Il dibattito nel quale la Sentenza della Corte costituzionale 131 del 26 giugno 2020 è intervenuta in modo autorevole e decisivo, difficilmente conquisterà le prime pagine dei giornali. Il Terzo settore è (talvolta) un tema interessante per i grandi media generalistici per le attività che svolge a diretto contatto con i cittadini, per gli interventi a favore di anziani o i disabili, le attività aggregative rivolte ai ragazzi, le azioni di tutela dell’ambiente e così via; il tema della sentenza 131/2000 appare invece una questione “da giuristi” o comunque da addetti ai lavori interessati agli aspetti procedurali, alle regole di ingaggio tra pubbliche amministrazioni e Terzo settore. Una questione, quindi, con poco appeal per il grande pubblico.
Ma non sempre l’appetibilità mediatica coincide con l’effettiva rilevanza di una questione. Che invece, nel caso della Sentenza 131/2020, assume un rilievo sorprendente. Ma andiamo con ordine, provando a ricostruire la vicenda nel suo svolgimento e l’atteggiamento assunto dai diversi soggetti coinvolti.
Va in primo luogo compreso il contesto in cui gli eventi si svolgono e che Impresa Sociale ha provato ad inquadrare nel numero 1/2020, con i contributi di Revelli e Salvatori: la vittoria del mercato ha portato con sé l’assolutizzazione della competizione come principio che regola e dà forma ai rapporti tra gli attori economici, diventando al tempo stesso un principio di riferimento in una molteplicità di relazioni sociali. Le cose, entro questo sistema di pensiero, funzionano bene nella misura in cui sono sottoposte alle leggi della concorrenza. Da una parte, in questa visione, la competizione di mercato garanzia di efficienza, dall’altra l’inefficienza e sprechi delle gestioni pubbliche; da una parte la concorrenza che dà a tutti le stesse opportunità di proporsi e affermarsi, dall’altra clientelismi e corruzione. Non è questa la sede per richiamare né talune buone ragioni di tali affermazioni, né le componenti ideologiche ad esse sottostanti; basti affermare che, pur con percorsi talvolta tortuosi, la religione del mercato e della concorrenza negli ultimi decenni ha guadagnato terreno, dimostrando tra l’altro una capacità di estendersi anche contro ogni evidenza, contro argomentazioni di economisti (Borzaga, 2019), riconducendo a sé anche gli elementi potenzialmente in grado di romperne l’egemonia. La crisi del 2008 rappresa l’esempio più evidente: a partire da un diffuso sentimento di ostilità verso le banche e la finanza responsabili della crisi e passando per una fascinazione, delle istituzioni europee e della cultura in genere, per l’imprenditorialità sociale come soluzione per la crisi in cui si era precipitati, si è approdati ad una situazione in cui da una parte il mercato ha rafforzato le sue posizioni e dall’altra l’impresa sociale è stata interpretata sempre più come soggetto omologato alle imprese for profit, di cui vengono argomentati con insistenza similitudini e punti di contatto. Come scrivevamo qualche mese fa, “per quanto ragionamenti, buon senso, studiosi, simpatie popolari portino a ritenere naturale restringere e collocare appropriatamente la sfera del mercato – non certo sopprimerla, semplicemente limitare la sua tendenza onnivora – in un modo o nell’altro, magari con qualche cambio di facciata, il mercato risorge più forte di prima. Anzi, come il preistorico videogioco Snake / Nibbles, ingurgita tutto, anche i suoi oppositori e si allunga sempre più, fino appunto, come l’antico serpente di bit, a entrare in conflitto con se stesso scontrandosi con la propria coda o cozzando contro un ostacolo”.
L’Europa ha fatto del mercato e della concorrenza l’aspetto forse più qualificante e longevo che ha attraversato le diverse politiche; nell’Italia del decennio che si sta concludendo è stato difficile trovare forze politiche non marginali che mettessero in questione l’egemonia di mercato e si è assistito, intorno alla metà degli anni Dieci, all’irresistibile ascesa dell’ANAC – che assume nel 2013 questa denominazione in luogo della precedente Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici – a rimarcare lo stretto legame tra competizione di mercato, trasparenza, e immunità da fenomeni illegali; e facendo quindi coincidere ogni limitazione della pervasività della concorrenza con pratiche deprecabili, corruttive, clientelari. Grazie anche alla personalità carismatica di Raffaele Cantone, ANAC diventa in quel momento un’istituzione che allarga a dismisura la propria capacità di influenza: è una struttura tecnocratica che nessun soggetto, né nel mondo politico, né nella società civile, osa contraddire, pena l’essere additato a complice delle peggiori consorterie. La soft law dell’ANAC – deliberazioni assunte da un organismo tecnico e non dal Parlamento – diventa a poco a poco fonte imprescindibile interpretativa (e non solo) di ogni questione riguardante le relazioni tra enti pubblici ed altri soggetti.
L’ambito del welfare finì presto sotto il mirino. Il 16 aprile 2015 l’ANAC pubblicò gli esiti di una indagine su 116 comuni, denunciando come in 90 di essi fossero presenti, in grandissima maggioranza per interventi di welfare o in altri settori di interesse generale, fenomeni “distorsivi”, affidamenti viziati da pratiche tese a limitare la competizione di mercato, in gran parte frazionamenti di servizi per restare sotto le soglie comunitarie o rinnovi illegittimi. Si era, lo si ricorderà, nel pieno dello scandalo “mafia capitale” (i primi arresti erano stati nel dicembre 2014, i successivi saranno nel giugno 2015) e in un contesto in cui i media avevano notevolmente enfatizzato talune vere o presunte irregolarità nell’accoglienza dei migranti. Queste circostanze impedirono alla politica di dare una lettura matura di quanto ANAC aveva evidenziato: accanto a taluni casi censurabili, ciò che ANAC ravvisava come distorsione del mercato era probabilmente frutto dell’assenza di strumenti – o dell’incapacità di utilizzare correttamente quelli esistenti – per garantire l’offerta di servizi particolari come i servizi sociali e dare forma ad un rapporto, quello tra amministrazioni locali ed enti di Terzo settore, cui le regole di mercato almeno in alcuni casi poco si adattavano. Ma, in quella fase, era appunto impossibile agire sul fronte politico intervenendo con lucidità sul tema, perché chiunque osasse eccepire era accusato di connivenza con i malfattori per i quali “gli immigrati rendono più della droga”, per citare uno dei protagonisti di mafia capitale. La politica era annichilita e le stesse imprese sociali e le loro associazioni di rappresentanza, con poche eccezioni rinvenibili in letteratura grigia, apparivano disorientate, scegliendo profili di comunicazione dimessi. Anche ANCI – a quanto possiamo ricordare – in quell’occasione non prese posizione. Insomma, la constatazione che il 77% dei comuni esaminati (non certo tutti corrotti!), per relazionarsi con il Terzo settore, mostrasse difficoltà ad utilizzare il Codice degli appalti allora vigente (d.lgs. 163/2006) non originò, come sarebbe stato natura e saggio, considerazioni sulla necessità di aprire un ragionamento su nuovi strumenti, ma la convinzione che fosse necessario riportare all’ordine i trasgressori.
Nel mese di luglio 2015, anche ad esito di tale indagine, ANAC promuove l’adozione di “Linee guida per l’affidamento di servizi a enti di Terzo settore e alle cooperative sociali” (poi uscite nel marzo 2016), che si risolvono nel definire come utilizzare correttamente il codice degli appalti per gli affidamenti nel welfare. Vi è anche un cenno alla coprogrammazione e alla coprogettazione (quelle del D.P.C.M. 30/3/2001 conseguente alla 328/2000) dove ANAC si preoccupa di limitare possibili utilizzi di anticoncorrenziali di tali strumenti e non certo di valorizzarli come pratiche che potrebbero garantire servizi migliori e risorse aggiuntive; ma nel complesso all’epoca questo sembra un tema di nicchia, le cattive prassi che ANAC mirava ad eradicare erano altre e gli stakeholder che avevano partecipato alla consultazione si erano concentrati, con poche eccezioni, a temi diversi da quelli qui trattati.
L’onda lunga di questo clima culturale è ancora soverchiante nel 2016, quando viene approvata la Riforma del Terzo settore. La legge 106/2016, pur molto avanzata da molti punti di vista e capace di porre le basi per inquadrare il Terzo settore in termini autenticamente sussidiari secondo il dettato dell’art. 118 della Costituzione, quanto si tratta di ragionare su questi temi diventa afasica, quasi imbarazzata, affidando quindi al successivo decreto il compito di entrare nel merito delle questioni sulle quali oggi ci interroghiamo. E, probabilmente, con il senno di poi, è stato meglio così.
Infatti, un anno dopo il clima era diverso: mafia capitale non occupava più le prime pagine dei giornali ed era possibile inserire nel Codice del Terzo settore disposizioni coerenti con l’impostazione generale della Riforma. In questo contesto nasce l’art. 55, che, come ricorda Felice Scalvini (Scalvini 2018), appare una delle prime nitide disposizioni attuative del dettato Costituzionale in tema di sussidiarietà. Ma su questo, molto è stato scritto e non è necessario tornarci.
Ciò che qui rileva è quanto accade nella realtà: In primo luogo, si assiste alla proliferazione di esperienze di coprogettazione (un po’ meno di coprogrammazione), alcune delle quali direttamente ispirate all’art. 55, altre alla “vecchia” 328/2000 (o meglio all’art. 7 del DPCM 30/3/2001 che disciplinava le “istruttorie di coprogettazione”) talvolta vista come normativa più “sicura” (ad esempio perché vi sono leggi regionali che recepiscono queste forme di coprogettazione); ma certamente, anche in questi casi, è stato l’art. 55 a sbloccare culturalmente la situazione che si era ingarbugliata qualche anno prima: al di là dello strumento giuridico scelto, ha affermato che per istituzioni e Terzo settore collaborare – nel rispetto della trasparenza, e della parità di trattamento, si intende – è possibile.
Come si è avuto modo di evidenziare in altri articoli (Marocchi, 2019a), soprattutto gli enti locali e gli enti gestori della funzione socio assistenziale si rendono protagonisti di una vera e propria effervescenza su questi temi: decine di enti che non avevano mai coprogettato iniziano a farlo e vi sono sperimentazioni di coprogettazione anche su interventi di un certo rilievo. Cosa che già da sola dimostra quanto le amministrazioni locali – grandi e piccole, metropolitane e di territori ad elevata dispersione, e anche di diversi colori politici – constatassero come il sistema della competizione attraverso appalti non esauriva gli strumenti utili ad assicurare il benessere dei loro cittadini.
Insomma, dopo molti anni – a trent’anni dalle convenzioni per l’inserimento lavorativo del 1991 e a più di quindici dalla (sino ad allora poco utilizzata) istruttoria di coprogettazione della 328/2000 - emerge una per la prima volta una strumentazione amministrativa di un certo rilievo che consente di organizzare rapporti collaborativi tra soggetti pubblici e di Terzo settore, accanto ai consolidati rapporti orientati alla competizione di mercato.
E questa circostanza non passa inosservata. Saranno pure fatti marginali, ma ai custodi dell’ideologia di mercato non sfugge che quanto sta avvenendo – come nel 2015, sempre ad opera degli impenitenti protagonisti del mondo sociale - possa rappresentare un virus pericoloso.
Succede allora quanto sappiamo, che qui si analizza, più che dal punto di vista dei contenuti (per i quali si rimanda ai molti riferimenti in bibliografia), per la rilevanza degli attori che scendono in campo. La vicenda del ben noto parere del Consiglio di Stato 2052/2018 – malgrado si tratti di questioni, come si è detto, per nulla “da prima pagina” – rappresenta un contenzioso istituzionale ai massimi livelli. Per sommi capi: il 6 luglio 2018 l’ANAC, impegnato in una specifica questione settoriale (un tavolo di lavoro sugli affidamenti degli servizi di accoglienza per i migranti) ritiene di doversi rivolgere al Consiglio di Stato per avere lumi circa “il coordinamento del Codice del Terzo settore e la normativa nazionale in materia di trasparenza e prevenzione della corruzione” e il 26 luglio il Consiglio di Stato confeziona un parere, poi pubblicato il 20 agosto, che attacca duramente gli articoli 55, 56 e 57. Sulla ricostruzione di merito della vicenda si rimanda ad altri contributi (Marocchi, 2018), ma quello che più ci interessa in questa sede è osservare come intorno a questi articoli si scateni un conflitto di grande portata. ANAC, forse non più all’apice del successo, ma pur sempre ancora potentissima e il Consiglio di Stato, il massimo organo della giustizia amministrativa che un anno prima aveva vistato senza opposizione l’art. 55, sferrano un attacco frontale, tra gli altri, al Ministero del Lavoro (esplicitamente citato da ANAC nella missiva al Consiglio di Stato come protagonista del deviazionismo dalla dottrina della concorrenza) e, nel testo del Parere, al potere Legislativo e a quello Esecutivo, consigliando fintanto la disapplicazione (!) di una parte della norma in questione; si badi, non rimettendo al Parlamento e al Governo il compito di sciogliere taluni nodi applicativi, ma invitando a disconoscere una norma frutto di anni di lavori prima del Parlamento e poi del Governo. Tutto ovviamente, con argomentazioni che, facendo leva in modo che oggi possiamo senza timore affermare discutibile sulle normative comunitarie, riaffermano la supremazia incontrastata delle ragioni di della competizione di mercato. Dove vi è flusso di risorse, è mercato e dove vi è mercato, non può che esservi concorrenza e contointeresse; in una parola, il Codice degli appalti. In ogni caso, al di là di ogni valutazione di merito, su questa vicenda apparentemente secondaria si fronteggiano con veemenza irrituale alcune tra le massime istituzioni del Paese e in particolare due di esse scendono in campo con forza per affermare le ragioni della competizione di mercato anche a costo di affrontarne frontalmente altre.
Si potrebbe immaginare che a questo punto la partita sia chiusa. Alla ripresa post estate 2018 il fronte politico è impegnato su altro, il Governo, da poco insediato, è diverso da quella che approvò la Riforma e il Codice; le questioni di cui ci si occupa in questo articolo appaiono senz’altro ai nuovi ministri del tutto secondarie, il dibattito pubblico è monopolizzato dalle priorità delle forze politiche della nuova maggioranza – la stretta sull’immigrazione che porterà all’approvazione del “decreto sicurezza” a novembre 2018 e le discussioni sul Reddito di Cittadinanza che vedrà la luce nel gennaio successivo, oltre che i provvedimenti economici per il 2019 che avrebbero dovuto caratterizzare il neonato “governo del cambiamento”. Le imprese sociali da parte loro restano abbastanza laterali a tutti questi dibattiti (compreso quello originato dal Parere del Consiglio di Stato), dovendo fronteggiare un quadro politico senz’altro insidioso con il timore che un passo falso determini reazioni ostili di una maggioranza che le considera, come si ricorderà, “taxi del mare” appattate con gli scafisti per fare soldi con il “business dei migranti”.
In un contesto del genere, sarebbe potuto apparire senz’altro improbabile che un amministratore locale scegliesse – pur potendolo fare, un Parere non cancella di per sé una legge – di ingarbugliarsi su coprogrammazioni e coprogettazioni, con il rischio di venire censurato dalla giustizia amministrativa. Ed alcuni comuni fanno effettivamente dei passi indietro.
Ma, in generale, le cose vanno diversamente. Le esperienze di coprogettazione (e, in misura minore, di coprogrammazione) che avevano iniziato a diffondersi nell’anno precedente aumentano in modo esponenziale; alcune possono essere discutibili da tanti punti di vista, non sempre evidenziano una mentalità capace di discernere in modo nitido le procedure collaborative dall’acquisto di servizi, ma sono sicuramente meno improvvisate rispetto al 2015, quando ANAC aveva avuto buon gioco ad additare la fragilità amministrativa degli atti di oltre tre quarti delle amministrazioni ispezionate. Gli amministratori locali si formano e si informano, entrano in rete tra loro; un ANCI regionale, quello dell’Emilia-Romagna, attiva un supporto legale per realizzare una “cassetta degli attrezzi” con modelli di delibere, determinazioni, avvisi pubblici, convenzioni, per realizzare i diversi procedimenti collaborativi previsti dal Codice del Terzo settore, le Regioni formano un gruppo di lavoro in cui confrontano le diverse prassi di coprogettazione. Insomma, nulla fa pensare ad una smobilitazione, anzi!
Il Forum del Terzo settore si fa parte attiva del processo, promuove iniziative formative, interloquisce su questo tema sia a livello istituzionale che nell’ambito del Consiglio Nazionale del Terzo settore, il cui lavoro si intreccia con quello delle Regioni per la produzione di linee guida (oggi non ancora pubblicate, ma attese per le prossime settimane) per la coprogrammazione e la coprogettazione.
E poi sul tema si sviluppa un intenso lavoro intellettuale. Un gruppo informale di studiosi, cui partecipano alcuni tra i migliori giuristi del nostro Paese, gli “Amici dell’art. 55” produce una memoria ben argomentata che smonta punto su punto le argomentazioni del Consiglio di Stato. Sul tema si scrive molto, alcuni dei maggiori luoghi di elaborazione, ricerca, formazione e consulenza che operano con enti locali e Terzo settore pubblicano contributi, organizzano iniziative pubbliche, promuovono la conoscenza del tema. IRS realizza due convegni con la partecipazione di centinaia di amministratori regionali e locali, promuove una comunità di pratiche sul tema, sostiene gli enti locali in iniziative di coprogettazione. Euricse realizza anch’esso iniziative pubbliche e gli studiosi che vi afferiscono pubblicano paper sul tema. AICCON promuove articoli e iniziative formative sul tema. Labsus affianca la sua battaglia storica per i Regolamenti per l’amministrazione condivisa e i patti di collaborazione con un’azione a favore dell’articolo 55, come testimoniato dall’articolo di Gregorio Arena pubblicato su questo numero della rivista. La scuola Sant’Anna pubblica una ricerca sui rapporti tra pubblica amministrazione e Terzo settore.
Insomma, effettive esigenze di chi lavora sul territorio; presa di posizione del Forum; attivismo del mondo della ricerca e del pensiero convergono nel cercare soluzioni che promuovano le esperienze collaborative.
È solo il caso di dare uno sguardo agli altri attori in gioco. ANAC è in una parabola discendente, non sono più i tempi in cui può giocare di punta (tanto è vero che nei mesi precedenti ha fatto un utilizzo “parco” del parere del Consiglio di Stato): nell’aprile 2019 è uscita fortemente ridimensionata dallo “Sblocca Cantieri”, il D.L. 32 dell’aprile 2019 e a fine luglio le dimissioni di Cantone segnano la fine di un ciclo. In quell’estate 2019 ANAC prova a giocare la carta della mediazione, rilascia a maggio un documento base per delle nuove linee guida che avrebbero dovuto sostituire quelle del marzo 2016 in cui affianca affermazioni nella tradizione mercatista a ragionamenti in cui si avverte chiaramente l’eco dell’ampio movimento di cui prima si è dato conto; e dedica uno spazio amplissimo alla coprogrammazione e alla coprogettazione, in pochi anni posizionate al centro del dibattito. Addirittura, in un passaggio, ANAC cita il parere del Consiglio di Stato in modo problematico, evidenziando (pag. 8) come la disapplicazione di una legge appaia come un atto estremo e fa menzione di taluni ragionamenti a sostegno del Codice del Terzo settore. Insomma, in quella fase ANAC, pur confermando la sua impostazione di fondo (Marocchi 2019b) che vede nella concorrenza la soluzione più adeguata, prova a riaffermare – anche nella persistente assenza della politica (Marocchi 2019c) - il proprio ruolo come soggetto in grado di introdurre nel dibattito almeno alcuni aspetti di equilibrio e ponderazione. Ma, in un mondo muscolare, la sua posizione è ormai troppo debole. Il Consiglio di Stato, interpellato sugli esiti di tale consultazione, liquida l’ANAC in modo lapidario, affermando la sua incompetenza in materia alla luce dello “sblocca cantieri”. ANAC, insomma, è messa alla porta senza troppi indugi e diventa un attore marginale. Probabilmente, nei primi mesi del 2020, stava ancora valutando eventuali consultazioni sulle linee guida con i diversi stakeholder, poi la crisi sanitaria ha archiviato tutto.
In questa situazione “sospesa” arriva la sentenza della Corte costituzionale. Sul merito della Sentenza 131 del 26 giugno 2020 già si è scritto su Impresa Sociale (Gori 2020, Marocchi 2020b, Pellizzari 2020, Caroccia 2020) e molto si scriverà, qui e altrove. È una sentenza storica, che rilancia con forza le stesse argomentazione che i soggetti “resistenti” del capitolo precedente avevano sostenuto per criticare le posizioni del Consiglio di Stato. “Il citato art. 55, che apre il Titolo VII del CTS, disciplinando i rapporti tra ETS e pubbliche amministrazioni, rappresenta dunque una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall'art. 118, quarto comma, Cost.”: questa frase introduce un insieme di argomentazioni che identificano in modo chiaro i rapporti collaborativi come frutto del principio costituzionale di sussidiarietà e della specifica natura del Terzo settore. In questa sede le sottolineature che interessano sono due.
La prima è che in questa “vicenda secondaria” è entrato in campo un altro soggetto di enorme peso istituzionale, la Corte costituzionale. Lo ha fatto in modo solenne e argomentato, in un giudizio – quello relativo ad una Legge della Regione Umbria sulle cooperative di comunità, che le avrebbe consentito, se avesse inteso tenere un ruolo più defilato sulla vicenda di cui ci si occupa, anche di pronunciarsi senza entrare troppo nel merito dell’art. 55. Invece sceglie di farlo, nel modo più ampio. Il Parere del Consiglio di Stato non è mai citato, ma le due argomentazioni cardine sì: l’incompatibilità dell’articolo 55 con il diritto eurounitario e l’impossibilità di gestire la coprogettazione con il procedimento amministrativo di cui alla legge 241/1990 sono chiaramente smentite, dissolvendo nei fatti l’impalcatura dell’argomentazione del Consiglio di Stato.
Ciò non significa di per sé che la partita sia chiusa una volta per tutte, ma sicuramente è stato definito un punto di non ritorno, di rilevanza incomparabilmente più alta rispetto al Parere del Consiglio di Stato.
Poche settimane dopo, a metà luglio, la Regione Toscana approva una legge di riordino del Terzo settore in coerenza con il Codice, che dedica ampio spazio – in modo del tutto coerente con gli orientamenti della Corte costituzionale – al tema della coprogrammazione e della coprogettazione, forse la prima di una nuova generazione di leggi regionali. E, nei giorni in cui questo numero di impresa sociale va in pubblicazione, un emendamento al DL semplificazioni emenda il Codice degli appalti introducendo in più punti il riconoscimento e la legittimazione dei procedimenti collaborativi del Codice del Terzo settore. A questo punto diventa impossibile negare che strumenti basati sulla competizione (appalti) e sulla collaborazione (coprogrammazione e coprogettazione) siano di pari dignità e livello e che la scelta degli uni o degli altri derivi dal fatto che l’amministrazione intenda acquistare un servizio o promuovere l’integrazione di un insieme di risorse da parte di soggetti accomunati da una medesima finalità.
Giunti alla fine – per ora – del racconto, rimane la domanda di fondo: qual è la posta in gioco, poco nota fuori dal novero degli addetti ai lavori, sulla quale le massime istituzioni del Paese – il Governo, l’ANAC, il Consiglio di Stato, un Ministero, la Corte costituzionale – sentono il bisogno di intervenire con forza, talvolta in sintonia, talvolta – spesso, in questa storia – ingaggiando battaglia pur a distanza? Per cui intellettuali ed enti di ricerca scrivono appelli e danno vita ad azioni di pressione? Per cui gli enti locali hanno osato agire consapevolmente sul filo della censurabilità della giustizia amministrativa?
Certamente una concezione diversa della Repubblica, partecipata e sussidiaria, anziché buro/tecnocratica e verticista. Effettivamente la battaglia che si sta combattendo è il primo vero test di rilievo, il primo banco di prova, a quasi vent’anni dalla riforma della Costituzione, delle conseguenze concrete di un’impostazione autenticamente sussidiaria, dove quindi il perseguimento del bene comune è compito non delle sole istituzioni, ma di un complesso di soggetti, tra cui i cittadini organizzati entro enti di Terzo settore, che è compito delle istituzioni stesse supportare.
Ma la Sentenza 131 è anche uno dei primi atti in cui, in modo argomentato, la concorrenza di mercato viene relativizzata come principio di ordinatore nelle relazioni tra istituzioni e un soggetto non pubblico. Vi sono spazi per il la competizione, vi sono spazi governati da un principio diverso di tipo collaborativo: “Il modello configurato dall'art. 55 CTS, infatti, - afferma ancora la Sentenza 131 - non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull'aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico.” Questo ovviamente apre un ulteriore ambito di riflessione, teso ad individuare quando (a che condizioni, con quali modalità, ecc.) configurare relazioni basate su un corrispettivo contro una prestazione e quando configurare relazioni fondate sulla “convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse”: ma quello che è importante affermare che, per la prima volta dopo decenni di assolutismo di mercato, ora mercato e altri principi ordinatori sono definiti come ugualmente legittimi. Per la prima volta viene cancellata l’equazione tra aumento degli spazi di mercato e miglior perseguimento dell’interesse pubblico.
Inoltre, la Sentenza 131 rappresenta uno dei primi casi – la legge 381/1991 è forse uno dei pochi precedenti dello stesso tipo – in cui rapporti economici tra soggetti pubblici e non pubblici vengono conformati sulla base della natura istituzionale del soggetto non pubblico con il quale l’amministrazione si rapporta. Le forme di collaborazione di cui si sta qui trattando, argomenta la Corte, non sono utilizzabili con qualsiasi soggetto, ma solo con Enti di Terzo settore, in ragione della loro particolare natura. È un corollario di quanto sopra: non solo si afferma che la competizione sul mercato non è l’unico principio ordinatore dei rapporti (anche economici) tra istituzioni pubbliche e Terzo settore, ma vi è anche a pari livello un principio sussidiario – collaborativo; ma si argomenta anche che tale secondo principio è applicabile quando siano presenti, oltre a condizioni oggettive relative all’oggetto dello sforzo comune, anche condizioni soggettive del soggetto non pubblico, che deve appunto essere Ente di Terzo settore: “Ciò in quanto gli ETS sono identificati dal CTS come un insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici (art. 4), rivolti a «perseguire il bene comune» (art. 1), a svolgere «attività di interesse generale» (art. 5), senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), sottoposti a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (articoli da 90 a 97).” E questo scardina un altro dogma, connesso a quello di mercato, che l’aspetto oggettivo (il fatto che vi siano rapporti economici con una pubblica amministrazione) sia assorbente ogni considerazione su quello soggettivo (il tipo di soggetto con cui ci si relaziona). Questa era la posizione del Consiglio di Stato e in generale della cultura che per alcuni decenni ha assolutizzato i rapporti basati sulla logica del mercato e che ora appare ridimensionata.
Quanto qui narrato ovviamente incrocia le strade dell’impresa sociale, rappresentando al tempo stesso una sfida e una opportunità: una sfida, perché implica per molte di esse un cambio non solo di mentalità ma anche di organizzazione; un’opportunità, perché apre spazi inattesi per assumere un ruolo attivo nella costruzione delle politiche e nel riconoscimento del proprio ruolo.
Ma, andando con ordine, le imprese sociali come hanno vissuto le circostanze qui richiamate?
Non sono mancate nei mesi scorsi prese di posizione che hanno posto le relazioni collaborative al centro dei ragionamenti delle imprese sociali, come nel caso dell’Appello pubblicato da Impresa Sociale nell’aprile scorso; va inoltre ricordato che il racconto della proliferazione dei tavoli di coprogettazione e coprogrammazione descrive necessariamente un coinvolgimento delle imprese sociali in queste dinamiche, spesso – come documentano le esperienze raccolte – con partecipazioni attive e propositive.
Ma vi sono al tempo stesso elementi che hanno in qualche modo trattenuto le imprese sociali dall’assumere un ruolo più esplicito nelle vicende narrate.
Il primo è di ordine tattico. In una visione – inconsistente e distorta, ma diffusa a livello istituzionale – in cui la scelta di meccanismi regolatori diversi dalla competizione di mercato costituirebbe un favor per le imprese sociali, possono esserci ragioni tattiche che consigliano a queste ultime una posizione dimessa; il fatto che spesso siano soggetti pubblici a prendere l’iniziativa testimonia che le coprogettazioni e le coprogrammazioni avvengono per interessi superiori e terzi (come in effetti è), e non come cedimento alle istanze delle imprese sociali, come sarebbe potuto avvenire se esse si fossero intestate a pieno titolo questa battaglia.
Ma accanto a queste considerazioni di “convenienza”, vanno approfonditi altri ragionamenti.
Vi possono essere imprese sociali, generalmente di dimensioni elevate, che, da sempre o per adattamento ambientale, preferiscono la competizione: hanno strutturato uffici gare e funzioni di progettazione efficienti, sono adeguatamente posizionate sul mercato degli appalti in modo e una virata verso sistemi collaborativi che rimescola le carte spiazza questo investimento.
Vi possono essere imprese sociali che, come ben descritto in questi anni nei contributi di Carola Carazzone (tra i tanti, Carazzone 2018 e Carazzone 2020), si sono avviluppate, anche grazie alle politiche di esternalizzazione assai poco lungimiranti, in un insidioso “ciclo dell’impoverimento”: per stare sul mercato hanno dovuto ridurre sempre di più i costi generali e quindi formazione, funzioni di ricerca, sviluppo, analisi, sperimentazione; cose che paiono per tutte le imprese segno di qualità, ma che per i finanziatori (pubblici, ma anche filantropici) delle imprese sociali sembrano essere sintomo di distrazione di fondi che non vengono così destinati agli utenti. Per queste imprese la partecipazione ai tavoli, l’investimento nella coprogrammazione e nella coprogettazione (spesso con richiesta di partecipare a proprie spese a tavoli impegnativi), sembrano essere appesantimenti ulteriori per organizzazioni già provate. Il nodo sui cui intervenire non è ovviamente l’istituzione di gettoni di presenza per la partecipazione ai tavoli, ma l’adozione di politiche di finanziamento che in generale riconoscano e sostengano i costi generali delle organizzazioni. Ma, si può obiettare da parte delle imprese sotto pressione, questa è teoria, sono auspici degli intellettuali, la realtà è che ogni impegno in luoghi collaborativi è (anche) una fatica da gestire. Tutto ciò è enfatizzato ulteriormente – paradossalmente – proprio in taluni contesti locali di particolare successo delle iniziative collaborative, dove le stesse organizzazioni sono sollecitate da più enti a prendere parte ad una molteplicità di tavoli, oltre alle loro possibilità.
Vi sono imprese sociali che subiscono profondamente esse stesse la fascinazione dell’ideologia di mercato e che sono portate a snobbare quanto qui raccontato nella convinzione che il vero fronte sul quale investire sia l’aumento del fatturato sul mercato privato, essendo invece l’instaurazione di relazioni collaborative con enti pubblici una sorta di battaglia di retroguardia che non merita attenzione.
Vi sono imprese sociali che, per effetto di alcuni decenni di deriva mercatista, possono oggi incontrare effettive difficoltà in uno scenario che richiede invece di lavorare intensamente sulla relazione con la propria comunità di riferimento.
Vi sono imprese sociali per le quali le vicende di mercato hanno significato l’apertura di inimicizie e contenziosi con altre imprese sociali, con altri Enti di Terzo settore, con le amministrazioni stesse, tutti fatti che oggi pesano negativamente quando ci si trova in contesti di lavoro collaborativi.
Tutte queste considerazioni, è bene riaffermarlo, non hanno come esito l’assenza delle imprese sociali dai tavoli collaborativi – anzi, le centinaia di esperienze collaborative in atto significano ragionevolmente migliaia di imprese sociali che sono a vario titolo coinvolte - ma sicuramente rappresentano elementi di fatica e di freno che vanno conosciuti e affrontati.
D’altra parte, non sarebbe sicuramente coerente, a conclusione del racconto, affermare il rilievo dell’emersione di un diverso principio ordinatore collaborativo - sussidiario, e pensare che, realisticamente, organizzazioni che hanno dovuto adattarsi ad almeno venticinque anni di deriva mercatista sempre più spinta, possano transitare nel nuovo scenario senza fatiche e senza dover ripensare alla propria organizzazione.
Ma al tempo stesso, l’impresa sociale – la migliore impresa sociale – ha dimostrato in tutti questi anni capacità di reagire e ripensarsi notevoli, che hanno permesso di affrontare e superare i momenti in cui il nostro Paese ha sofferto crisi gravissime; non a caso già oggi si vedono molteplici segnali di reazione positiva ai nuovi stimoli posti dal paradigma collaborativo. E questa è una storia appena all’inizio.
ANAC, Indagine sulla corretta applicazione delle regole riguardanti l’individuazione dell’importo stimato dell’appalto in relazione alle soglie comunitarie, Comunicato del Presidente dell’Anac del 16/4/2015.
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