Viviamo un tempo che ha tutte le caratteristiche di una fase di transizione, vera e non solo immaginaria. Troppe volte, in anni recenti, è accaduto che si sia parlato di cambio di paradigma per definire modesti spostamenti di prospettiva. È bene quindi essere prudenti nel qualificare come epocale un passaggio storico finché vi siamo ancora immersi, e finché stiamo subendo i condizionamenti della cronaca senza aver ancora maturato il distacco necessario ad un’analisi non puramente emozionale. Tuttavia, sono molti gli elementi che convergono nell’indicare come questo terzo decennio del millennio stia facendo emergere una discontinuità vera rispetto al passato recente. Tra grande recessione, pandemia, e ritorno della guerra sul suolo europeo siamo stati coinvolti in pochi anni in tre grandi crisi che segnano una rottura profonda rispetto al trentennio precedente. Si fa strada quindi la necessità di elaborare un nuovo frame per comprendere quanto stiamo vivendo oggi e cosa dobbiamo aspettarci dal futuro. O meglio: per comprendere cosa possiamo fare perché il futuro non ci riservi solo incertezza e instabilità.
In questa prospettiva, l’attenzione prestata all’economia sociale può essere considerata una delle novità di questo tempo di transizione. Dopo decenni di pensiero economico dominato da teorie fondate sul costante ampliamento degli spazi di libertà dell’azione economica, quasi che questi fossero in sé un obiettivo autonomo, si torna ad affrontare il tema dei fini. Accumulazione ininterrotta e crescita del guadagno sempre meno sono considerate ragioni in grado di giustificare le disuguaglianze sociali e i costi ambientali da cui finora sono state accompagnate. Questi effetti indesiderati sono stati in qualche modo minimizzati o tollerati finché è prevalsa la convinzione che il sistema, in un modo o nell’altro, avrebbe comunque consentito un incremento diffuso del benessere. Così era stato negli anni passati, del resto, quelli della crescita più impetuosa. Nelle due versioni: quella della grande “convergenza” tra capitalismo e democrazia, che nei Trenta gloriosi ha sostenuto la ricostruzione post-bellica, e quella della grande “divergenza” causata dall’ideologia dell’autoregolazione dei mercati, che nell’ultima parte del Novecento ha scandito gli anni del Washington Consensus.
Anni che hanno prodotto un imprinting molto più duraturo e profondo di quanto all’epoca si potesse immaginare. Quella esperienza, infatti, è rimasta incisa profondamente nella cultura collettiva, imprimendovi l’idea che quando l’economia cresce i suoi frutti vanno necessariamente a vantaggio di tutti. Ovvero, che fini e mezzi fossero naturalmente in armonia, allora e per il futuro. Ma questa “memoria sociale” non ha tenuto conto delle nuove condizioni venutesi a creare con la fine di quel ciclo eccezionale, i “trenta gloriosi” appunto, in cui nelle nazioni occidentali aumentava la ricchezza e al loro interno diminuiva la disuguaglianza. Nel periodo che è seguito agli anni del miracolo economico quell’equilibrio si è rotto, per un vasto complesso di cause. E tuttavia la consapevolezza delle conseguenze negative sulle vite delle persone ci ha messo molto più tempo a farsi strada. Siamo vissuti, per un lungo tempo, nella speranza che la crescita della ricostruzione post bellica avrebbe continuato a beneficiare tutti senza renderci conto che nel nuovo scenario, quello delle teorie neoliberali, le priorità erano altre. I fini erano cambiati senza che i più se ne rendessero conto. Ed erano cambiati a svantaggio dei più, esclusi dai benefici di una ricchezza sempre più concentrata. Per arrivare infine, in anni a noi vicini, alla presa d’atto che il nuovo modello economico non era riuscito – né mai sarebbe giunto – a mantenere le sue promesse.
Il risveglio, brusco, ha sollevato il problema della ricerca di approcci alternativi, la questione di una ridefinizione dei fini. Sollevando di nuovo l’interrogativo dello scopo dell’azione economica (purpose, come direbbero i nuovi teorici della responsabilità di impresa, quanto mai rapidi nel tradurre i nuovi venti che soffiano nell’opinione pubblica in strategie di riposizionamento a vantaggio delle imprese di capitali). La conseguenza di questo clima mutato è il rinnovato interesse per modelli di pensiero che si interrogano su come conciliare attività economiche, sviluppo sociale e sostenibilità ambientale. Dentro questo processo, che riguarda tutto il mondo economico e le sue diverse forme organizzative, i soggetti appartenenti al settore dell’economia sociale godono di un evidente vantaggio. L’attualità dell’economia sociale interpreta un bisogno profondo di cambiamento, che affonda le sue radici nella constatazione dei limiti dei modelli di pensiero economico dominanti dalla fine della stagione d’oro dello “Stato del benessere”. È questo il cuore della discontinuità che contraddistingue la fase storica in cui stiamo vivendo. Contro le teorie che negli ultimi quattro decenni hanno assolutizzato la ricerca del profitto, ritorna l’interesse per una concezione dell’agire economico che non perda di vista il bene delle persone, ed anzi lo elevi a proprio obiettivo. Questo interesse è al tempo stesso un indicatore di insoddisfazione e un agente di trasformazione. Insoddisfazione nei confronti di modelli economici troppo unilaterali per essere sostenibili e intento trasformativo di intraprendere strade alternative rispetto a quelle fin qui più battute.
Tra queste strade alternative, quella dell’economia sociale è tra le più promettenti. Non fosse altro perché affronta il tema della discontinuità in una prospettiva strutturale, in chiave di modello di sviluppo economico e non in quanto riposizionamento congiunturale o opportunistico. Come sembra invece accadere in diverse teorizzazioni che pensano di riformare il capitalismo, per renderlo più adeguato al nuovo sentiment sociale, con interventi di “riallineamento” tra ricerca del profitto e valori di sostenibilità sociale e ambientale. Senza ripensare in profondità la natura e la funzione dell’impresa.
È alla riflessione su questa stagione di transizione, e sul ruolo che in essa può svolgere l’economia sociale, che è dedicato questo numero di Impresa Sociale. Con la convinzione, come si è detto, che questo momento storico abbia le caratteristiche di un vero e proprio cambio di fase, da inquadrare in un movimento ampio nel quale confluiscono molte e diverse tendenze. Per questo si è scelto di raccogliere contributi e voci che sono testimonianza di un fenomeno globale. Né potrebbe essere diversamente, visto che l’economia sociale si confronta con modelli e processi economici che proprio nella globalizzazione hanno un loro elemento peculiare. Quel che emerge, come sarà evidente dalla lettura dei vari testi, è un approccio ai temi economici e sociali che manifesta una straordinaria attitudine all’adattamento. L’economia sociale si esprime nelle situazioni locali dimostrando una grande capacità di interpretazione dei contesti e delle risorse disponibili, modificando le sue forme organizzative ed operative in funzione dei bisogni reali ai quali essa risponde. Il quadro che ne risulta è di unità nella diversità: obiettivi e valori comuni, in una pluralità di forme che rispondono a bisogni concreti, e perciò localizzati.
Questo numero ha attinto dal lavoro di una serie di studiosi e esperti impegnati non solo a livello individuale ma anche come membri di reti e forum di discussione, in cui confluiscono sia esperienze accademiche e di ricerca sia esperienze di gestione operativa e di rappresentanza associativa. Gli autori, come si noterà, hanno molteplici affiliazioni e in molti casi sono anche coinvolti in gruppi internazionali di elaborazione e scambio, come ad esempio la United Nations Task Force on Social and Solidarity Economy, qui presente con un folto gruppo di contributori. È questo un ulteriore segno di come il tema sia non solo in sé attuale come argomento di ricerca ma si trovi anche al centro del lavoro e delle discussioni di istituzioni internazionali impegnate nel lavoro di analisi delle tendenze più rilevanti per la definizione di nuove policy al servizio di uno sviluppo sociale ed economico mondiale più equo e sostenibile.
In un’intervista del 2007, Alan Greenspan – che fino all’anno prima aveva ricoperto la carica di Presidente della Federal Reserve – descriveva così le prospettive della politica statunitense: “Siamo fortunati: grazie alla globalizzazione, le decisioni politiche negli Stati Uniti sono state in gran parte sostituite dalle forze globali del mercato. A parte la sicurezza nazionale, non fa molta differenza chi sia il prossimo presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato”[1]. La perentoria e fiduciosa affermazione di Greenspan echeggiava una dichiarazione non meno categorica dell’economista premio Nobel Paul Samuelson, che nel 1990 aveva scritto: “Non mi interessa chi scrive le leggi di una nazione, se posso scrivere i suoi manuali di economia”[2]. Nessuno dei due avrebbe potuto essere più esplicito. Con dichiarazioni così nette, entrambi volevano mettere l’accento sul fatto che la politica avesse ormai ceduto all’economia lo scettro del potere. Nella loro prospettiva, andava preso atto di un processo radicato e duraturo i cui effetti avrebbero influito sulla nostra epoca più di qualsiasi altra dinamica. Sarebbe stato inutile opporvisi.
La subordinazione della politica al pensiero economico non è stata il risultato di un processo improvviso. Essa si è formata in decenni di cultura economica dominata da regole considerate inoppugnabili come formule matematiche. La teoria economica mainstream – quella appunto che Samuelson ha contribuito a codificare con il suo celebre manuale Economia. Analisi introduttiva[3], che per mezzo secolo è stato il testo più diffuso nelle facoltà di economia di tutto il mondo – ha plasmato un’epoca. Perché ha sostituito la prospettiva classica, risalente addirittura ad Adam Smith, di un rapporto strutturale tra economia, politica e diritto, in cui l’economia politica era comprensibile solo in riferimento al quadro più ampio di una “scienza del legislatore”. Sostituendo una visione basata sul bilanciamento dei poteri con il punto di vista riduzionistico di un dominio delle forze dell’economia sulla politica e sul diritto, come mai prima si era visto.
Questo cambiamento di prospettiva si sarebbe tradotto, ben oltre le intenzioni di Samuelson, nell’idea che il mercato andasse sempre assecondato riducendo al minimo le briglie poste dallo Stato e dalle sue istituzioni. Ed è questa la strada percorsa con decisione nell’ultimo quarto del secolo scorso dal capitalismo delle società occidentali[4]. Una strada che sembrava non dover incontrare più nessun ostacolo, dopo che la fine della guerra fredda aveva lasciato un solo vincitore, e che invece ha portato dove i teorici del primato dell’economia non avevano previsto. Ovvero alla crisi del 2008 e alla fine dell’illusione neoliberista.
La concatenazione degli avvenimenti è nota, anche se forse non ci è ancora del tutto chiaro di aver vissuto in quel momento un vero e proprio tipping point, un evento critico le cui conseguenze sono state assai più ampie di quanto sulle prime fosse possibile intendere. Il punto di inizio è stato il momento in cui il crollo del muro di Berlino e il disfacimento dell’Unione Sovietica hanno alimentato l’illusione di un mondo pacificato dal mercato. Il convincimento, all’indomani della fine del confronto a tutto campo tra i due modelli opposti di governo, di società, di sviluppo economico che avevano diviso il mondo in blocchi avversi, era che non ci fossero più ostacoli perché il modello vincente si imponesse in ogni paese, ad ogni latitudine. La scomparsa del comunismo aveva portato all’affermazione del capitalismo non solo come sistema dominante, ma come unico sistema socioeconomico mondiale. A questa convinzione si accompagnava un assunto implicito: se il trionfo della democrazia si doveva alla forza dell’economia di mercato, ora che non vi erano più avversari in vista si poteva allentare la tutela garantita dai poteri pubblici per lasciare il mercato libero di sprigionare al massimo i propri spiriti vitali. In fondo, il mondo diviso in blocchi era lo spazio della geo-politica, in cui i governi dovevano esercitare al massimo la propria autorità; ma con il superamento dei blocchi si sarebbe potuto fare a meno dei loro poteri troppo ingombranti, lasciando maggiore spazio all’iniziativa privata. Meno autorità pubblica e più guadagno privato: specie, nella versione assicurata da una finanza globalizzata lasciata finalmente libera di esprimere tutto il proprio potenziale senza confini e senza vincoli.
Così è stato, finché la stagione del capitalismo finanziario – che è stata la forma estrema assunta dal dominio quasi incontrastato del mercato – ha conosciuto la violenta rottura della crisi esplosa a causa dei mutui subprime. Il 2008, appunto. Dopo aver monopolizzato a lungo la cultura delle società liberali, la pretesa del mercato di governare la società, minimizzando o volgendo a proprio vantaggio politica e diritto, si è trovata denudata. A partire da quel momento il rapporto tra economia e politica ha preso a muoversi in una direzione diversa da quella che aveva dominato i decenni precedenti. Si sono riaffacciate le componenti di quel compromesso tra democrazia e capitalismo che avevano caratterizzato gli anni della ricostruzione post-bellica. Dapprima timidamente, quando la reazione immediata alla recessione ha cercato di tenere insieme il massiccio intervento pubblico con il contrappeso di politiche di austerità e rigore fiscale. Poi, con l’accelerazione motivata dalla reazione alla pandemia mondiale, riducendo sempre di più le rigidità fino a creare le condizioni perché l’aumento del debito pubblico diventasse anche presso i più rigoristi una misura condivisa per affrontare le emergenze in nome di finalità di interesse collettivo. Come abbiamo visto nel 2020 in occasione degli interventi per far fronte alla emergenza sanitaria da Covid-19 e, di nuovo, in queste ultime settimane per contenere gli effetti del conflitto in Ucraina.
La storia di quest’ultimo decennio è quindi storia del ritorno dell’intervento pubblico in economia. È grazie all’intervento degli Stati se dopo il 2008 banche e organizzazioni finanziarie sono state salvate: senza l’azione dei governi la crisi avrebbe provocato danni ancora più ingenti. Con la pandemia, poi, gli argini si sono rotti definitivamente ed il ruolo attivo delle istituzioni pubbliche è stato sollecitato anche da chi in passato lo aveva esorcizzato. Con l’arrivo del Covid la scena è stata occupata interamente da un’invocazione di tutela pubblica a prescindere dal costo per i bilanci pubblici. Con un vero e proprio rovesciamento di paradigma: la mano invisibile del mercato ha avuto bisogno dell’aiuto della mano visibile, visibilissima, dello Stato e dei suoi poteri. Fino alla recente, tragica vicenda dell’attacco russo all’Ucraina che, sotto la minaccia di una nuova cortina di ferro, ha costretto a prendere atto del tramonto dell’idea che la forza dell’economia di mercato bastasse a garantire la pace e la democrazia. Il conflitto alle porte dell’Unione europea ha reso evidente la fragilità di una globalizzazione pensata in funzione principalmente dell’economia di mercato. Come già era emerso nel corso dell’emergenza sanitaria, ci si è resi conto che il governo delle società non può essere affidato soltanto alla libera iniziativa privata e al gioco degli interessi economici. La convinzione che imprese e imprenditori potessero non solo cambiare il mondo, ma fossero i soggetti incaricati di salvarlo, si è rivelata un’illusione. Per contro, si è tornati a rendersi conto che il self interest, per essere inteso correttamente, ha bisogno di azioni per il bene comune intraprese in nome dell’interesse pubblico. Dunque, ha bisogno del concorso di molte forze diverse accomunate da un interesse per uno sviluppo sociale integrale.
Lo sviluppo di questa consapevolezza sta mettendo in luce però anche un secondo aspetto, assai gravido di conseguenze. La questione è quella della legittimazione delle istituzioni politiche. Il ritorno dello Stato non sta avvenendo nelle stesse condizioni del New Deal americano o della ricostruzione del dopo-guerra europeo. Non stiamo chiudendo la lunga parentesi neoliberista per ritornare placidamente ai modelli socialdemocratici dei “Trenta gloriosi”, agli anni della ripresa civile ed economica dei paesi distrutti dalla guerra mondiale. La lunga fase del dominio delle ragioni dell’economia su quelle della politica ha inaridito le fonti di quest’ultima, indebolendo o addirittura azzerando i meccanismi di generazione della fiducia sociale e della riproduzione dei suoi valori etico-culturali. I governi oggi al centro della scena non sono espressione di un tessuto politico vivo, ma il più delle volte sono soltanto la proiezione di partiti politici che hanno privatizzato lo Stato e corporativizzato la società civile. Venendo meno alla funzione originaria di intermediazione tra Stato e società hanno subito una degenerazione all’apparenza irreversibile. Per un verso si sono “statizzati”, in un connubio indistricabile con l’apparato pubblico e amministrativo; per altro verso, si sono mossi verso la società civile in modo corporativo, perdendo la capacità di ricondurre gli interessi particolari ad una sintesi operata in nome dell’interesse generale.
Non è stato un processo unilaterale. Anche la società civile lo ha assecondato, con il progressivo abbandono di un modello condiviso di valori civici e cultura politica, fondato su solidarietà e senso del dovere. Un modello che oggi può sembrarci irrealistico, ma che in altri momenti della storia è servito a far sentire i cittadini coinvolti nell’impresa collettiva di proteggersi a vicenda dai rischi e dalle difficoltà. Sostituito in seguito dalla realtà di una cultura sociale più individualista e narcisista[5], il cui nucleo risiede in una visione secondo cui ci sono soltanto individui, individui diversi, ciascuno con la propria vita individuale. Rimpiazzato da una nuova concezione della vita in cui i bisogni e i desideri degli individui hanno preteso la priorità assoluta su quelli della società. Una rivoluzione subliminale che ha modificato la società e la politica negli ultimi cinquant’anni più di qualunque altro evento storico particolare. Riassumibile nel dogma: non esiste un’entità sociale dotata di un bene che si sottoponga a sacrifici per il suo proprio interesse.
E tuttavia, anche qui gli ultimi anni stanno portando una discontinuità radicale. Questo dogma è stato scosso dalla crisi del 2008, quando è diventato chiaro che la ricerca dell’interesse privato aveva prodotto enormi disuguaglianze. In queste condizioni, ritorna dunque il tema dell’alternanza tra felicità privata e felicità pubblica, introdotto da Albert Hirschmann per descrivere la dicotomia tra pubblico e privato e il ruolo della delusione nel cambiamento di preferenze[6]. Hirschmann osservava come le società attraversino a fasi alterne periodi in cui la virtù pubblica perde attrattiva, per una serie di fattori che allontanano i cittadini dall’arena pubblica (la corruzione, la demitizzazione delle cause di ordine elevato, la persuasione che la felicità pubblica possa essere perseguita meglio inseguendo il vantaggio privato), e periodi in cui invece ritorna il bisogno di impegnarsi per migliorare il mondo, in quanto la ricerca di felicità attraverso l’accumulazione di beni di consumo può procurare vari tipi di delusioni, determinando una disponibilità a partecipare più attivamente ad azioni pubbliche o collettive.
Con tutta evidenza, rispetto allo schema di Hirschmann, veniamo da un periodo in cui è prevalsa la tendenza ad occuparsi di faccende che hanno un’utilità e una praticità immediata (nell’illusoria ricerca di una felicità puramente privata) ma oggi stiamo assistendo ad un effetto rimbalzo che spinge verso l’azione pubblica, ritenuta preferibile anche se i costi della partecipazione all’azione collettiva potrebbero eccedere i benefici che l’individuo ne ricava. Ne sono testimonianza le esperienze di riattivazione di valori civici alle quali abbiamo assistito durante la pandemia e la reazione innescata dal conflitto in Ucraina, a poca distanza dai nostri paesi. Una tragica circostanza in cui la posta in gioco sono i valori della democrazia e dell’autonomia, ai quali ci stiamo dimostrando molto più attaccati di quanto fossimo abituati a ritenere.
La questione che quindi oggi si pone con decisione è come soddisfare questa nuova disponibilità a impegnarsi nell’arena pubblica, evitando che subentri rapidamente un nuovo ciclo di delusione. Come rinvigorire il senso civico e l’azione collettiva. In un quadro in cui gli attori politici tradizionali non sono una risposta, come non lo è neppure la reazione illiberale e populista innescata dalle conseguenze sociali della crisi finanziaria globale degli anni Dieci. La questione è, di nuovo, la riscoperta del valore di appartenere ad un sistema democratico, in cui l’equilibrio dei poteri è il principio che regola il rapporto tra economia, politica e diritto. Quindi, la rigenerazione dell’azione pubblica, nel nome di un interesse generale e di valori condivisi, passa dalla capacità di proporre una nuova articolazione di questo rapporto. Richiede una coniugazione di economia e società che proponga una convincente soluzione al problema di questo equilibrio.
È in questa direzione che ha preso a muoversi il capitalismo, con le nuove teorie su valore condiviso, purpose sociale e responsabilità verso i temi della sostenibilità. Si qualifichi come “inclusivo”, “sostenibile” o in altro modo, è evidente il bisogno e l’urgenza di riconfigurare l’idea di capitalismo in accordo con il nuovo clima sociale. Se questa è una tendenza netta, che dimostra la straordinaria capacità dell’approccio economico capitalista di cambiare pelle per adattarsi alle nuove condizioni storiche, generando sempre nuove varianti, è in questo stesso scenario che l’idea di economia sociale a sua volta ha ricominciato a prendere forza. Le sue ragioni d’essere oggi non sono più considerate, con malcelata sufficienza, un rimedio cui ricorrere solo in caso di fallimenti dello Stato e del mercato. Si fa largo la percezione che anche questo modo di agire economico è necessario per tracciare nuove prospettive dopo che le vecchie certezze si sono dimostrate inadeguate. Perché esprime un’idea di economia in sintonia con i bisogni delle persone, provate dalla crisi, e con le sfide del nostro tempo, alla ricerca di un modo per affrontare seriamente i temi della sostenibilità ambientale e sociale. Quindi, è una visione dell’azione economica particolarmente adatta a questo tempo di transizione verso un nuovo paradigma.
Ricorrono quest’anno i trent’anni del Trattato di Maastricht, che segnò la nascita dell’Unione monetaria europea. Si era agli inizi del grande processo di globalizzazione che avrebbe velocemente interessato tutto il mondo. L’idea di un mercato unico di 450 milioni di individui, uniti da una sola moneta, sembrava dischiudere una prospettiva radiosa per lo sviluppo del continente. Con la guerra fredda ormai alle spalle, il pensiero prevalente – come si è già detto – era rivolto alla affermazione del trionfo definitivo della democrazia e delle istituzioni del libero mercato. In un clima che volgeva decisamente all’ottimismo, il “modello” vincente era quello di un capitalismo liberato dall’eccesso di vincoli e di pesi burocratici di un Welfare State divenuto troppo intrusivo e inefficiente.
Maastricht, nelle intenzioni dei suoi artefici, doveva essere la premessa per la creazione di un’Unione europea più dinamica e competitiva, con un’economia innovativa basata sulla conoscenza. Rendere l’Europa protagonista a livello mondiale al pari delle altre macro-potenze: è questo l’obiettivo che ha accompagnato l’adozione della moneta unica, di nuovo affermato qualche anno più tardi con la Strategia di Lisbona approvata dal Consiglio europeo nel marzo del 2000. Al cuore, la convinzione – di origine schiettamente liberale – che il compito primario delle istituzioni europee fosse quello di favorire quanto più possibile lo sviluppo di una fiorente economia di mercato, la cui crescita avrebbe di per sé comportato, per effetto di trascinamento, anche effetti positivi sulla coesione sociale. Perciò il massimo sforzo andava diretto verso l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione di merci e persone, e verso la creazione delle migliori condizioni per una competizione trasparente tra gli attori economici. Il tema della definizione di un campo di gioco in cui tutti potessero affrontarsi alla pari (levelling the playfield) stava al centro di un programma politico che aveva il suo altro pilastro nella riduzione al minimo degli interventi distorsivi da parte delle autorità pubbliche nazionali (State aid regulations). Per le politiche dell’Unione europea la libera concorrenza era il valore da implementare e tutelare sopra ogni altro, come cardine di un pensiero economico che dava invece per scontate sia la tenuta sociale sia la solidità delle istituzioni democratiche dei paesi membri. Quasi che si potessero dare per acquisite in modo definitivo.
In questi trent’anni la realtà ha preso tuttavia un’altra direzione. All’unione monetaria non hanno fatto seguito altri rilevanti avanzamenti nella costruzione europea. Neppure i benefici attesi sulla competitività del tessuto imprenditoriale si sono manifestati nella misura prevista. La speranza che l’Europa potesse divenire “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”[7], come i governanti europei avevano dichiarato a Lisbona, si è infranta contro gli effetti di una globalizzazione che ha premiato altre aree del mondo. E le conseguenze di un’economia stagnante hanno gettato i semi di uno scontento sociale e di una fragilità politica che in pochi anni avrebbero cominciato a gonfiare le vele del populismo e di un nazionalismo di ritorno.
Quando si è trovata ad affrontare la durissima crisi finanziaria del 2008, l’Unione europea aveva già consumato buona parte del patrimonio di solidarietà e ottimismo che ne aveva accompagnato la nascita e il primo sviluppo. È rivelatore che il processo che avrebbe dovuto portare all’adozione della prima Costituzione europea, a completamento di un percorso in cui l’unione politica avrebbe dovuto integrare e rafforzare l’unione economica, fu avviato agli inizi del nuovo millennio e abbandonato proprio nel 2007, dopo la mancata ratifica di Francia e Paesi Bassi a seguito di referendum popolari. È in questa situazione, dunque anche come risposta a quella crisi e alla constatazione della debolezza del disegno europeista, che con la presidenza Barroso la Commissione europea apre uno spiraglio nel muro compatto delle proprie convinzioni liberiste e promuove la Social Business Initiative (2011)[8]. Considerato il contesto di provenienza, si tratta di una prima e non trascurabile apertura verso modelli economici orientati a valori non riducibili esclusivamente al profitto. Sia pure segnata da alcuni evidenti limiti.
Va ricordato infatti che la reazione europea alla crisi del 2008 fu improntata ad una politica di austerità che mise a dura prova la capacità dei governi di far fronte alla crisi sociale riducendo (ancor di più) l’impegno pubblico nel settore dei servizi sociali. Inizialmente, quindi, il riferimento al social business aveva origine in una visione che vedeva la necessità di promuovere l’intervento di organizzazioni private per rispondere ai bisogni sociali che lo Stato, con i suoi bilanci insufficienti, o non poteva soddisfare o affrontava in modo inefficiente. La logica era simile a quella della politica con cui Cameron negli stessi anni proponeva l’idea della Big Society (2007), ossia l’intenzione di trasferire più potere a cittadini e comunità per affrontare temi sociali senza attendere l’intervento e i mezzi finanziari dello Stato, ma anzi stimolando spiriti imprenditoriali e forze del mercato ad occuparsi di problemi di interesse collettivo, con un ricorso combinato a risorse di imprenditorialità privata e di volontariato civico. La strategia di Cameron, che è stata definita “a mix of conservative communitarianism and libertarian paternalism”[9], ha avuto una breve durata, ed è stata abbandonata dal suo stesso creatore pochi anni dopo il suo lancio.
Quella vicenda non è stata senza conseguenze sull’idea europea della Social Business Initiative. Partita sulla spinta di una visione che puntava a integrare solidarietà sociale e libero mercato, con un chiaro debito nei confronti sia dell’approccio anglosassone alla social entrepreneurship, intesa soprattutto come trasposizione della cultura delle start-up ad ambiti e tematiche sociali, sia delle suggestioni derivanti dal dibattito sulla social innovation – un’espressione passe-partout che in quegli anni veniva spesso utilizzata per indicare la necessità di soddisfare i bisogni sociali con risposte innovative reperibili più facilmente nel settore privato che in quello pubblico – nel corso del successivo decennio la SBI si è gradualmente distanziata dalla sua matrice iniziale. Anche su sollecitazione delle stesse organizzazioni dell’economia sociale, e degli studiosi che ad esse si sono dedicati. I fautori della SBI hanno progressivamente preso atto che la realtà europea poteva contare su una lunga tradizione di organizzazioni e di forme di impresa attive in ambito sociale, non finalizzate primariamente al lucro. Una tradizione, oltretutto, capace nel corso del tempo di rinnovarsi ed ampliarsi fino a generare nuovi modelli come quelli della cooperazione sociale e delle imprese sociali. Dall’originale impostazione, troppo restrittiva rispetto al contesto europeo, si è quindi via via passati ad una versione delle policy europee fondata sul riconoscimento, al di fuori delle imprese convenzionali e delle istituzioni pubbliche, della grande pluralità di esperienze imprenditoriali e non, già operanti nei diversi paesi e delle caratteristiche specifiche maturate nel tempo da parte di questi modelli organizzativi, incluse sotto il temine di “economia sociale”. Questo sviluppo, che ha progressivamente alimentato l’interesse verso le organizzazioni e le forme imprenditoriali diverse dal for profit, inizialmente ristretto ad un novero limitato di soggetti, è avvenuto anche grazie ad una serie di contributi riflessivi voluti dalla Commissione europea, come il progetto di mappatura delle imprese sociali e l’analisi dei risultati raggiunti dalla Social Business Initiative: due progetti che hanno concorso non poco ad un cambiamento di prospettiva[10]. Nonché grazie ai contributi del Comitato economico e sociale europeo (CESE), che in questi anni si è distinto per l’attività di promozione dell’economia sociale attraverso studi e pareri[11], e alle posizioni assunte dal Parlamento europeo in favore dell’economia sociale, specie ad opera dello specifico intergruppo creato su questo tema.
Quindi, nel momento in cui la presidenza von der Leyen si è insediata a Bruxelles, il processo di riconoscimento dell’originalità dell’ecosistema europeo dell’economia sociale era ormai maturo. Ed è su questa base che è stato elaborato l’Action Plan approvato dalla Commissione UE nel novembre 2021[12]. Un testo unanimemente considerato un passaggio di grande importanza nel percorso verso la piena valorizzazione del ruolo dell’economia sociale in Europa. Il piano, infatti, parte dall’assunto che la ricerca di un modello unico, valido in ogni paese e in ogni situazione, non è il metodo da seguire. Proprio in quanto l’economia sociale è una realtà ben radicata, non un auspicio rivolto al futuro, la definizione dei suoi confini deve procedere da una ricognizione dell’esistente. Il perimetro va tracciato prendendo atto del grande pluralismo di forme giuridiche e organizzative che caratterizza i diversi paesi europei. Ecco allora che viene adottata una definizione che ricomprende cinque categorie di enti: cooperative, mutue, associazioni (incluse tutte le organizzazioni non profit), fondazioni e imprese sociali. Per quanto in ogni paese, in relazione al contesto nazionale, le forme giuridiche possano differenziarsi, queste cinque forme hanno in comune il fatto che si tratta di entità private, indipendenti dai poteri pubblici, in cui l’interesse delle persone e le finalità sociali o ambientali prevalgono sulla ricerca del profitto, vincolate a reinvestire la maggior parte dei propri profitti in attività di interesse collettivo o generale, e gestite secondo criteri democratici o comunque partecipativi.
I confini sono precisi e non lasciano spazio ad ibridazioni che renderebbero il concetto inafferrabile, e quindi intrattabile da parte delle politiche pubbliche. Come altrettanto netta è l’affermazione che nell’economia sociale possono convivere sia organizzazioni che si esprimono meglio restando piccole e operando solo a livello locale, sia organizzazioni che hanno invece l’ambizione e la possibilità di riprodursi su scala maggiore. Lo scale up non è il mantra al quale uniformarsi obbligatoriamente, come avveniva quando il modello di riferimento era quello delle start-up tecnologiche. Ed è proprio questo uno dei punti che contraddistinguono maggiormente il Piano d’azione europeo: non forza le organizzazioni dell’economia sociale ad assomigliare ad altro, non impone di uniformarsi ai criteri con cui viene valutato il successo di un business ordinario, non assume la convergenza tra profit e non profit come traguardo da raggiungere. Le caratteristiche specifiche di queste organizzazioni sono comprese e rispettate. Così come anche il contributo che possono portare ad uno sviluppo economico pensato secondo principi di sostenibilità ambientale e sociale. Non è poco, per un settore che fino a un decennio prima era quasi del tutto ignorato dalle politiche europee, orientate prevalentemente verso la rimozione di ogni ostacolo al libero dispiegarsi delle forze di mercato, con scarsa sensibilità per la dimensione sociale dell’azione economica.
Il piano europeo non è solo un atto di indirizzo politico. Il suo contenuto è puntuale e al tempo stesso concreto. Con un notevole salto di qualità rispetto alla frammentazione degli interventi precedenti, prevede molti interventi collegati: lo sviluppo di politiche e cornici giuridiche va di pari passo con il tema del riconoscimento pubblico; il tema dello sviluppo delle competenze “parla” con quello delle iniziative per aumentare l’attrattività dell’economia sociale tra i giovani; il tema dell’accesso della finanza viene declinato in termini di strumenti dedicati che non si esauriscono nella creazione di opportunità solo per gli investitori, ma aprono all’utilizzo combinato di una varietà di risorse (incluse donazioni filantropiche, fondi pensione e fondi di risparmio a finalità sociale).
Che l’Action Plan non sia un episodio isolato lo confermano d’altronde due ulteriori elementi. Il primo è l’impegno assunto dalla Commissione di presentare entro un anno al Consiglio europeo, dunque ai governi dei paesi membri, una specifica Raccomandazione perché il piano venga trasferito anche nelle politiche nazionali. Bruxelles, infatti, può fare molto con gli strumenti e le risorse a sua disposizione – e l’elenco delle azioni programmate è in effetti lungo – ma non potrà mai fare quanto invece è possibile agli Stati membri. Cruciale è quindi che venga accolto l’invito perché i governi nazionali adottino strategie e misure per lo sviluppo dell’economia sociale, in collaborazione con gli attori coinvolti. E a ciò si aggiunge l’impegno ad investire ben più dei 2,5 miliardi di euro della precedente programmazione.
La seconda indicazione dell’impegno eurocomunitario per l’economia sociale emerge invece dal fatto, del tutto inedito, che essa sia stata inserita, in quanto nuovo ecosistema specifico, nell’ambito della Strategia industriale europea. È un settore considerato essenziale non solo ai fini delle politiche sociali ma anche per le strategie industriali della Commissione, al pari degli altri 13 sottosistemi[13] che compongono il quadro delle politiche comunitarie. Una scelta dietro alla quale si può leggere la convinzione che la politica europea, per misurarsi con temi complessi come la transizione ecologica o la (ri)generazione di posti di lavoro dignitosi, non può fare a meno di guardare all’apporto delle organizzazioni che compongono il settore dell’economia sociale. Allo sviluppo della società europea servono attori come le cooperative e le imprese sociali, le mutue e le fondazioni, le associazioni e il variegato mondo del non profit. Soggetti che fino ad un tempo recente erano considerati residuali, e perlopiù confinati entro ambiti dove la marginalità estrema rendeva poco efficiente (se non del tutto fallimentare) l’intervento dello Stato e quello del puro mercato. Un notevole cambio di prospettiva, quindi, da interpretare in linea con il ribaltamento che, durante la crisi esplosa con la pandemia da Covid-19, ha portato le istituzioni UE a reagire con una massiccia risposta a base di debito e tutele pubbliche, anziché con politiche di austerità come era stato nella precedente crisi del 2008.
Il momentum che l’economia sociale sta vivendo non è però un fenomeno soltanto europeo. L’obiettivo di questo numero di Impresa sociale è quello di dare un’idea di quanto sta avvenendo anche in altre regioni del mondo, per scoprire come siano all’opera tendenze e forze simili che possono trarre vantaggio da una conoscenza reciproca. Del resto, le dinamiche alle quali abbiamo sopra accennato – limiti del potere dei mercati, crisi delle identità politiche tradizionali, difficoltà delle istituzioni pubbliche nel rigenerare forme condivise di legittimazione popolare, crisi della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica – sono ormai anch’esse fenomeni totalmente globali, benché assumano forme diverse negli specifici contesti nazionali. E quindi anche le reazioni a queste dinamiche sono necessariamente globalizzate.
Un buon osservatorio da cui guardare a questo movimento è quello delle Nazioni Unite. Infatti, nonostante i ripetuti vaticini sulla situazione moribonda di questa istituzione intergovernativa, giudicata sempre meno adeguata a garantire la sua funzione originaria di mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, l’ONU e le sue agenzie da qualche tempo hanno riconquistato autorevolezza muovendosi nel campo delle strategie per lo sviluppo sostenibile. Un modo di assolvere al proprio ruolo orientato alla moral suasion e dunque più indiretto e meno soggetto a veti e contrasti paralizzanti. L’esempio più eclatante di questa nuova strategia è l’Agenda 2030, deliberata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 2015[14], la cui diffusione ha avuto un seguito senza paragoni rispetto agli scarsi risultati ottenuti dal precedente tentativo di fissare – con i Millenium Development Goals – un programma di sviluppo rivolto al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione mondiale. Tra i motivi del successo del nuovo approccio, con cui l’Organizzazione è riuscita a posizionarsi come riferimento globale per le policy pubbliche e private, è da considerarsi la scelta di orientare i Sustainable Development Goals verso una pluralità di attori diversi, senza insistere unicamente su governi e organizzazioni pubbliche. Proponendosi di fatto non solo come un forum intergovernativo ma anche come piattaforma aperta di elaborazione e scambio, rivolta ad una molteplicità di stakeholder.
Non solo i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 sono stati identificati con un livello di dettaglio molto più preciso a confronto del passato, facilitandone la misurazione, ma la scelta degli indicatori di monitoraggio e valutazione è stata concepita per favorire la partecipazione attiva di una pluralità di soggetti, tra cui anche le organizzazioni economiche e sociali. Queste – a cominciare dalle grandi imprese, impegnate nel proprio riposizionamento sui temi della sostenibilità per sintonizzarsi con il nuovo clima sociale e con il mutamento dei comportamenti di consumo, specie delle giovani generazioni – sono state tra le più pronte ad aprirsi al nuovo linguaggio degli SDG, adottandolo come ossatura dei propri bilanci sociali e delle rendicontazioni non finanziarie. L’alleanza con i soggetti privati ha dato all’Agenda 2030 un’eco che il tradizionale assetto intergovernativo non sarebbe mai riuscito ad ottenere.
Questa premessa è necessaria per inquadrare l’attivismo sul fronte dell’economia sociale di alcune agenzie delle Nazioni unite, ed in particolare dell’International Labour Organisation (ILO). Questa, nell’ambito della famiglia delle agenzie internazionali, è un’organizzazione dalla governance peculiare. Caso unico in ambito ONU, l’ILO è basata su una gestione tripartita in cui sono rappresentati con pari poteri i governi nazionali, le organizzazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni sindacali. Questa configurazione le conferisce una particolare vocazione alle tematiche sociali. E se fino a poco tempo addietro il modo di affrontare la questione sociale era ancora fortemente condizionato da una visione novecentesca, quindi focalizzata sulle imprese di capitale e sul lavoro salariato, più recentemente si sono moltiplicate le aperture nei confronti di altre forme organizzative e altri modelli di pensiero economico. Significativo, in questo senso, il fatto che nel giugno 2022 la 110ª conferenza internazionale ILO (si, è proprio un’organizzazione centenaria…) sia stata chiamata a discutere per la prima volta, con una decisione che la stessa organizzazione definisce storica, il tema “Decent Work and the Social and Solidarity Economy (SSE)”.
Questo titolo richiede un commento. Abbiamo visto infatti come la Commissione europea utilizzi l’espressione “economia sociale” per indicare l’insieme delle organizzazioni: 1) indipendenti dai poteri pubblici, 2) in cui l’interesse delle persone e le finalità sociali o ambientali prevalgono sulla ricerca del profitto, 3) in cui vige il vincolo al reinvestimento della maggior parte dei propri profitti in attività di interesse collettivo o generale, 4) e gestite secondo criteri democratici o comunque partecipativi. Ampliando lo sguardo al di fuori dell’Unione europea è frequente invece che l’economia sociale acquisti un ulteriore aggettivo, divenendo economia sociale e solidale. Questa è appunto la dizione che compare nei documenti dell’ILO e alla quale fanno più spesso riferimento le organizzazioni internazionali. Non è una sfumatura lessicale minore. Tra le due forme linguistiche corre una differenza – a tratti enfatizzata, altre volte appena accennata – che riguarda l’orientamento ad un approccio trasformativo. La questione si può interpretare in questi termini: in contesti in cui l’economia sociale è più “istituzionalizzata”, avendo alle spalle una storia di radicamento ormai consolidato, la componente solidale, che evoca un programma di giustizia sociale, tende a sfumare a favore di una visione meno antagonista rispetto alla realtà politico-istituzionale. Le organizzazioni dell’economia sociale agiscono come attori di un sistema in cui la loro presenza, seppure minoritaria, non è in discussione e il cui il peso economico riduce progressivamente l’aspirazione politica al cambiamento. Per contro, nei paesi in cui è ancora forte la tensione verso la democratizzazione dell’economia e l’affermazione di modelli alternativi di sviluppo economico, l’economia sociale mantiene una forte caratterizzazione “solidale”, nel senso che incorpora una dimensione politica che è strettamente collegata all’azione economica. In questa seconda accezione, prevale una visione che si collega alle dinamiche dei movimenti sociali impegnati in azioni per il cambiamento del sistema politico-economico. Qui l’ambizione a porsi come alternativa rispetto ai modelli dominanti è più marcata e si coniuga con una propensione “associativa” che unisce il piano dell’agire economico a quello dell’agire politico[15]. Il tema della solidarietà non è concepito come moralizzazione del capitalismo bensì come principio di democratizzazione della società risultante da azioni collettive, nella forma di attivazione dei cittadini stessi sulla base di un principio di reciprocità e in funzione di un intervento di superamento delle disuguaglianze. L’accento in questo caso è posto sulla creazione di uno spazio pubblico di azione collettiva dove elaborare nuove risposte ai bisogni sociali e nel quale lavorare per il rafforzamento dei legami sociali.
È interessante osservare, nei testi che qui proponiamo, come nella prospettiva internazionale questi due filoni si intreccino. L’ILO utilizza l’espressione “economia sociale e solidale” non soltanto perché adotta una prospettiva mondiale che deve tenere conto delle varie esperienze locali, in cui appunto si incontrano sia sistemi “integrati” sia sistemi “antagonisti”, ma anche perché in tal modo riesce a mettere in luce come oggi il compito di ripensare i modelli economici, dinanzi alla crisi che scuote l’approccio classico, impone all’economia sociale di recuperare la sua origine solidale ed emancipativa. Non è una posizione isolata. Lo indica ad esempio la recente costituzione (settembre 2021) della International Coalition of the Social and Solidarity Economy (ICSSE)[16], che riunisce alcune organizzazioni che fino a poco tempo fa erano assai più inclini a presidiare gelosamente il proprio territorio, facendosi schermo dietro alla specifica forma giuridica delle entità che rappresentano. Ne fanno parte, infatti, il Global Social Economy Forum (GSEF), il SEE International Forum, la International Cooperative and Mutual Insurance Federation (ICMIF), la International Association of Mutual Benefit Societies (AIM), e l’organizzazione di rappresentanza globale delle cooperative, l’International Cooperative Alliance (ICA). Rappresentanze vecchie e nuove che in precedenza si sarebbero divise lungo l’asse che divide economia sociale ed economia solidale, mentre oggi sono invece unite dall’intento comune di proporsi come modello di azione economica che può sfidare gli attori tradizionali di mercato e le teorie economiche che assegnano il primato alle imprese di capitali.
Non è sorprendente quindi, per concludere queste sintetiche considerazioni sulle tendenze internazionali, che sia in atto una mobilitazione per ottenere una Risoluzione delle Nazioni unite dedicata all’economia sociale e solidale, come leva di sviluppo globale per affrontare le grandi sfide con cui l’umanità è chiamata a misurarsi. Un atto politico in continuità con la strategia ONU per la sostenibilità, che all’individuazione dei principi e degli obiettivi dello sviluppo sostenibile affianca l’individuazione delle forme organizzative e dei soggetti economici che possono maggiormente contribuire al loro raggiungimento. Una mobilitazione – come si è detto – che vede impegnati protagonisti vecchi e nuovi, sia dal lato dell’economia sociale e solidale, sia anche da quello dei governi nazionali. Come indica anche l’Action Plan europeo, il tema è ormai entrato nell’agenda istituzionale. Dal Costa Rica alla Corea del Sud, dalla Spagna alla Francia, sono sempre di più i paesi impegnati a promuovere lo sviluppo dell’economia sociale e solidale: sia con politiche nazionali sia con uno sforzo coordinato a livello internazionale per portare il tema presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Questo sarà l’anno, auspicabimente, in cui si vedranno i risultati di questo impegno.
In Italia l’economia sociale è un tema ancora poco frequentato. Quantomeno nei termini in cui se ne è fin qui parlato, ovvero come perimetro che ricomprende tutte le organizzazioni che hanno in comune le caratteristiche definite dall’Action Plan europeo: entità private, indipendenti dai poteri pubblici, in cui l’interesse delle persone e le finalità sociali o ambientali prevalgono sulla ricerca del profitto, vincolate a reinvestire la maggior parte dei propri profitti in attività di interesse collettivo o generale, e gestite secondo criteri democratici o comunque partecipativi.
In realtà, osservato con le categorie europee, il settore dell’economia sociale italiana non solo nel nostro paese è presente da tempo ma è anche solido e vivace. Il Rapporto[17] pubblicato da Euricse e Istat nel 2021 mostra una realtà in costante crescita e con numeri di tutto rispetto: rispetto al settore privato, l’economia sociale in Italia rappresenta l’8% delle organizzazioni, il 6,7% del valore aggiunto, il 9,1% degli addetti e il 12,7% dei dipendenti. Il peso su valore aggiunto e addetti sale ulteriormente, rispettivamente, al 7,0% e al 9,4% se si includono anche le società di capitali controllate dalle cooperative. Ed in ogni caso nell’85,5% delle organizzazioni la fonte di finanziamento principale è di provenienza privata, mentre nel 14,5% dei casi prevale quella pubblica. Dal rapporto emerge anche che il 41,3% delle realtà dell’economia sociale presenta un orientamento market, ovvero vendono ad altri tutto o gran parte di ciò che producono. Questa componente impiega il 93,9% degli addetti dell’economia sociale e genera circa il 90% del valore aggiunto complessivo. Diversamente, le organizzazioni non market – che offrono gratuitamente beni e servizi prodotti o li vendono ad un prezzo ‘calmierato’ – impiegano meno addetti (il 6,1% del totale), avvalendosi prevalentemente di personale non retribuito (63,8% dei volontari attivi nell’economia sociale), e generando circa il 10,1% del valore aggiunto dell’intero settore. Da notare che il 75,7% delle organizzazioni dell’economia sociale è costituito in forma di associazione, mentre le cooperative rappresentano invece il 15,6% delle unità; tuttavia, le proporzioni si invertono se si considera il peso economico: sono le cooperative a contribuire maggiormente alla formazione del valore aggiunto dell’economia sociale con una quota del 60%, del totale complessivo. Le cooperative sono anche il principale bacino occupazionale dell’economia sociale: impiegano oltre i tre quarti degli addetti complessivi (1,15 milioni di cui 380 mila nelle sociali e 771 mila nelle altre forme)
Questi numeri rendono bene l’idea che all’economia sociale italiana non è un fenomeno marginale né in termini economici né dal punto di vista occupazionale. Il settore ha un peso quantitativo importante, e già questo di per sé dovrebbe essere sufficiente a giustificarne la rilevanza. Che cosa gli impedisce allora di essere riconosciuto come attore di rilievo nello sviluppo del Paese? Perché in Italia, a differenza di quanto avviene ad esempio in Francia, Spagna, e Portogallo[18], l’economia sociale non ha una definizione giuridica che la collochi a pieno diritto come soggetto di interlocuzione delle politiche pubbliche? Perché fatica ad essere considerato una leva imprescindibile delle strategie nazionali?
Un primo motivo si può ricondurre al modo in cui le organizzazioni non riconducibili al modello tradizionale del profit hanno reagito rispetto al rischio di marginalizzazione. A fronte di un frame culturale e politico in cui a dominare erano le forze del mercato o i poteri pubblici, le varie componenti potenzialmente inquadrabili in un ambito di economia sociale hanno adottato strategie di posizionamento divergenti.
Alcune, come le cooperative operanti nei settori tradizionali (dall’agro-alimentare al credito, dall’assicurativo ai servizi all’industria), si sono impegnate soprattutto nel rivendicare la propria natura di impresa, concentrando gli sforzi nello smentire l’opinione che il modello cooperativo dovesse scontare una minore efficienza rispetto alle imprese di capitale. Il movimento cooperativo italiano ha sviluppato un’intensa azione finalizzata ad accreditarsi pubblicamente come soggetto economico solido, resiliente e ad alto impatto occupazionale. Dovendosi al tempo stesso difendere dai ricorrenti tentativi di metterne sotto accusa presunti vantaggi e privilegi derivanti da norme favorevoli. E, oltretutto, dovendo dedicare non poche energie per arginare il fenomeno delle “false cooperative” e relativi danni reputazionali a carico dell’intero sistema. In questo lavoro di posizionamento rispetto alle altre forme di impresa, condizionato spesso da una reazione necessariamente difensiva, uno spazio minore è stato riservato invece alla dimensione dell’impatto sociale. Quello che si sarebbe potuto (e dovuto) reclamare come un elemento distintivo, capace di far percepire con chiarezza la differenza rispetto alle altre forme di impresa, è stato invece lasciato in secondo piano, al punto di sottacere la propria identità di componente fondamentale dell’economia sociale. A lungo il movimento cooperativo non ha visto vantaggi nel dichiararsi appartenente al modello dell’economia sociale, preferendo una maggiore valorizzazione delle caratteristiche che rendevano le cooperative più simili alle imprese tradizionali. Tanto da impiegare del tempo per metabolizzare l’ingresso sulla scena di soggetti – come le imprese sociali – in cui avrebbe dovuto riconoscere un’origine comune e con cui sarebbe stato naturale sviluppare una convergenza. Atteggiamento che solo di recente è mutato, ma senza che per il momento se ne avvertano gli effetti sulle forme della rappresentanza.
Su un altro fronte, le organizzazioni non profit italiane diverse dalle cooperative e dalle imprese sociali (dunque, le organizzazioni di volontariato e il variegato mondo dell’associazionismo) hanno invece scelto di non insistere sulla propria dimensione economica, in quanto considerata puramente strumentale rispetto alla finalità sociale e quindi secondaria nel posizionamento pubblico. L’accento, da parte di queste organizzazioni, è stato posto piuttosto sulla funzione sociale e in particolare sugli aspetti di più evidente gratuità e altruismo, incluso il prevalente ricorso a risorse di volontariato nell’adempimento della propria missione. Questo non profit si identifica soprattutto con la terzietà rispetto a Stato e mercato, intesa come distanza critica rispetto ad entrambi. Così adeguandosi ad una condizione che in via di principio ne confina le attività all’interno delle aree di fallimento lasciate libere dai due attori principali. Salvo, nei fatti, debordare progressivamente da questi limiti auto-imposti in risposta alla crescita quantitativa e alla diversificazione qualitativa dell’area dei bisogni da soddisfare. Il non profit a base associativa ha mantenuto un atteggiamento di sospetto nei confronti della dimensione imprenditoriale, ritenuta suscettibile di inquinamento delle proprie ragioni ideali e dei valori che ne costituiscono il fondamento. Anche a prezzo, talvolta, della rinuncia a mutuare esperienze organizzative e gestionali, e forme di governance, che avrebbero potuto sostenerne la crescita. Benché, nella pratica, il suo raggio di azione si sia venuto sempre più ampliando fino ad includere ambiti molto rilevanti dal punto di vista sia economico sia occupazionale: dall’animazione culturale alla educazione, dalla gestione dei beni comuni alla rivitalizzazione di borghi e aree interne, per non fare che alcuni esempi.
In tal modo, il presidio della sfera dell’economia sociale in Italia è stato demandato quasi solo a imprese e cooperative sociali, con un evidente restringimento di significato rispetto alla tendenza che abbiamo visto all’opera in altri paesi. Conseguentemente, ne ha risentito in negativo la capacità di mettere in discussione il predominio della visione imperniata sul rapporto binario tra Stato e mercato. La frammentazione del campo in tre componenti principali (cooperative e mutue tradizionali, associazioni e organizzazioni non profit, imprese e cooperative sociali), ciascuna delle quali impegnata a difendere i propri confini, non ha aiutato l’affermazione dell’economia sociale come approccio unificante in grado di dare all’intero settore la visibilità e l’autorevolezza che merita. La stessa ricomposizione dentro il concetto di Terzo settore, che il nuovo Codice ha promosso, se per un verso è servita a rafforzare l’identità del settore, favorendone il riconoscimento pubblico, dall’altra ha incluso nel perimetro solo due delle tre componenti (escludendo le cooperative diverse dalle sociali) senza neppure sciogliere del tutto le tensioni tra l’anima più imprenditoriale e quella più associativa. Ne è un esempio la disputa sul tema della fiscalità, che continua a tenere in sospeso il completamento del percorso di riforma intrapreso con l’approvazione del Codice del Terzo settore. Il risultato, certo, è che oggi la consapevolezza dell’importanza del settore è comunque cresciuta, ma non ancora fino al punto di mostrarne fino in fondo la rilevanza come modello alternativo di azione economica e sociale. Le premesse su cui la riforma è nata non sono ancora esplicitate compiutamente. Benché in alcuni suoi passaggi abbia decisamente innovato il modello dei rapporti tra organizzazioni non profit e pubblica amministrazione, aprendo il campo ad un ruolo parimenti centrale nel perseguire finalità di interesse generale, tra principi e pratica c’è ancora una grande distanza da colmare.
Qui s’innesta la seconda considerazione riguardante le motivazioni che ostacolano il riconoscimento dell’economia sociale quale attore di rilievo nello sviluppo del Paese. L’osservazione è che presentandosi divisi i soggetti dell’economia sociale offrono un buon alibi al potere politico per mantenere bassa l’attenzione verso questo mondo. Nonostante la Legge delega per la riforma del Terzo settore (2016) e la successiva approvazione del Codice del Terzo settore (2017) non si può dire, infatti, che sia sostanzialmente mutato il tradizionale atteggiamento improntato a grandi riconoscimenti verbali e scarsa considerazione negli atti politici e amministrativi. Com’è noto, l’innovazione nel rapporto con la pubblica amministrazione – simbolicamente riassunta nell’art. 55 che introduce co-programmazione e coprogettazione – ha dovuto affrontare un’iniziale resistenza che la sentenza 131/2020 della Corte costituzionale ha potuto rimuovere sul piano dei principi, ma certo non delle pratiche. Ma questa è soltanto una delle spie della scarsa attenzione rivolta al settore, come appare chiaro dagli atti di indirizzo ordinari e straordinari dei vari governi che si sono succeduti in questi cinque anni. Di esempi potrebbero esserne citati molti, ma limitiamoci a due casi illuminanti. Da un lato il PNRR: a differenza di altri paesi (Francia e Spagna, per citare due tra i più attivi) la traduzione nazionale del programma Next Generation EU da noi ha relegato il Terzo settore nel recinto delle attività della missione 5 (inclusione e coesione) e non ha riservato neppure una citazione all’economia sociale. Anche le affermazioni secondo cui l’applicazione delle varie misure avrebbe tenuto nel debito conto il contributo del non profit finora non sono state seguite da scelte coerenti. Quando il PNRR menziona tra i propri obiettivi l’equità sociale, la creazione di occupazione, il reskilling dei lavoratori, la necessità di una rete di presidi socio-sanitari territoriali, la strategia di riqualificazione di aree urbane e aree interne, viene da chiedersi: come si pensa di attuare questi obiettivi, senza un robusto coinvolgimento di organizzazioni dell’economia sociale, che su questi temi hanno già dimostrato con i fatti di produrre risultati?
In sostanza, il PNRR è stato un’occasione mancata per dimostrare di credere davvero nei principi affermati con la riforma del Terzo settore. Stessa constatazione emerge, nel secondo esempio, dalla lettura del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021-2023[19], pubblicato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali nello scorso mese di agosto. Anche qui, la citazione del contributo del Terzo settore e degli enti del privato sociale è posticcia. Un tributo da pagare alla correttezza politica ma senza riflessi sulle misure che il piano elenca. L’orientamento delle politiche pubbliche in ambito sociale persevera nel vecchio modello, che ha dimostrato di non funzionare. Un modello al quale è estranea l’idea di lavorare insieme e in cui prevale un approccio secondo il quale è l’autorità pubblica a fissare unilateralmente obiettivi e metodi. Ponendo così le premesse perché si perpetuino le carenze di un sistema che non riesce a integrare le diverse misure e continua ad operare (basti guardare al caso dell’assistenza agli anziani non autosufficienti) con logiche frammentarie e senza una presa in carico unitaria dei problemi, con articolazione degli interventi ed estensione temporale adeguate.
Frammentata, d’altronde, è anche l’impostazione delle competenze ministeriali quando si tratta di non profit, cooperazione ed economia sociale. Tre sono infatti i Ministeri che intervengono in materia: il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sui temi del Terzo settore, il Ministero dello sviluppo economico su quelli delle imprese cooperative, e – novità recente, e ancora in parte indefinita – il Ministero dell’economia e delle finanze per la delega all’economia sociale. A fronte invece delle architetture più lineari e compatte che si possono trovare in altri paesi (ancora una volta, Spagna e Francia si distinguono). La sovrapposizione di responsabilità politiche diverse, unita alla frammentazione delle competenze e delle rappresentanze, sono certamente un fattore che non contribuisce al posizionamento, dell’economia sociale nel quadro delle politiche nazionali. Come del resto non favorisce neppure la sua proiezione in ambienti internazionali. Tornando al quadro presentato nei punti precedenti, rispetto ai processi istituzionali che si stanno svolgendo su scala globale l’economia sociale italiana, benché per dimensioni, storia e contenuti potrebbe giocare un ruolo influente, non ha quasi voce. Le presenze negli organismi consultivi (CESE, GECES), quando capita che vi siano membri italiani, non hanno alle spalle il sostegno coordinato di un sistema istituzionale e di rappresentanza. Le organizzazioni associative investono nelle reti internazionali uno sforzo minimo rispetto a quelle di altri paesi. Ed anche rispetto alle opportunità istituzionali più prestigiose – come quella di essere nel gruppo di paesi che promuove la Risoluzione delle Nazioni unite sul ruolo dell’economia sociale – l’Italia rinuncia ad un ruolo di primo piano perché manca la capacità di focalizzarsi su obiettivi che richiedono il concorso di volontà politica e capacità operativa.
In sé, naturalmente, non importa tanto il fatto che il nostro Paese non riesca ad essere adeguatamente rappresentato sulla scena internazionale quando si tratta di economia sociale, quanto ciò che questa assenza dimostra: ovvero che è un settore poco conosciuto e sostenuto a livello istituzionale. Il suo ruolo è ancora ignoto a troppi, anche (e questo è più grave) tra i decisori pubblici che, dovendo misurarsi con problemi come l’affievolimento della coesione sociale, la gestione della transizione ecologica o la rigenerazione di posti di lavoro dignitosi, avrebbero tutto l’interesse a mettere a frutto il potenziale dell’economia sociale.
Tiriamo in conclusione le fila di questa panoramica, che introduce alla lettura di un numero di Impresa Sociale in cui la molteplicità delle voci è stata composta con lo scopo di dare il senso di un processo globale di nuovo interesse per l’economia sociale. Il momento, come si è argomentato, è favorevole. L’attenzione per l’economia sociale si sovrappone ad una riflessione sul cambiamento di frame politico-economico. Ambienti un tempo distanti e indifferenti si stanno familiarizzando con forme organizzative e valori che ritenevano residuali, e quindi si potevano permettere di ignorare. Ora non è più così e il settore ha acquisito una visibilità e un riconoscimento prima sconosciuti.
Gli attori dell’economia sociale devono dimostrarsi all’altezza di queste aspettative. Compito non facile, considerato che da troppo tempo le organizzazioni che pongono il profitto al servizio delle persone si sono abituate ad un ruolo marginale, adattandosi agli spazi loro concessi. Di conseguenza, esse non sono riuscite a reagire al terremoto che ha alterato il rapporto tra economia, politica e diritto. Il realizzarsi della previsione di Samuelson e Greenspan ha avuto l’effetto di convincerle a ritirarsi su un terreno più circoscritto dove le loro energie fossero più utili e spendibili.
Gli effetti di questo ritirarsi nel fare, nel risolvere problemi locali, nel prendersi in carico i bisogni più immediati e concreti, è stato al tempo stesso elemento di forza e di debolezza dell’economia sociale. Di positivo, c’è il radicamento nella realtà, l’abilità nel leggere tempestivamente i bisogni, la capacità di muoversi sul terreno con concretezza. In negativo, però, la frammentazione prodotta da questa postura auto-conservativa ha impedito di misurarsi con la dimensione sistemica dei problemi, proprio mentre diventava sempre più forte l’esigenza di rimettere in equilibrio il rapporto tra potere economico e potere politico. La rigenerazione di istituzioni comunitarie svigorite, infatti, è un impegno non più rimandabile, e lo sviluppo di percorsi di consapevolezza civica e educazione alla democrazia non è un compito al quale le organizzazioni dell’economia sociale possano sottrarsi.
Che ruolo può svolgere l’economia sociale nella ricostruzione di uno spazio pubblico che affronti la crisi della democrazia? Una crisi indotta dalla credibilità declinante delle istituzioni politiche, da sentimenti di abbandono sociale accresciuti dalla sensazione di una progressiva divaricazione tra élite e popolo, dall’indebolimento del senso di cittadinanza. Per non menzionare che i fattori più ricorrenti.
Senza idealizzare una specifica stagione della vita delle istituzioni democratiche – che ha attraversato fasi diverse, passando dalla età delle ideologie collettive a quella dell’espressività individuale fugacemente interpretata da sempre nuovi movimenti sociali – il tema oggi sembra essere decisamente quello della ricerca di un nuovo tipo di organizzazione del legame sociale che recuperi i valori della comunità senza negare quelli della soggettività. In altre parole, la questione è come percorrere una strada stretta che ci porti a prendere distanza dall’individualismo sociale che ha frammentato la società in tribù senza finire pericolosamente in un comunitarismo identitario in cui prevalgono gli istinti di un arroccamento difensivo. Si tratta di fare criticamente i conti con la teoria delle identità politiche, oggi molto diffusa negli ambienti accademici e intellettuali americani della cancel culture, ma con evidenti influenze su atteggiamenti e posizioni anche a noi vicine. Vale a dire quella teoria secondo cui ogni persona con una specifica identità (etnica, religiosa, sessuale, culturale o ideologica) non potrà mai relazionarsi imparzialmente con una persona di un’altra identità.
Non ci viene in aiuto il tradizionale meccanismo che spiegava la protesta dei movimenti sociali come fase nascente in cui emergono istanze e si creano nuove competenze che vengono poi istituzionalizzate, alimentando il processo della democrazia. La realtà e le dinamiche sono diventate molto più complesse e plurali, e in molti casi i movimenti sociali sono solo delle rappresentazioni frammentarie di singole cause che non hanno la forza di generare mobilitazioni in grado di portare nuova linfa all’interno del circuito istituzionale. Nella politica movimentista agiscono forze centrifughe che premono verso la divisione in fazioni sempre più piccole, ossessionate da una sola tematica e impegnate in una corsa rituale al rialzo ideologico. Di fronte ad una litigiosa famiglia di movimenti sociali senza una visione comune del futuro, il tema della rigenerazione di nuove solidarietà e fedi civili – per salvare le istituzioni liberaldemocratiche dall’”abisso dell’anomia”, riprendendo l’espressione di Durkheim[20] – resta il compito con cui fare i conti. Torna la necessità di rilegittimare l’ordinamento politico come depositario della visione di un bene comune che i cittadini si sentono impegnati a difendere e sviluppare. Questo implica la rigenerazione di un sapere sociale, senza del quale la società civile diventa un’arena selvaggia e brutale.
Qui si inserisce la questione della governance democratica, in chiave non solo giuridico-formale ma innanzitutto culturale e valoriale, quindi intesa come nuovi modelli di partecipazione e coinvolgimento su cui rifondare la vita associata. Qui sta la motivazione da cui emerge la necessità di sottrarre l’economia sociale all’esaltazione del fare e alla tentazione di ritirarsi dinanzi alle condizioni sfavorevoli del dibattito pubblico, che ne hanno spesso condizionato i comportamenti in questi anni, per trarre con più coraggio le conseguenze dalla propria natura in termini di pensiero, di presenza nel dibattito pubblico, di capacità di intervento nella rigenerazione dei fondamenti di una cultura civica. L’economia sociale, mettendo al proprio centro una visione in cui non prevale la ricerca dell’auto-interesse ma lo sviluppo di common, di beni comuni, di interesse generale, può svolgere un ruolo decisivo in questa fase in cui abbiamo bisogno di ripensare il rapporto tra economia e politica senza ricadere nell’unilateralismo di altre stagioni. La riflessione è aperta, le soluzioni non sono ancora scritte.
DOI: 10.7425/IS.2022.01.15
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