In questo articolo si esamina la relazione e l’interazione tra l’Economia Sociale e Solidale (ESS – SSE, Social and Solidarity Economy) e l’economia informale nell’Africa subsahariana, concentrandosi sulla capacità della SSE di ridurre il deficit di lavoro dignitoso relativo a tutti e quattro i pilastri dell’Agenda per il lavoro dignitoso (DWA, Decent Work Agenda). L’articolo sostiene che le organizzazioni e le imprese dell’economia sociale e solidale (SSEEO, Social and Solidarity Economy Enterprises and Organizations) non sono solo idonee nel migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’economia informale, ma, in molti casi, sono gli unici agenti che possono raggiungere efficacemente gli attori dell’economia informale. L’articolo si conclude con alcuni spunti per quanto riguarda la ricerca, le politiche e possibili azioni future.
DOI: 10.7425/IS.2022.01.03
La Raccomandazione 204 dell’ILO (2015) sulla transizione dall’economia informale a quella formale stabilisce che il termine economia informale “si riferisce a tutte le attività economiche svolte da lavoratori e che, in diritto o in pratica, non sono coperte o non sono sufficientemente coperte da accordi formali”, sottolineando inoltre che le attività illecite e illegali non rientrano nell’ambito dell’economia informale. L’ILO stima che due miliardi della popolazione mondiale occupata, sopra i 15 anni, lavora in modo informale, rappresentando il 61,2% dell’occupazione globale (ILO, 2018). La percentuale di lavoro informale varia da regione a regione, come mostrato nella Figura 1.
Figura 1. Quota di occupazione informale. Fonte: ILO, 2018.
Kanbur (2021) sottolinea che i tentativi di formulare le caratteristiche chiave dell’informalità risalgono sino al 1930, mentre il termine “informalità” è stato introdotto solo nei primi anni ‘70. Ci sono voluti poi altri quarant’anni per sviluppare uno standard, vale a dire la Raccomandazione 204 dell’ILO. Bangasser (2000, p. 10) elenca sette caratteristiche che definiscono le attività economiche informali:
Figura 2. Economia informale. Fonte: Elaborazione dell’autore, basata su ICLS (2018).
Mbaye et. al (2020) sottolineano che “l’informalità è un continuum piuttosto che una distinzione binaria”, il che significa che qualsiasi unità economica dell’economia informale può presentare caratteristiche formali e informali allo stesso tempo e in diversa misura. Nella Figura 2 vengono chiariti termini che sono spesso utilizzati in modo intercambiabile. Secondo l’ILO, i mezzi di sussistenza di oltre la metà della forza lavoro globale dipendono dall’economia informale, con rapporti molto più elevati nel Sud del mondo che nel più ricco Nord (ILO, 2018).
Dal punto di vista del lavoro dignitoso e dello sviluppo sostenibile, la caratteristica più sorprendente delle società e delle economie africane è la vastità dell’economia informale, che impiega quasi il 90% della forza lavoro (ILO 2018), contribuisce fino al 65% al PIL in alcuni Paesi (Medina et. al, 2017) e ospita oltre il 90% delle micro e piccole imprese (ILO, 2017). La Tabella 1 riassume la composizione del lavoro informale nell’Africa subsahariana, mostrando anche un notevole divario di genere.
Tabella 1. Composizione del lavoro informale, valori percentuali. Fonte: ILO (2018).
Composizione del lavoro informale nell’Africa subsahariana (2016) | ||||||||
Compresa l’agricoltura | Esclusa l’agricoltura | |||||||
Totale | Nel settore informale | Nel settore formale | Nei nuclei familiari | Totale | Nel settore informale | Nel settore formale | Nei nuclei familiari | |
Totale | 89,2 | 79,3 | 5,2 | 4,6 | 76,8 | 63,3 | 9,5 | 4,2 |
Uomini | 86,4 | 75,7 | 6,7 | 4,0 | 71,6 | 56,7 | 12,1 | 2,8 |
Donne | 92,1 | 83,2 | 3,6 | 5,3 | 82,8 | 71,0 | 6,4 | 5,6 |
La Tabella 2 fornisce un’istantanea della percentuale di occupazione informale nei Paesi africani per i quali sono disponibili serie di dati relativamente recenti; da osservare come in tutti i Paesi le donne siano significativamente più impiegate nel lavoro informale rispetto agli uomini. Le statistiche longitudinali non esistono per la maggior parte dei Paesi, è quindi difficile stabilire se la quota di lavoro informale sia cresciuta o diminuita, ma alla luce dei dati si può tranquillamente concludere che l’informalità[1] è pervasiva nell’intera regione dell’Africa subsahariana. Charmes et.al. (2018) sostengono che l’informalità sia stata una caratteristica tipica delle economie africane anche prima della colonizzazione e rimanga oggi un elemento strutturale di un’area in cui l’occupazione formale è rara.
Tabella 2. Percentuale di occupazione informale rispetto all’occupazione totale Fonte: statistiche dell’ILO (ILOSTAT, 2021) e UEMOA (2018).
Percentuale di occupazione informale rispetto all’occupazione totale | ||||
Paese | Anno | Totale | Uomini | Donne |
Burkina Faso | 2018 | 95,4 | 93,5 | 97,7 |
Botswana | 2019 | 67,8 | 66,9 | 68,7 |
Ciad | 2018 | 96,9 | 95,2 | 99,0 |
Ghana | 2015 | 78,1 | 77,2 | 91,5 |
Mali | 2018 | 94,7 | 93,4 | 96,6 |
Mauritania | 2017 | 90,9 | 90,8 | 91,2 |
Mozambico | 2015 | 95,7 | 92,7 | 98,4 |
Ruanda | 2019 | 83,8 | 77,6 | 83,4 |
Sud Africa | 2019 | 34,7 | 33,3 | 36,4 |
Uganda | 2017 | 89,4 | 88,5 | 90,4 |
Zimbabwe | 2019 | 79,8 | 79,0 | 80,8 |
UEMOA* | 2018 | 89,6 | 85,7 | 94,1 |
MEDIA | 83,1 | 81,2 | 85,7 |
* L’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (UEMOA) copre otto Paesi dell’Africa dell’Ovest (Bénin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo); nel 2018, l’UEMOA ha condotto un’indagine molto completa sull’economia informale in questi otto Paesi (UEMOA, 2018).
Kraemer-Mbula e Wunsch-Vincent (2016, P. 1) osservano che, in generale, “una specificità vitale di molti Paesi in via di sviluppo è l’ubiquità del settore informale e il suo documentato contributo alla produzione economica e all’occupazione”. Mhando e Kiggundu (2018, P. 219) affermano che “se l’economia informale non esistesse, non ci sarebbe economia perché il settore informale sostiene quello formale”. In effetti, la scala dell’economia informale è così schiacciante nell’Africa subsahariana che l’espressione “informale”, con tutte le sue connotazioni negative, appare inappropriata. Dungy e Ndofor (2019) propongono invece di usare il termine “economia indigena”, nel qual caso l’economia formale sarebbe etichettata come “importata” o “aliena” (cosa che in realtà è). Mbaye et.al (2020) condividono questo punto di vista sottolineando che il settore informale incarna le pratiche economiche tradizionali premoderne a livello di villaggio.
Aryeetey (2015) sottolinea l’importanza dell’economia informale per la produzione interna e la crescita economica, ma anche come fonte di occupazione e strumento per la riduzione della povertà, osservando inoltre che il suo principale contributo alla riduzione della povertà è quello di costituire comunque una fonte di occupazione. Sallah (2016) ritiene che la persistente esistenza e crescita del settore informale nell’Africa subsahariana dopo anni di politiche strutturali con esito insoddisfacente abbia portato a una rinnovata attenzione all’informalità, non da ultimo per quanto riguarda il suo ruolo nello sviluppo economico. Holt e Littlewood (2014) sottolineano che l’economia informale e quella formale sono strettamente intrecciate, con alcune catene di approvvigionamento che si estendono dai fornitori internazionali ai venditori locali che lavorano sul ciglio della strada. Come ha osservato Hart: “i venditori ambulanti di sigarette completano invisibilmente la catena che collega le grandi imprese straniere ai consumatori”. Charmes (2018) sottolinea la dimensione transfrontaliera del commercio informale nell’Africa subsahariana, osservando che contribuisce a circa il 40% del commercio intraregionale totale nell’Africa orientale e meridionale.
I governi africani e i loro partner per lo sviluppo hanno affrontato il fenomeno dell’economia informale con atteggiamenti diversi: alcuni si aspettavano che un settore formale moderno e in espansione avrebbe comportato quasi automaticamente la scomparsa dell’economia informale (Sallah, 2016); altri hanno intrapreso sforzi per “formalizzare” l’economia informale, come richiesto nella Raccomandazione 204 dell’ILO; alcuni considerano l’economia informale come un utile complemento al settore formale, per cui entrambi crescerebbero o diminuirebbero insieme (Sallah, 2016), mentre alcuni “neo-liberali” ritraggono i lavoratori informali come eroi che si liberano dalle catene di uno Stato troppo oneroso (Sallah, 2016, P. 1070). Ancora, altri governi cercano di criminalizzare, sopprimere, sradicare o proibire l’economia informale. Qualunque politica sia stata adottata, chiaramente non ha eliminato il settore informale africano, che è destinato a crescere ulteriormente a causa della pandemia di Covid-19 (Schwettmann, 2020).
Considerando che le occupazioni dell’economia informale impiegano la maggior parte della forza lavoro in tutti i Paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti, la scarsità di riferimenti all’informalità nell’Agenda 2030 è sorprendente (Vanek, 2020). Ad eccezione dell’indicatore SDG 8.3.1 (quota di occupazione informale nei settori non agricoli sull’occupazione totale), l’Agenda non fa menzione dell’informalità.[2] Se l’Agenda vuole mantenere la sua promessa di “non lasciare indietro nessuno”, non può assolutamente ignorare il fatto che la stragrande maggioranza degli individui, delle famiglie e delle comunità nell’Africa subsahariana trae il proprio sostentamento dall’economia informale. Si potrebbe obiettare che molti obiettivi di sviluppo sostenibile includono implicitamente attori dell’economia informale senza nominarli esplicitamente; ciò si applicherebbe a diversi obiettivi nell’ambito degli SDG 1 (povertà), 2 (fame), 8 (lavoro dignitoso), 10 (uguaglianza) e 16 (istituzioni). Tuttavia, un maggior numero di riferimenti espliciti agli attori dell’economia informale nell’Agenda 2030 sarebbe stato il benvenuto, non da ultimo perché gli attori dell’economia informale e le loro SSEEO nell’Africa subsahariana sono attivamente coinvolti in settori legati agli SDGs come la produzione agricola, la pesca e l’allevamento, la gestione dei rifiuti, la copertura sanitaria universale, la prevenzione dello spreco alimentari, il riciclo, i trasporti a prezzi accessibili, l’estrazione mineraria su piccola scala, lo sviluppo economico locale, per citarne alcuni.
L’Agenda per il lavoro dignitoso (DWA, Decent Work Agenda) dell’ILO è più “sensibile all’economia informale” rispetto all’Agenda 2030; infatti, il termine “lavoro dignitoso” è stato preferito a “impiego dignitoso” poiché, come ha osservato Sen (2000) “include tutti i lavoratori, ovunque e in qualsiasi settore lavorino; non solo i lavoratori del settore organizzato, o i lavoratori salariati, ma anche i lavoratori salariati non regolamentati, i lavoratori autonomi e i lavoratori a domicilio.”
Il termine “deficit di lavoro dignitoso” è stato definito dall’ILO come “l’assenza di sufficienti opportunità di lavoro, una protezione sociale inadeguata, la negazione dei diritti sul lavoro e carenze nel dialogo sociale” (ILO, 2001). I deficit di lavoro dignitoso sono particolarmente diffusi nell’economia informale dell’Africa subsahariana. Il tasso di occupazione vulnerabile – la quota di lavoratori autonomi e di lavoratori non retribuiti sull’occupazione totale – è stato stimato al 72% nell’Africa subsahariana nel 2017; la povertà lavorativa estrema nel continente è stata stimata al 36% e la povertà lavorativa moderata al 24%[3] (ILO, 2018). L’alto grado di informalità comporta che la maggioranza della popolazione africana sia esclusa da qualsiasi forma di protezione sociale (Tabella 3).
Tabella 3. Copertura della protezione sociale, calcolata a partire da ILO (2017), valori percentuali.
Copertura di protezione sociale in percentuale sulla popolazione avente diritto | ||||||
Almeno un vantaggio | Assicurazione malattia | Pensione di vecchiaia | Assegno per figli/famiglie | Indennità di maternità | Disoccupazione | |
Media mondiale | 45,2 | 61 | 67,9 | 34,9 | 41,1 | 21,8 |
Africa | 17,8 | 25 | 29,6 | 15,9 | 15,8 | 5,6 |
Circa il 75% della popolazione africana non ha una copertura sanitaria legale, con tassi di non copertura significativamente più elevati nelle aree rurali rispetto alle aree urbane (rispettivamente l’83% e 75% - ILO, 2017). La preponderanza dell’informalità significa anche che le norme sul lavoro, anche se ratificate, non vengono applicate. Per quanto riguarda i diritti sul lavoro, l’Africa ha provveduto alla ratifica quasi universale (98%) delle otto convenzioni fondamentali dell’ILO,[4] ma questo non significa molto per i lavoratori dell’economia informale, dove tali convenzioni sono impossibili da applicare. Il dialogo sociale – il quarto pilastro del DWA – è anch’esso limitato dall’alto grado di informalità nell’Africa subsahariana, dal momento che i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro del continente rappresentano solo i lavoratori e le imprese del settore formale, mentre gli istituti di dialogo sociale (che esistono nell’85% dei Paesi africani) generalmente escludono i lavoratori e gli operatori dell’economia informale (ILO-ITUC, 2017; ILO, 2014). Blustein et al. (2016) deplorano la crescente prevalenza del lavoro precario nell’economia informale, un termine che definiscono come un costrutto multidimensionale su quattro dimensioni: continuità/insicurezza del lavoro; vulnerabilità (cioè impotenza/mancanza di posizione contrattuale o capacità di esercitare i diritti sul posto di lavoro; protezione (cioè accesso a benefici e protezioni legali); reddito. Senza menzionare l’economia informale nel suo articolo, descrive accuratamente le carenze che colpiscono coloro che lavorano in condizioni di informalità.
Il termine economia sociale e solidale (SSE, Social and Solidarity Economy) attualmente manca di una definizione universale (Poirier, 2013). Inoltre, il termine stesso SSE è oggetto di contestazione poiché alcuni Paesi usano espressioni alternative.[5] In terzo luogo, nessun accordo universale sulle componenti che costituiscono la SSE è stato ancora trovato. Le espressioni “economia sociale”, “economia solidale” o SSE sono spesso usate in modo intercambiabile, anche se non hanno lo stesso significato. Defourny e Develtere (1999) ritengono che l’economia sociale comprende tutte le attività economiche condotte da unità economiche, principalmente cooperative, associazioni e società di mutuo soccorso, che concordano nel considerare l’attenzione alla persona primaria rispetto al lavoro e al capitale, una gestione autonoma e l’offerta di servizi ai membri o alla comunità prima del profitto. Secondo Klimczuk-Kochanska e Klimczuk (2015) l’economia solidale include le organizzazioni di commercio equo e solidale, le cooperative di lavoratori, i sindacati, lo sviluppo open-source e ad accesso libero, la produzione basata su beni comuni, le organizzazioni di consumo etico e le valute locali.
Nel mondo anglosassone, il termine impresa sociale è ampiamente usato (Roy, 2016), anche se la comprensione di ciò che si intende per “impresa sociale” differisce da Paese a Paese. Ad esempio, alcuni tra i fautori di questo concetto considerano “impresa sociale” come un termine generico che include cooperative, mutue, charity che operano in forma di impresa, nonché imprese socialmente responsabili (Bull, Ridley-Duff, 2018). L’espressione economia sociale e solidale (SSE), ha guadagnato risalto in anni recenti come mostrato nella Figura 3.
Il concetto della SSE rappresenta un tentativo di combinare le caratteristiche organizzative dell’economia sociale con gli aspetti politici dell’economia solidale. Utting (20159 chiarisce che il termine SSE si riferisce a forme di attività economica che danno priorità a obiettivi sociali e ambientali, e coinvolge cooperative, mutue e associazioni, molte manifestazioni di auto-aiuto organizzato, nonché reti di commercio equo e solidale, imprese sociali, iniziative di turismo sostenibile, associazioni di economia informale, istituzioni di microfinanza, ecc.
La natura informale ed eterogenea delle unità di SSE complica gli sforzi per ottenere dati statistici sulle dimensioni e l’importanza del movimento globale legato alla SSE, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. Borzaga et.al. (2017) hanno osservato che la mancanza di definizioni chiare e le differenze nelle forme organizzative tra i Paesi rendono difficile accertare ciò che dovrebbe essere misurato; inoltre, spesso gli istituti statistici nazionali raccolgono tipicamente dati per settori economici ma non per tipo di impresa.
Figura 3. Citazioni della SSE nella letteratura accademica, anni 1990-2020. Elaborazione dell’autore a partire da Google Scholar (settembre 2021).
I gruppi di auto aiuto, le associazioni, le mutue e simili organizzazioni basate sui propri membri sono onnipresenti in Africa; svolgono funzioni economiche e sociali essenziali per le famiglie, le comunità e lo Stato. Le diverse e sfaccettate forme di cooperazione, solidarietà, mutualità e reciprocità fiorenti in Africa possono essere ricondotte a sistemi, strutture e pratiche tradizionali, come Ubuntu (umanità) in Africa orientale, centrale e meridionale, Umoja (unione) in Africa orientale, Ummaganda (cooperazione) in Ruanda e Burundi (Murithi, 2006), Igwebuike (reciprocità) in Nigeria, Harambee (auto-aiuto comunitario) in Kenya (Borzaga, Galera, 2014). Questi concetti, e molte strategie di auto-aiuto simili applicate in tutto il continente, danno priorità alla comunità rispetto all’individuo, alla solidarietà rispetto al profitto, al locale rispetto al globale e al capitale sociale rispetto alla finanza, riflettendo così i principi e le caratteristiche essenziali della SSE (Hamer, 1981).
Il termine economia sociale e solidale in quanto tale è relativamente recente in Africa. Borzaga e Galera (2014) hanno osservato che in molti Paesi africani il termine “economia sociale” non apparteneva al linguaggio comunemente usato dai responsabili politici e dai ricercatori; ciò, tuttavia, non significava che questi Paesi non avessero un’economia sociale. Ancora, sempre secondo Borzaga e Galera, si potrebbe dire che l’Africa sia il continente in cui l’economia sociale gioca il ruolo più importante, poiché tutti i Paesi africani hanno un gran numero di organizzazioni di economia sociale e solidale.
La SSE è apparsa sul continente africano durante il primo decennio del XXI secolo, inizialmente nell’Africa settentrionale e occidentale francofona, prima di diffondersi timidamente nel resto del continente (RIPESS, 2019). Le principali componenti della SSE nell’Africa subsahariana, vale a dire cooperative, mutue, associazioni di auto-aiuto, imprese sociali e ROSCA/Tontine[6] sono relativamente ben studiate nell’Africa subsahariana, mentre esiste molta meno letteratura sullo stato della SSE (Schwettmann, 2014; Waelkens, Criel, 2004; Hamer, 1981; Rivera-Santos et al. 2015; Littlewood, Holt, 2018; Reito, 2019) come movimento nella sua interezza in Africa (Tremblay, 2009).
L’avanzata della SSE nell’Africa subsahariana può essere vista come una risposta al crollo delle strutture cooperative formali, spesso controllate dallo Stato, durante il periodo di riorganizzazione strutturale neoliberista, che si è esteso dal 1980 alla fine degli anni ‘90. In effetti, i programmi di riorganizzazione strutturale (SAP, Structural Adjustment Programmes) hanno costretto i governi a tagliare gli incentivi concessi alle cooperative, ad annullare accordi che individuavano direttamente questi soggetti per le forniture, a chiudere organismi e agenzie parastatali e a ridurre significativamente il personale dei dipartimenti governativi di sviluppo cooperativo e delle istituzioni per il rafforzamento delle competenze. Di conseguenza, la maggior parte delle cooperative fortemente legate ad accordi con le autorità pubbliche è rapidamente crollata, lasciando dietro di sé migliaia di piccoli agricoltori che improvvisamente hanno perso l’accesso ai mercati e ai vitali servizi di supporto. Eppure, il crollo delle cooperative di emanazione dello Stato ha spianato la strada all’emergere a metà degli anni ‘90 della più diversificata ed eterogenea SSE. Favreau (2003) ha osservato che il restringimento del margine di manovra dei governi del Sud – vale a dire nella loro funzione redistributiva – ha costretto i cittadini di questi Paesi a sviluppare nuove forme di solidarietà e di mutuo soccorso, sia economico che sociale, al fine di risolvere i loro problemi più cruciali. Ndiaye e Boutillier (2011) hanno osservato che la distruzione dei servizi pubblici e l’impoverimento delle popolazioni nei Paesi in via di sviluppo causato dai SAP ha favorito un proliferare di soluzioni di sopravvivenza, molte delle quali facevano parte della SSE. Wanyama (2013) è andato oltre, affermando anche che è stato proprio il neoliberismo a fornire il “trampolino di lancio” per l’emergere della SSE in Africa. La deregolamentazione delle procedure amministrative e il ridimensionamento dei servizi pubblici nell’ambito dei SAP hanno ampliato lo spazio per il regolare sviluppo di una gamma più ampia di organizzazioni di SSE, creando allo stesso tempo l’urgente necessità per tali organizzazioni di colmare il vuoto, in termini di erogazione dei servizi, che uno Stato in ritirata si era lasciato alle spalle. Jackson (2012) ricorda che i SAP hanno lasciato enormi lacune da colmare con iniziative di economia informale in settori quali l’alloggio, l’occupazione, il mantenimento dell’ordine pubblico, i trasporti, la raccolta dei rifiuti, il commercio e il credito per le famiglie. Defourny e Develtere (1999) ricordano che durante il periodo di riorganizzazione dell’economia, l’SSE è stata mobilitata per trovare risposte collettive ai bisogni più vitali delle persone nella società. Da allora, cinque Paesi africani (Capo Verde, Camerun, Gibuti, Senegal, Tunisia) hanno adottato leggi quadro nell’ambito della SSE e molti altri sono in procinto di farlo; Il Sudafrica sta attualmente formulando una strategia politica sulla SSE mentre la Commissione dell’Unione africana sta sviluppando una strategia panafricana di SSE.
In assenza di qualsiasi forma di protezione sociale, esposti a molestie, senza diritti né riconoscimento, i lavoratori dell’economia informale non hanno altra alternativa che costruire organizzazioni che forniscano loro un minimo di protezione, supporto e responsabilizzazione. Charmes et al. (2018) affermano che prima o poi tutte le politiche e i progetti incentrati sull’economia informale cercheranno di organizzare la popolazione, “perché l’organizzazione è fondamentale per finanziare, estendere la protezione sociale, aumentare la propria quota nella catena del valore e, più in generale, per ottenere visibilità, voce, autostima e fiducia”. La grande maggioranza delle organizzazioni di economia informale rientra nell’ambito della SSE. Il rapporto di riferimento della sessione del 2014 della Conferenza internazionale del lavoro (ILC, International Labour Conference) sulla “transizione dall’economia informale a quella formale” (ILO 2014, p. 45) ha rilevato che “lo sviluppo dell’economia sociale e solidale è un percorso promettente per facilitare le transizioni verso la formalità a livello locale. Le cooperative di vario tipo e le organizzazioni dell’economia sociale e solidale svolgono un ruolo importante nello sviluppo locale, in particolare nelle zone rurali”. Ciò si è riflesso un anno dopo nella conseguente raccomandazione 204, che include tre riferimenti specifici alle cooperative e all’SSE (ILO, 2015).
Le organizzazioni dell’SSE (a volte denominate “reti sociali”) sono onnipresenti e pervasive nell’economia informale africana. Leonhard (2000) sottolinea l’importanza della parentela e delle reti comunitarie per fornire assistenza in ambienti economici insicuri, come quelli prevalenti nell’economia informale. Meagher (2005) sottolinea che “le reti sociali rappresentano un concetto inestimabile per l’analisi delle economie informali e del loro ruolo nei processi di cambiamento economico”. Mentre l’ILO considera l’assenza di una regolamentazione formale come la caratteristica chiave che definisce l’economia informale (IL0, 2015), Meagher afferma ancora che l’SSE fornisce un quadro normativo alternativo e flessibile incorporato nelle relazioni popolari di solidarietà e fiducia. L’SSE, quindi, riempie un vuoto normativo autoregolando le attività di economia informale. Sarebbe quindi sbagliato etichettare l’economia informale come un settore non strutturato (secteur non-structuré), come hanno fatto alcuni studiosi francofoni nel 1980. Ridell osserva che gli operatori dell’economia informale agiscono all’interno di un sistema di scambio sociale in cui beni e servizi sono trasferiti da meccanismi come la reciprocità e la redistribuzione. Kinyanjui (1992) riferisce che le associazioni di economia informale spesso esercitano più funzioni contemporaneamente, come la regolamentazione del mercato, l’assistenza sociale e la coesione della comunità, mentre Kanbur (2010, p. 2121) plaude all’emergere di nuove forme di organizzazioni sociali nell’economia informale, basandosi sulle moderne tecnologie per fornire supporto e sostegno ai soggetti dell’economia informale.
Per confermare l’esistenza di organizzazioni di SSE nell’economia informale dell’Africa subsahariana, la fondazione tedesca Friedrich Ebert Foundation (FES), in collaborazione con L’ILO e il German Development Institute (DIE), ha realizzato tra il 2018 e il 2020, esaurienti rilevazioni sull’economia informale coinvolgendo 10.800 famiglie in sei Paesi: Benin, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenia, Senegal e Zambia. In questa indagine sono state formulate 15 domande pensate per esplorare la densità organizzativa e le caratteristiche delle organizzazioni di economia informale in questi Paesi, analizzando i risultati della ricerca da quella prospettiva. La ricerca ha confermato che più della metà (54,2%) di tutti gli intervistati erano membri di un’organizzazione (di qualsiasi tipo), con significative variazioni tra i sei Paesi (Figura 4).
Figura 4. Percentuale di attori dell’economia informale affiliati ad un gruppo. Fonte: FES (forthcoming).
L’indagine ha inoltre valutato il grado di formalità dei gruppi e delle associazioni sulla base dei criteri elencati nella Tabella 4. Questo alto grado di formalità è incoraggiante, poiché suggerisce che in effetti le associazioni di economia informale possono costruire un ponte tra la formalità e l’informalità.
Tabella 4. Grado di formalità nei gruppi di economia informale. Fonte: FES (forthcoming).
Grado di formalità dei gruppi di economia informale | |||||||
Indicatore | Benin | Kenia | Senegal | Zambia | Costa d’Avorio | Etiopia | MEDIA |
Registrati o formalmente riconosciuti | 46.4 | 67.1 | 55.3 | 85.2 | 39.1 | 56,0 | 58.2 |
Tenuta della contabilità | 73.9 | 86.2 | 77.7 | 90.5 | 71.1 | 75,3 | 79.2 |
Operazioni permanenti | 76.5 | 86.5 | 84.3 | 88.9 | 78.1 | 74,7 | 81,5 |
MEDIA | 65.6 | 79.9 | 72.4 | 88.2 | 62.8 | 68,7 | 73.0 |
In un numero crescente di Paesi africani, le iniziative locali di base hanno formato organizzazioni nazionali di economia informale di secondo livello. Brown e Lyons (2010), ad esempio, riferiscono che la Tanzanian Association of Small Businesses (VIBINDO) ha raggiunto uno status considerevole, rappresentando circa trecento associazioni a cui fanno riferimento complessivamente 40 mila persone. La Federazione Nazionale degli Artigiani del Mali (FNAM) comprende 1.226 associazioni con oltre 70 mila membri, attivi in 94 diverse occupazioni dell’economia informale (FNAM, 2020). La Camera delle associazioni di economia informale dello Zimbabwe (ZCIEA) è stata fondata nel 2002 come organismo rappresentativo degli attori dell’economia informale impegnati in piccole imprese non registrate o non costituite in società. Anche il Malawi Union for the Informal Sector, un sindacato, fondato nel 2002, rappresenta circa 5 mila attori dell’economia informale. Greve (2017) riferisce dal Senegal che due federazioni di secondo livello di venditori ambulanti rappresentano 27 associazioni con 12.400 membri individuali. Streetnet, un’alleanza globale di venditori ambulanti fondata nel 2002, opera come piattaforma di advocacy e condivisione delle conoscenze e ha membri in 24 paesi dell’Africa subsahariana (Streetnet, 2021).
La proliferazione di organizzazioni rivolte ai membri nell’economia informale africana è una risposta all’incapacità di uno “Stato snello”, la cui capacità di assicurare alla popolazione servizi essenziali è stata gravemente limitata dalle politiche neoliberiste. Le cooperative per il commercio e la fornitura di prodotti agricoli hanno sostituito i comitati di commercializzazione parastatali che erano stati chiusi per effetto delle riorganizzazioni economiche; gli schemi di assicurazione sanitaria basati sulla comunità estendono la protezione di base a coloro che rimangono fuori dalla portata delle agenzie di protezione sociale che sono state ridimensionate (Awortwi, 2018; Schwettmann, 2021). Le istituzioni di microfinanza governante dai soci, comprese le ROSCA, sono onnipresenti nel continente (Nyanzu et al., 2018; Reito, 2019; Seibel, 2006), mentre varie forme di microassicurazione, comprese le società di pompe funebri, sono diffuse nell’Africa australe e in Etiopia (Oduro, 2010). Le imprese sociali – termine più comune di SSE nei Paesi africani di lingua inglese – si stanno espandendo in Africa meridionale, Africa orientale e nella regione del Maghreb, spesso con un notevole sostegno esterno (Hoyos, Angel-Urdinola, 2019), ma la ricerca transnazionale sulle imprese sociali rimane limitata nell’Africa subsahariana (Littlewood, Holt, 2018). Questa lacuna è stata colmata in una certa misura da Barran et al. (2020), che hanno identificato 1,92 milioni di imprese sociali in 12 Paesi africani, che hanno creato 4,43 milioni di opportunità di lavoro diretto, offrendo al contempo il potenziale per generare un ulteriore milione di posti di lavoro entro il 2030.
Questi pochi esempi dimostrano che l’SSE svolge un ruolo essenziale, insostituibile e tuttavia non sufficientemente riconosciuto nel ridurre i deficit di lavoro dignitoso e promuovere lo sviluppo sostenibile nell’economia informale, come riassunto nella Tabella 5.
Tabella 5. SSEEO che riducono i deficit di lavoro dignitoso. Fonte: Rielaborazione dell’autore.
Il ruolo degli SSEEO nella riduzione dei deficit di lavoro dignitoso nell’economia informale | |||
Pilastro del lavoro dignitoso | Deficit di lavoro dignitoso | Ruolo delle SSEEO nella riduzione di tali disuguaglianze | Esempi |
Occupazione e mezzi di sussistenza | Bassa produttività, bassa base di competenze, reddito basso e irregolare | Guadagni legati alla produttività attraverso economie di scala e condividendo i fattori produttivi così da abbassare i costi di produzione; condivisione di servizi, macchinari e trasporti | Cooperative di commercializzazione e fornitura agricola formate da piccoli agricoltori |
Protezione sociale | Assenza di regimi formali di protezione sociale nell’economia informale | Sistemi di protezione sociale basati sui principi di mutualità, solidarietà e reciprocità | Gruppi di mutuo beneficio; programmi sanitari comunitari |
Dialogo sociale | Attori dell’economia informale e imprese non rappresentati nelle strutture formali del dialogo sociale | Migliorare la voce e la rappresentazione attraverso strutture verticali e rete orizzontale di SSEEO | Alleanza di venditori ambulanti, tassisti in moto, parrucchieri ecc. |
Diritti sul lavoro | Gli attori dell’economia informale non sono coperti dal diritto del lavoro e dall’ispezione del lavoro | Formazione di gruppi di pressione, costruzione di alleanze con le organizzazioni della società civile e i sindacati | La Federazione internazionale dei lavoratori domestici, che spinge per la ratifica della Convenzione dei lavoratori domestici dell’ILO (C.189) |
Le molteplici e diverse manifestazioni dell’auto-aiuto organizzato e dell’assistenza reciproca sono di grande importanza per i lavoratori autonomi nell’economia informale dell’Africa, poiché forniscono servizi sociali ed economici essenziali che né lo Stato né il settore privato sono disposti o in grado di fornire. Tuttavia, mentre alcuni Paesi africani hanno adottato negli ultimi anni leggi quadro nell’ambito della SSE, nella maggior parte dei paesi africani l’SSE opera in un vuoto giuridico; ad esempio, l’atto cooperativo “unificato” adottato dall’OHADA,[7] un’organizzazione che copre 14 Paesi africani francofoni, tace sulla SSE (Tadjudje, Caire, 2019), sebbene abbia introdotto la nozione di “cooperativa semplificata” con registrazioni meno rigorose, requisiti gestionali e contabili (OHADA, 2010). La mancanza di un ambiente giuridico adeguato è una delle ragioni che spiegano le difficoltà nel valutare l’entità, il peso economico e la portata geografica della SSE in Africa, dal momento che la maggior parte delle sue organizzazioni non sono registrate e non vengono quindi censite.
Questo breve articolo ha cercato di stabilire (a) che l’economia informale nell’Africa subsahariana è di tale importanza per le società, per il mercato del lavoro e per le economie nazionali che il termine stesso “informale” appare inappropriato; b) che la maggior parte degli attori dell’economia informale sono membri di una SSEEO, che esiste in una grande varietà di forme organizzative; c) che tali SSEEO hanno dimostrato la loro capacità di ridurre efficacemente i deficit di lavoro dignitoso nell’economia informale, contribuendo in tal modo alla graduale formalizzazione dell’economia informale nell’Africa subsahariana.
Tuttavia, per sfruttare appieno questo potenziale, sono necessarie quattro linee d’azione: a) ulteriori ricerche e indagini sistematiche sul tipo, le caratteristiche, le funzioni, le dimensioni e le prestazioni delle SSEEO che operano nell’economia informale di vari Stati dell’Africa subsahariana; b) la creazione di un contesto giuridico, politico e istituzionale favorevole affinché tali SSEEO esistano legalmente, ottengano il riconoscimento formale e operino liberamente; c) la creazione di adeguate strutture e istituzioni di sostegno alla SSE per fornire assistenza, consulenza, sostegno e sviluppo di capacità quando necessario e (d) la creazione di strutture di SSE verticali (alleanze nazionali, reti, sindacati, ecc.) per rappresentare efficacemente gli interessi dell’SSE nella politica, nel diritto e nel processo decisionale.
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