La comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, il Consiglio, il Comitato Economico e Sociale ed il Comitato delle Regioni “Building an economy that works for people: an action plan for the social economy” è stata pubblicata dalla Commissione Europea lo scorso 9 Dicembre 2021, e presentata in evento pubblico il 16 dello stesso mese.
Lo scopo dichiarato del Piano di azione (pag. 4) è “rafforzare l'innovazione sociale, sostenere lo sviluppo dell'economia sociale e aumentare il suo potere di trasformazione sociale ed economica. [Il Piano] Propone una serie di azioni per il periodo 2021-2030. Si basa sulla Social Business Initiative (SBI) e sull'iniziativa Start-up e Scale-up. È stato preparato attraverso un processo aperto e inclusivo per un periodo di due anni” (traduzione nostra).
Sebbene già da questo obiettivo appaia un (innecessario) riferimento esplicito all’innovazione sociale, bisogna in primo luogo sottolineare l’importanza di questa comunicazione, o meglio, l’importanza di avere, nel 2021 una comunicazione che esplicitamente richiami un Piano di azione per lo sviluppo dell’economia sociale. Infatti, se torniamo indietro di qualche anno, lo stesso mantenimento del termine “economia sociale” non era scontato. La Social Business Initiative, richiamata dalla Commissione, sceglieva infatti il termine “business” per il suo titolo, ancorché, se si fa riferimento al contenuto del documento, di fatto si utilizzava una definizione di impresa sociale che la avvicinava a quella di economia sociale.
Abbiamo dunque una base sulla quale è possibile costruire un percorso di implementazione per il prossimo decennio, percorso probabilmente non ancora scritto, a giudicare dalla timeline allegata al Piano di azione, che non supera il 2023.
Questo Piano potrà avere un effetto realmente di crescita del settore, a partire dal 6% del PIL che oggi rappresenta, secondo le statistiche accreditate, a patto che alcune questioni vengano chiarite ed alcune condizioni di implementazione rispettate.
In primo luogo, è necessario che le azioni del programma siano specifiche, vale a dire effettivamente rivolte a ciò che viene comunemente inteso essere economia sociale. La Commissione riprende una definizione coerente con le precedenti, ed accettabile per il settore dell’economia sociale: “Nel contesto di questo piano d'azione e delle relative iniziative dell'UE, l'economia sociale comprende entità che condividono i seguenti principi e caratteristiche comuni: il primato delle persone e degli scopi sociali e/o [!!] ambientali sul profitto, il reinvestimento della maggior parte dei profitti e delle eccedenze per svolgere attività nell'interesse dei membri/utenti ("interesse collettivo") o della società in generale ("interesse generale") e la democrazia” e “tradizionalmente, il termine economia sociale si riferisce a quattro tipi principali di entità che forniscono beni e servizi ai loro membri o alla società in generale: cooperative, società di mutuo soccorso, associazioni (compresi gli enti di beneficenza) e fondazioni. Sono entità private, indipendenti dalle autorità pubbliche e con forme giuridiche specifiche”. A questa definizione che potrebbe ricomprendere senza problemi quella di impresa sociale però accompagna riferimenti ad aeree contigue e non appartenenti al settore: “Le imprese sociali operano fornendo beni e servizi per il mercato in modo imprenditoriale e spesso innovativo, avendo obiettivi sociali e/o ambientali come ragione della loro attività commerciale” (traduzioni nostre). Questo ultimo tipo impresa, si discosterebbe quindi da una parte non secondaria delle caratteristiche riconosciute all’economia sociale, in quanto sembra prescindere, ad esempio, dalle regole relative al reinvestimento dei profitti, o della governance democratica. Inoltre, lo Staff Working Paper che accompagna la comunicazione (SWD8(2021)982 final) allarga ulteriormente il campo verso le imprese “mission driven” – non meglio definite – ponendole ai limiti, ma ancora all’interno, del campo, come polo opposto rispetto alle NPOs considerate prevalentemente sul fronte dell’advocacy. Non c’è nulla di sbagliato nel sostegno a questi attori contigui, in sé, ma tale sostegno dovrebbe essere meglio perseguito attraverso azioni specifiche, e non all’intero del Piano di azione per l’economia sociale.
D’altra parte, sappiamo come “Proximity and Social Economy” sia stato identificato come uno dei 14 ecosistemi industriali prioritari all’interno della “Nuova strategia industriale per l’Europa” (COM(2020)102 final). Non è la prima volta che ad “economia sociale” viene associato il livello di “prossimità”; la strategia per l’occupazione di Lussemburgo, già 25 anni fa, inseriva l’economia sociale ed il livello locale tra gli assi prioritari. In termini operativi, questo può condurre – ed in passato ha condotto – a confondere le azioni specifiche in favore dell’economia sociale con azioni aspecifiche rivolte ai tessuti economici locali (i quali, evidentemente, non comprendono solo, e talvolta neppure principalmente, attori dell’economia sociale).
È da considerare normale ed accettabile che un ecosistema sia composto da diverse entità, le quali dovranno essere oggetto di azioni specifiche ed azioni trasversali.
Il Piano di azione per l’economia sociale dovrebbe essere riferito ad azioni specifiche per il settore. Aggiungere altri tipi di enti o soggetti beneficiari, ancorché contigui o appartenenti allo stesso ecosistema, è un’operazione non efficiente, perché porta a disperdere risorse. Se, ad esempio, nel settore “industria creativa e culturale” si prevedesse un’unica serie di azioni, senza distinzione tra a) giornali, libri e periodici; b) film, video e televisione e c) radio e musica, ci si stupirebbe e non sarebbe considerato “normale”.
Un secondo aspetto da sottolineare – e che sembrerebbe confermare la necessità di azioni specifiche – riguarda la (positiva) attenzione che il Piano dedica al fatto che “Lo sviluppo di quadri coerenti per l'economia sociale implica la considerazione della sua natura specifica e dei suoi bisogni rispetto a numerose politiche e disposizioni orizzontali e settoriali, come quelle relative alla fiscalità, agli appalti pubblici, alla concorrenza, al mercato sociale e del lavoro, all'istruzione, alle competenze e alla formazione, ai servizi sanitari e di assistenza, al sostegno alle piccole e medie imprese (PMI), all'economia circolare, ecc.” A questo si aggiungano i riferimenti a questioni molto specifiche quali il bisogno di adeguamento della tassazione, le condizioni di lavoro degli operatori in settori specifici (la care economy), il bisogno di specifici quadri finanziari e di sostegno (adeguati alle caratteristiche del settore).
È singolare però come anche in materie a competenza concorrente, o nelle quali l’Unione abbia competenze attribuite, anche solo di coordinamento, vi siano pochissimi riferimenti all’avvio di processi legislativi Unionali. Eppure, non dovrebbero mancare gli argomenti sui quali proporre a Consiglio e Parlamento una tale azione. Questo riguarda evidentemente le norme sugli appalti pubblici, di cui si parlerà oltre, ma potrebbe riguardare anche interventi relativi al coordinamento della tassazione.
Si trova un invito al Consiglio ad elaborare una raccomandazione per lo sviluppo di condizioni quadro per l’economia sociale, che però va soppesato, sia perché il Consiglio gode di piena autonomia, sia perché la Commissione potrebbe procedere anche senza un ulteriore atto. Probabilmente in questo caso entrano in gioco aspetti legati ad equilibri politici tra gli Stati, e la necessità di allargare l’utilizzo del concetto di economia sociale anche in quei Paesi dove questo è meno, o affatto, presente.
Un terzo aspetto che attira l’attenzione è la quantità di operazioni di awareness raising e moral suasion previste nel Piano di azione, molte delle quali in continuità rispetto ad azioni in corso. Sono certamente iniziative importanti, se prese a corollario di un robusto sistema di sostegno del settore. Quindi dovrebbero venire dopo, o al massimo contemporaneamente alle azioni strutturali.
In altri termini, se stiamo parlando di un settore con un potenziale di crescita e se conosciamo gli ostacoli strutturali che ne impediscono lo sviluppo, sembrerebbe necessario concentrare la propria attenzione, in primo luogo, sulla rimozione degli ostacoli strutturali ed in secondo rispetto alle azioni funzionali al pieno espletamento delle azioni strutturali. A meno che, naturalmente, non si stia pensando di promuovere e sostenere la nascita e lo sviluppo di una costruzione ideologica dell’impresa sociale, fondata solo su un vago (e presunto) obiettivo di natura sociale, in contraddizione rispetto all’economia sociale reale e costituita, che la stessa Commissione anticipa nel Social Economy Action Plan.
L’esempio relativo alla politica di coesione sembra utile in questo caso. La Commissione ricorda come 2,5 miliardi di Euro siano stati mobilitati in sostegno all’economia sociale nel periodo 2014-2020. Questo dato, parziale come la stessa Commissione riporta in nota, corrisponderebbe a circa lo 0,5% della dotazione dei Fondi Strutturali e di Investimento per il periodo considerato.
Il Piano di azione, per il periodo 2021-2027 sembra concentrarsi su azioni per migliorare l’accesso a strumenti di tipo finanziario previsti dai regolamenti, principalmente attraverso azioni di awareness raising rivolte alle autorità di gestione, oppure rivolte agli stessi attori dell’economia sociale.
In effetti, l’economia sociale come strumento di implementazione della politica di coesione è presente a diversi livelli nei regolamenti relativi alla programmazione 2021-2027, innanzitutto tra gli obiettivi generali del Fondo Sociale Europeo +, ma anche in maniera esplicita nel Fondo Europeo di Sviluppo Regione, ed ancora in maniera generale all’interno del regolamento comune per i fondi della politica di coesione.
Non è certo una novità assoluta rispetto al periodo precedente, ma, forti proprio dell’esperienza pregressa, sarebbe utile attivare misure che, da una parte, permettano di verificare in maniera appropriata il perseguimento dell’obiettivo di sostegno all’economia sociale, introducendo quindi una tassonomia specifica che consenta rapidamente di verificare se gli effettivi beneficiari dei finanziamenti appartengano o meno al settore, e, dall’altro, introducendo un corpus di procedure burocratiche specifiche che non costringano gli attori dell’economia sociale a incombenze superiori agli altri tipi di beneficiari. La prima di queste misure dovrebbe essere soprattutto rivolta a beneficio degli uffici interni della Commissione, preposti a valutare l’effettiva implementazione dei programmi da parte degli Stati Membri, mentre la seconda dovrebbe costituire una guida regolamentare per le autorità di gestione.
Un discorso a parte è invece rappresentato dall’effettiva partecipazione dei rappresentanti dell’economia sociale nella fase di preparazione ed implementazione dei programmi nazionali e regionali, come previsto dal Codice Europeo di Condotta del Partenariato (ECCP). Questa previsione, spesso elusa, dovrebbe essere resa necessaria, almeno quanto quella relativa alla partecipazione, acquisita, delle rappresentanze delle imprese e dei sindacati.
Un altro tema di grande rilevanza, e ripreso dal Piano di azione, riguarda il tema degli aiuti di Stato, e delle possibili eccezioni. Il Piano correttamente fa riferimento ad un migliore utilizzo delle eccezioni legate ad alcuni settori di attività, collegati all’interesse generale, e prospetta di prendere in considerazione la possibilità di semplificazione delle norme relative agli aiuti di Stato per l’accesso a strumenti finanziari da parte delle imprese sociali e per l’inserimento delle persone svantaggiate.
Si tratterebbe quindi sostanzialmente di un upgrade delle norme attuali, comunque limitato.
Molto più interessante sarebbe invece valutare se gli aiuti alle imprese dell’economia sociale vadano considerati strutturalmente compatibili con il mercato interno, proprio a partire dalle finalità riconosciute a questo soggetto dallo stesso Piano di azione in fase definitoria. Questo sicuramente aiuterebbe a risolvere dubbi e snellirebbe, come il Piano prospetta di fare, le procedure autorizzative. Chiaramente, per poter accedere a questo regime specifico sarebbero necessari registri nazionali o regionali riconosciuti, ma sappiamo che laddove l’economia sociale abbia assunto un peso consolidato, tali registri esistono già. Ove invece l’economia sociale sia in fase di sviluppo, la definizione di un registro con caratteristiche compatibili con il profilo dell’economia sociale potrebbe funzionare come incentivo.
A questo punto vale la pena fare una digressione su un tema caro al Piano di azione, vale a dire lo scambio di buone prassi e l’elaborazione di “linee guida”.
Lo scambio di buone prassi è senza dubbio uno strumento utile, soprattutto se portato verso una logica di peer-learning, facilitato dal fatto di condividere uno sfondo legale e politico comune, rappresentato dall’Unione stessa. La Commissione ha attivato già da tempo degli strumenti che – riprendendo in parte una pratica propria alla programmazione Europea del primo decennio di questo secolo (programma EQUAL) – faciliti l’incontro e lo scambio tra attori e territori. Il programma ESER (European Social Economy Regions) va in questo senso. Diversamente però per quanto avveniva nell’ambito del programma EQUAL, in cui i partecipanti beneficiavano di una certa autonomia e soprattutto di budget quasi sufficienti, le azioni attive e prospettate non sembrano per il momento avere lo stesso slancio.
Il secondo punto riguarda l’elaborazione di linee guida (per esempio per l’implementazione di quadri giuridici, ma anche di norme europee, sugli appalti o sugli aiuti di Stato ecc.). Ovviamente le linee guida servono a chiarire dubbi ed aiutare nell’utilizzo degli strumenti, ma, purtroppo, non possono assolvere al compito di fornire una base giuridica all’azione dei poteri nazionali o locali. In altri termini, conoscere, anche nel dettaglio, come una regione spagnola abbia usato le normative sugli aiuti di Stato, o sugli appalti, non costituisce una base opponibile in sede giudiziaria per una regione belga. Più che di linee guida sarebbe quindi utile parlare di regolamenti attuativi con valore giuridico, i quali, oltre a garantire sul fatto che la norma originaria sia sicuramente rispettata, siano anche opponibili al giudice nazionale. Naturalmente non possiamo ignorare le limitazioni che ha la Commissione in questo senso: un regolamento attuativo è comunque un atto che deve soddisfare l’intero percorso legislativo, a meno che non sia esteso sulla base di una esplicita delega contenuta in un atto di pari natura (il già citato “Codice di Condotta” fa parte di questo tipo di atti). D’altra parte, qui stiamo esaminando un Piano di azione che ha prospettive ed ambizioni di carattere decennale: non pare quindi assurdo, ma anzi naturale, provare ad immaginare percorsi non immediati.
Tra questi percorsi va sicuramente inserito quello di riforma del sistema previsto dalla direttiva appalti (2014/24/UE, e per estensione 23 e 25).
La Commissione ha già sostenuto diverse operazioni di raccolta di informazioni e prassi rispetto al corretto utilizzo delle norme contenute nella direttiva.
Da queste analisi si evince una non sempre corretta conoscenza delle direttive e delle relative norme di trasposizione a livello di tutte le stazioni appaltanti pubbliche. Ma le stesse analisi hanno altresì permesso di evidenziare alcuni limiti delle direttive. Per citare qualche esempio, si potrebbe fare riferimento al mancato inserimento nei meccanismi di aggiudicazione degli appalti del tema della gestione del costo sociale dei beni e servizi (che comprende sia i costi di produzione che di smaltimento), al fine di permettere la valutazione delle esternalizzazioni. Oppure si potrebbe fare riferimento alla norma relativa agli appalti riservati in alcuni settori specifici (art. 77), la quale ad oggi sembra essere quasi del tutto inapplicata (perché probabilmente inapplicabile) anche laddove sia stata trasposta.
Il Piano di azione potrebbe quindi prevedere una revisione della direttiva dal punto di vista dell’economia sociale con lo scopo di proporre l’avvio di un percorso legislativo che conduca ad adattare la normativa stessa al contesto.
Avviandomi alla fine di questo breve articolo, vorrei sottolineare una serie di azioni di policy più generali che sono state inserite nel Piano di azione. Si tratta in questo caso di azioni che probabilmente avranno l’effetto di facilitare lo sviluppo dell’economia sociale, ma che non sono di per sé rivolte in maniera specifica all’economia sociale stessa.
Per esempio, la Commissione ricorda le azioni incluse nella “visione di lungo periodo per le aree rurali”, le quali dovrebbero facilitare il trasferimento di piccole e medie imprese in quelle aree, contribuendo al loro adattamento al diverso contesto economico. Una particolare attenzione sarà dedicata in questo caso alle filiere corte.
Un secondo esempio riguarda la “affordable housing initiative” con cui la Commissione rafforzerà la capacità di rinnovamento dell'edilizia sociale ed economica mobilitando partenariati intersettoriali per pilotare 100 distretti di rinnovamento e promuovendo case di qualità, vivibili, accessibili ed economiche.
Un terzo esempio è la proposta di un Fondo europeo per l'innovazione sociale nell'ambito di Horizon Europe che coinvolge cittadini, accademici, imprenditori, filantropi, investitori d'impatto e amministratori pubblici, con lo scopo di sostenere la replicabilità e la scalabilità delle innovazioni sociali di successo per promuovere gli obiettivi delle cinque missioni dell'UE.
Ovviamente, queste sono tutte politiche importanti ed in grado di avere impatto sullo sviluppo di alcuni settori specifici dell’economia sociale, ma non sembrano qui declinate secondo questa logica. Si tratta di un (condivisibile) approccio settoriale, basato sul tipo di azione e non sulle qualità del soggetto che la mette in atto; perché diventi una effettiva politica a sostegno dell’economia sociale sarebbe necessario passare da un apprezzamento “pragmatico” dell’economia sociale (la citiamo perché constatiamo che molte di queste organizzazioni fanno cose interessanti) ad una sua definizione basata su fondamenta solide, che ne evidenzi l’alterità rispetto ai soggetti privati al di fuori di tale perimetro.
In fase di implementazione, quindi, sarà importante definire meglio l’angolo visuale per rendere coerenti con un Piano di sviluppo dell’economia sociale.
Infine, una notazione sulla prospettiva delle Commissione di “rafforzare le interazioni tra le entità dell'economia sociale e le imprese tradizionali promuovendo le migliori pratiche come nel campo dell'intrapreneurship sociale” (traduzione nostra) al fine di sviluppare un effetto spill-over tra economia sociale ed economia convenzionale. In questo caso, però, il beneficiario dell’operazione non è l’economia sociale, bensì l’economia convenzionale. Avrebbe quindi senso trovare questo tipo di azioni in un piano per la sostenibilità dell’economia convenzionale, e non i un piano per lo sviluppo dell’economia sociale.
In conclusione di questo breve excursus relativo alla comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale ed al Comitato delle Regioni su un Piano di azione per l’economia sociale, vale la pena sottolineare come sia possibile a partire da questa base sviluppare una collaborazione ed un sostegno forte ai servizi delle Commissione europea, affinché la fase di implementazione del piano risponda realmente all’obiettivo dichiarato, senza deviazioni e nel modo più efficace ed efficiente.
DOI: 10.7425/IS.2022.01.13
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