finanziatore, che osserva la scelta di produzione del lavoratore e può decidere se contribuire ai costi di produzione con un finanziamento. I trattamenti vincolano in modi diversi il rendimento per il finanziatore alle scelte del lavoratore.
In ogni trattamento si sono potute osservare le scelte di produzione dei lavoratori e le scelte di investimento dei finanziatori, ma anche le aspettative dei lavoratori sul finanziamento, le valutazioni dei finanziatori, le aspettative dei beneficiari. Questi dati consentono di valutare l’impatto di diverse strutture di finanziamento sui comportamenti e sulle credenze dei giocatori.
Il primo trattamento prevede che il finanziatore osservi la scelta del lavoratore e decida se finanziarlo o meno sulla base di una propria valutazione. Il finanziatore è indifferente, a livello di remunerazione per sé, tra investire in un’impresa sociale o in qualunque altra attività che garantisce lo stesso rendimento. I payoff del beneficiario sono invariati. Il lavoratore invece guadagna di più se ottiene il finanziamento.
Si è poi proposto un trattamento che collegasse il rendimento per il finanziatore alla qualità dei beni prodotti. Questo rappresenta il modello ideale dell’investitore “impact”: un soggetto capace di valutare l’operato di un’impresa sociale in termini di outcome o impatti reali generati per i beneficiari e di strutturare uno strumento finanziario in modo da ottenere un ritorno maggiore al crescere di tale impatto. Tuttavia, coerentemente con l’approccio fin qui delineato, in un contesto di asimmetria informativa l’impatto reale è noto, forse, solo al lavoratore, mentre il finanziatore non ha alcun motivo per sfuggire alla tendenza – comune a qualsiasi terzo – di affidarsi a indicatori semplificati e, in ultima analisi, eccentrici rispetto agli effetti sostanziali. Di conseguenza, è plausibile che l’istanza del finanziatore finisca per esercitare una pressione a conformarsi agli indicatori adottati. Questo meccanismo risulta particolarmente critico nei modelli pay by results, dove la remunerazione dell’organizzazione, ma soprattutto del finanziatore, dipende direttamente dal raggiungimento di obiettivi misurati secondo metriche potenzialmente distorsive.
L’effetto di questo schema di finanziamento porta al 22% la quota di lavoratori che scelgono di produrre la massima qualità per il beneficiario, mentre solo l’11% dei lavoratori sceglie di produrre solo beni di scarsa qualità. Sembra quindi che uno strumento di tipo “impact” possa funzionare nel motivare anche i lavoratori ad aumentare i benefici sociali. Restano tuttavia due profili critici da sottolineare relativamente a questo risultato: la quota di lavoratori che generano alti benefici sociali è la stessa del trattamento in cui tutti i lavoratori venivano finanziati ex ante, indipendentemente dal piano di produzione scelto. Sembra quindi che a motivare i lavoratori potrebbe essere la maggiore disponibilità di risorse piuttosto che il meccanismo di finanziamento legato all’impatto sociale generato. D’altra parte, occorre sottolineare che il meccanismo proposto in questo trattamento richiede da parte dell’investitore impact una capacità di osservare e misurare con precisione il beneficio sociale generato per i beneficiari, insieme alla possibilità di parametrare il rendimento finanziario a tale beneficio.
Come sottolinea Marocchi (2020), il rischio è che le valutazioni di impatto vengano utilizzate non tanto come strumenti di apprendimento organizzativo, ma come mere strategie di legittimazione nei confronti di finanziatori e stakeholder. Questo porta a un’ipersemplificazione delle metriche, spesso fondate su obiettivi quantitativi di breve termine, che non riflettono realmente la complessità degli interventi sociali né le loro ricadute di lungo periodo.
Alla luce delle note difficoltà di misurare e trasformare in indicatori sintetici l’effettivo beneficio in termini di miglioramento della qualità di vita dei beneficiari, si sono introdotti due trattamenti ulteriori che consentono di descrivere situazioni in cui i finanziatori non sono in grado di osservare e misurare in modo preciso l’impatto.
Nel primo caso, il rendimento per il finanziatore che decide di contribuire ai costi è legato al numero totale di beni prodotti. Non si valuta quindi la qualità ma solo il numero di prestazioni fornite, ammettendo così che sia impossibile collegare il rendimento finanziario alla effettiva qualità del servizio sociale, ma sia necessario ricorrere a proxy quantitative. Di fatto il finanziatore partecipa al ritorno generato per il lavoratore e il suo rendimento è legato solo all’efficienza della produzione, non alla qualità dei beni sociali prodotti. In questo caso gli interessi del finanziatore coincidono con quelli del lavoratore: entrambi guadagnano di più se vengono prodotti molti beni di bassa qualità, a discapito del beneficiario. Nella pratica, questo trattamento intende riprodurre uno schema di finanziamento “basato sugli output”: il finanziatore che intende finanziare un’impresa sociale viene ripagato in base al numero di beni prodotti (guadagna in base al numero di ricoveri, o al numero di studenti iscritti in una scuola, o al numero di detenuti che hanno seguito un percorso di riqualificazione), senza poterne valutare la qualità.
La maggioranza dei lavoratori in questo trattamento produce solo beni di bassa qualità (il 32%), e solo il 6% sceglie di produrre solo beni di alta qualità. Sembra quindi che uno schema di rendimento per il finanziatore legato esclusivamente al numero di beni prodotti (output) senza tener conto delle ricadute positive di tipo sociale induca i lavoratori a diminuire il proprio impegno a favore dei beneficiari, garantendo il massimo rendimento per i finanziatori e il massimo guadagno per sé.
Un altro modo per riprodurre la difficoltà di misurare è offerta nel trattamento successivo in cui si prevede che il finanziatore, come osservatore esterno di una attività che genera benefici sociali, non possa avere una osservazione completa dell’impatto sociale generato, ma possa osservare solo alcuni interventi, e legare il rendimento del proprio finanziamento al raggiungimento di una soglia minima di benefici sociali generati, in una sorta di controllo di qualità a campione (il valutatore verifica nel dettaglio un numero ridotto di beni o servizi: ad esempio controlli su alcuni interventi sanitari effettuati da una struttura, verifica del raggiungimento di certi livelli di conoscenza da parte di una classe, valutazione di uno o più dipartimenti di un ateneo), che ricorda il meccanismo dei Social Impact Bond in cui il finanziatore viene ripagato solo se l’impresa sociale raggiunge un certo obiettivo.
Nell’esperimento, il lavoratore può scegliere come prima una quantità variabile di beni di alta qualità, da 0 a 10, mentre il finanziatore può osservare solo se la soglia di 3 beni di alta qualità è stata raggiunta: in caso positivo (produzione sopra la soglia) il finanziatore ottiene un pagamento più alto rispetto alla scelta di non finanziare, in caso negativo (produzione sotto la soglia) il rendimento per il finanziatore non è remunerativo dell’investimento, e quindi egli preferisce non finanziare il lavoratore.
Il risultato in questo caso è molto significativo: il 39% dei lavoratori sceglie di produrre esattamente il minimo necessario per garantire un rendimento al finanziatore (e quindi indirettamente ottenere un finanziamento), cioè 3 beni di alta qualità. Il 7% continua a produrre 0 beni di qualità, mentre crolla al 4% la percentuale di lavoratori che producono il massimo beneficio per il beneficiario (10 beni di qualità). Si evidenzia quindi uno spiazzamento, o crowding out, delle motivazioni intrinseche dei lavoratori, dovuto all’utilizzo di misurazioni imprecise del beneficio sociale generato.
L’analisi di tutti i dati raccolti consente di fornire indicazioni relative ai comportamenti, alle credenze e alle aspettative di lavoratori, beneficiari e finanziatori al variare dei meccanismi di finanziamento.
Negli ultimi anni, soprattutto a seguito della crisi finanziaria globale, molti investitori hanno mostrato interesse a finanziare progetti con un esplicito scopo sociale, legando il raggiungimento di obiettivi sociali a profitti monetari. In questo contesto, l’uso di metriche è cruciale per collegare la realizzazione di obiettivi misurabili con i ritorni finanziari per gli investitori.
I social impact bond sono l’esempio più calzante, ma non necessariamente l’unico di tale approccio. Infatti, essi stabiliscono che un soggetto privato finanziatore (o un manager che raccolga più investitori) contratti con un ente pubblico la fornitura di un bene o servizio di welfare, pattuendo una remunerazione finanziaria di (quasi) mercato qualora il risultato sociale (impatto) sia ottenuto secondo la metrica utilizzata, e prendendosi il rischio del fallimento. Al contempo prevedono che il finanziatore contratti con o controlli (partecipando alla governance) un’impresa sociale per impegnarla all’ottenimento del risultato suddetto, impegno cui corrisponde il finanziamento della produzione (anche senza imporre remunerazioni condizionali rispetto al risultato – ma con la sola condizionalità del mantenimento in futuro dell’investimento), e con l’obiettivo esplicito di consentire al finanziatore di conseguire il profitto condizionato al raggiungimento di certe misure di impatto concordate.
L’evidenza sperimentale raccolta in questo studio mostra che il finanziamento dell’impresa sociale con modelli orientati al profitto potrebbe compromettere uno dei fattori chiave del suo successo: la motivazione pro-sociale dei lavoratori.
Il lavoro qui presentato parte dalla consapevolezza che l’uso di indicatori di performance per valutare la qualità degli interventi sociali, combinato con la necessità di generare un ritorno finanziario per gli investitori, può generare problemi significativi. In particolare, l’enfasi sui profitti e la misurazione delle performance possono compromettere le motivazioni pro-sociali dei lavoratori.
I risultati dimostrano che la disposizione iniziale dei lavoratori a produrre beni di una certa qualità non è un fatto naturale e quindi stabile, ma varia significativamente a seconda delle regole di remunerazione dei finanziatori e della conseguente percezione degli scopi organizzativi e del “significato” attribuito concordemente dell’organizzazione economica cui si partecipa. Questo cambiamento non è dovuto a incentivi diretti per i lavoratori, dato che la remunerazione del finanziatore non è condizionata ai pagamenti dei lavoratori. Tuttavia, le regole di remunerazione dei finanziatori, seppur pensate per influenzare solo il loro comportamento, hanno un impatto profondo sulle scelte di produzione dei lavoratori in quanto segnalano ad essi una certa tipologia organizzativa o una situazione corrispondente a un certo frame mentale rispetto al quale sono implicite certe richieste normative - o piuttosto la non appartenenza a un assetto organizzativo o un tipo in cui certi impegni e certe richieste sono implicite.
Di questo fenomeno si possono dare spiegazioni alternative, che ovviamente vanno oltre gli stretti risultati sperimentali del nostro lavoro. Una di esse (Bicchieri, 2006) può essere data in termini di quali sono le norme sociali che i lavoratori ritengono essere in atto tra di loro sulla base della tipologia di organizzazione in cui sarebbero immersi. La percezione del tipo implica un frame mentale che attiva aspettative normative alle quali essi rispondono, ma non rispondono più quando il tipo cambia e implica un frame alternativo (si veda Cecchini Manara e Sacconi, 2019). Alternativamente (Grimalda e Sacconi, 2005; Sacconi e Faillo, 2010; Sacconi, Faillo e Ottone, 2011; Faillo, Ottone e Sacconi 2015) si può supporre che differenti tipi di organizzazione (imprese sociali) siano identificati attraverso i patti associativi costitutivi su principi di giustizia e la trasmissione via cultura organizzativa/ideologia di tali patti. In tal caso, accordi imparziali su principi di giustizia attivano un frame mentale circa il pattern secondo cui i partecipanti si comportano e se reciprocamente concordanti, attivano infine preferenze di conformità ai principi, che possono dar luogo ad equilibri in cui la conformità ai principi è attuata benché non sia nell’interesse immediato dei partecipanti. Se tuttavia elementi della struttura istituzionale contraddicono l’ipotesi che il tipo dell’organizzazione sia quello fondato sul suddetto accordo, poiché diverso è lo scopo percepito, se cioè viene meno il frame mentale in base al quale ci aspettiamo il comportamento altrui e definiamo il nostro comportamento appropriato, allora le motivazioni o preferenze associate a tale accordo si affievoliscono. In questo caso la chiave è la variabile accordo imparziale, almeno ipotetico, in base al quale si attivano aspettative e preferenze. mentre nel caso precedente semplicemente una certa descrizione della realtà sembra implicare certe aspettative normative legittime da parte degli altri.
Non c’è ovviamente modo di discriminare tra queste ipotesi che sono tutte compatibili con i risultati da noi osservati. Il punto importante è che inserire un cambiamento negli interessi perseguiti cambia il modello mentale dell’istituzione, dei suoi principi e scopi, anche senza coinvolgere direttamente lo schema di remunerazione del lavoratore. Ciò implica un cambiamento di comportamento e di preferenze rivelate dal comportamento.
I risultati di questo studio mostrano che le motivazioni e i comportamenti dei lavoratori risultano fortemente influenzati dagli incentivi finanziari, anche quando questi sono progettati per favorire i finanziatori e non sono direttamente rivolti ai lavoratori. Questi ultimi possono subire un impatto indiretto, poiché la possibilità di ottenere finanziamenti dipende dal soddisfare certe metriche. Tuttavia, le difficoltà nel misurare correttamente i risultati e gli impatti possono portare a effetti perversi sulle motivazioni pro-sociali e sul comportamento dei lavoratori, che possono essere indotti a privilegiare la quantità o il rispetto di soglie minime a scapito della qualità complessiva del servizio.
Gli operatori sociali, i medici, gli infermieri, gli insegnanti, possono sentire la pressione derivante dal fatto che i loro finanziatori tengono in considerazione alcuni aspetti e non altri. Anche se il loro stipendio rimane fisso e non dipende dalla misurazione dei risultati, il loro comportamento può essere sensibilmente modificato dal sapere che il finanziamento dell’organizzazione per cui lavorano dipende dal raggiungimento di alcuni target. E soprattutto la loro percezione di lavorare per un’impresa sociale oppure per il profitto dei finanziatori può avere un effetto sulle loro motivazioni.
Le preferenze, siano esse pro-sociali o auto-interessate, non sono immutabili o definite una volta per tutte. Esse si sviluppano in relazione con le istituzioni e con le norme etiche implicite nelle regole organizzative e con i frame mentali che le situazioni o le istituzioni attivano circa le aspettative sui comportamenti altrui e le attese normative verso gli agenti. Le preferenze pro-sociali tendono a crescere insieme a regole istituzionali che promuovono obiettivi collettivi, e i membri dell’organizzazione tendono ad allinearsi con le norme e gli obiettivi dell’organizzazione stessa. Tuttavia, regole di remunerazione orientate esclusivamente al profitto, anche quando non colpiscono direttamente i lavoratori, possono spiazzare le preferenze pro-sociali, e orientarle verso scopi auto-interessati ma compatibili con scopi organizzativi di remunerazione degli investitori.
Così si osserva che, partendo da una certa comprensione implicita della situazione cui partecipano, in cui l’unico elemento saliente è lo svolgimento o meno di un’attività favorevole al beneficiario, una preferenza pro-sociale rivolta al beneficiario si manifesta anche in assenza di incentivi o investimenti. Successivamente, a seconda della condizione di remunerazione dell’investitore basata sulla misura del risultato, le preferenze degli operatori si modificano, rispondendo all’incentivo indiretto costituito dalla regola di remunerazione dell’investitore, e finiscono per spiazzare le preferenze iniziali.
In particolare, quando la condizione di remunerazione del capitale ignora completamente la qualità, anche il perseguimento della qualità da parte del lavoratore tende a decadere. Al contrario, se la remunerazione è condizionata al raggiungimento di un risultato qualitativamente elevato, si osserva un significativo aumento della preferenza per la qualità nelle prestazioni a favore del beneficiario. Tuttavia, il risultato più sorprendente si verifica quando viene fissata una soglia arbitraria per la misura del risultato di qualità — rappresentativa della difficoltà nel raccogliere informazioni rilevanti — sufficiente a garantire la piena remunerazione dell’investitore. In tale scenario, i lavoratori tendono a convergere sulla produzione di una qualità appena sufficiente a soddisfare il requisito per la remunerazione, con un risultato complessivamente inferiore a quello che si sarebbe ottenuto in assenza di qualsiasi investimento.
Gli incentivi, dunque, contano, inclusi quelli indiretti, che sono associati alla percezione del tipo di organizzazione in cui si opera e delle norme implicite richieste. Tuttavia, gli incentivi legati alla remunerazione del capitale, se condizionati a verifiche limitate della qualità, finiscono per generare livelli insufficienti di qualità e un impatto ridotto. Il meccanismo della finanza di impatto – dato che non è possibile disporre di misure accurate e prive di asimmetrie informative, e quindi non soggette a iper-semplificazioni quando vengono adottate per regolare la remunerazione degli investitori – rischia di ottenere una riduzione del beneficio sociale rispetto al caso di assenza di finanza di impatto.
Questo rafforza quanto osservato anche da Marocchi (2020): la valutazione di impatto, pur avendo catalizzato l’attenzione del settore, viene spesso adottata in funzione della promozione nei confronti dei finanziatori, piuttosto che come strumento di riflessione interna e miglioramento delle pratiche. In un contesto in cui le metriche di impatto sono imprecise o parziali, si rischia di alimentare meccanismi di autoreferenzialità piuttosto che promuovere innovazione e apprendimento.
Pertanto, si può affermare che, al fine di disegnare una efficace finanza “sociale”, bisogna partire dalla natura e dalle caratteristiche fondamentali dell’impresa sociale per progettare strumenti finanziari efficaci che rispondano alla domanda reale.
Le caratteristiche principali da tenere in considerazione per progettare strumenti finanziari adatti alle imprese sociali sono: la coesistenza di obiettivi economici e sociali, la natura non profit ovvero la limitata distribuzione degli utili, lo stretto rapporto con la comunità, la natura partecipativa multi-stakehoder (Borzaga, 2013) e, maggiormente importante ai fini della nostra spiegazione precedente, il consapevole perseguimento di una funzione distributiva (Borzaga e Galera, 2023). Tali caratteristiche istituzionali e di governance costituiscono l’impresa sociale come una specie definita, irriducibile all’idea di ibrido (tra non profit e profit), e che si distingue come tipica anche nell’ambito del genus normativo dell’impresa socialmente responsabile (multi-stakeholder), il quale a sua volta si contrappone al modello dell’impresa capitalistica operante secondo il principio univoco della remunerazione dell’investimento finanziario e della massimizzazione del valore patrimoniale (Sacconi 2004).
In primo luogo, l’impresa sociale è caratterizzata, nella sua dimensione economica e imprenditoriale, da un’attività continuativa di produzione di beni e/o vendita di servizi, un livello significativo di rischio economico, un apporto minimo di lavoro retribuito. Queste caratteristiche devono indurre a disegnare strumenti finanziari che da un lato consentano un flusso continuo di capitale, ma allo stesso tempo evitino di imporre rigide misure di performance basate su obiettivi a breve termine e di accompagnarle con incentivi economici per i lavoratori. Gli incentivi economici, infatti, non sono in questo contesto rilevanti quanto potrebbero esserlo in settori profit dell’economia, e anzi potrebbero condurre a effetti perversi, come evidenziato dai risultati sperimentali.
In secondo luogo, la dimensione sociale che caratterizza l’impresa sociale deve portare a tenere in considerazione l’esplicita missione sociale, tipicamente a beneficio di una comunità (più o meno estesa, più o meno radicata sul territorio), che nasce dall’iniziativa privata di gruppi di cittadini o da organizzazioni della società civile, e che di conseguenze limita la distribuzione degli utili, proprio per garantire la predominanza della missione sociale. Ne consegue che gli strumenti finanziari debbano essere disegnati garantendo, anche dal lato del finanziamento, la più ampia partecipazione della comunità dei cittadini coinvolti (soci, volontari, lavoratori, finanziatori, beneficiari, etc.), garantendo la loro partecipazione alla gestione dell’impresa, e al contempo limitandone l’aspettativa di ritorni economici.
In terzo luogo, l’impresa sociale si caratterizza per la governance partecipativa, che implica un ampio grado di autonomia, un potere decisionale non basato sulla proprietà del capitale, a una natura partecipativa. Da queste caratteristiche deriva l’implicazione che esclude strumenti finanziari tali da collegare il potere decisionale alla quantità di capitale investito, ma piuttosto meccanismi partecipativi e dialogici come il principio “una testa – un voto” o la rappresentanza negli organi direttivi di tutte le categorie di stakeholder.
Infine, l’impresa sociale si distingue per la distribuzione dei benefici generati secondo principi di equità e giustizia tra gli stakeholder coinvolti, garantendo che i bisogni dei beneficiari rimangano centrali rispetto ad altri interessi economici o organizzativi. Per questo bisogna evitare strumenti di finanziamento che privilegiano gli interventi più facili da misurare da un osservatore esterno, a discapito di interventi più rilevanti per il benessere dei beneficiari che possono creare difficoltà a chi vuole collegare i risultati con i rendimenti finanziari.
I finanziatori e coloro che disegnano gli strumenti di finanza dovranno muoversi a partire da queste caratteristiche se intendono promuovere il Terzo Settore, che in questi elementi trova i suoi caratteri distintivi e anche la chiave del suo successo.
DOI 10.7425/IS.2025.01.08
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