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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-1-2022-l-impresa-sociale-dai-concetti-teorici-all-applicazione-a-livello-di-policy

Introduzione

Sull’economia sociale nella dimensione globale

Gianluca Salvatori

L’impresa sociale: dalla teoria alle policy

Giulia Galera, Stefania Chiomento

Dal mondo

Esperienze dal mondo

Redazione

Le cooperative agricole familiari in Brasile

Leandro Pereira Morais, Miguel Juan Bacic

Economia solidale: due esperienze dall'America latina

Maura Viezzoli, Luigi Grando

Innovazione sociale: una via mediterranea?

Dario Carrera, Suheli Chrouda, Rosario Sapienza, Marco Traversi

L’ESS per il lavoro dignitoso nell’Africa subsahariana

Jürgen Schwettmann

In memoria

Ricordando Marco Maiello

Felice Scalvini

Numero 1 / 2022

Introduzione

L’impresa sociale: dai concetti teorici all’applicazione a livello di policy

Giulia Galera, Stefania Chiomento

Si ringraziano Carlo Borzaga, Gianfranco Marocchi, Michela Giovannini e Francesca Petrella per i loro preziosi suggerimenti.

Introduzione

Negli ultimi vent’anni vi è stata una straordinaria crescita dell’interesse nei confronti del variegato insieme di soggetti che sono collocati tra il settore pubblico e quello delle imprese a scopo di lucro. Non solo molti economisti, studiosi di management e sociologi, ma anche scienziati della politica, storici, antropologi e psicologi si sono dedicati allo studio di questo fenomeno, o di alcuni suoi aspetti, contribuendo a illustrarne le determinanti, le potenzialità, i limiti e le dinamiche evolutive da diverse prospettive disciplinari.

Se l’interesse per questo fenomeno variegato è diffuso e crescente, il modo di concettualizzarlo è molto diverso a seconda della prospettiva che si adotta e delle tradizioni culturali prevalenti nei diversi Paesi. Cambia infatti la sfera di riferimento se si vogliono mettere in luce solo le organizzazioni che perseguono finalità di interesse generale, ovvero quelle strutturate come imprese, o ancora le organizzazioni che svolgono una funzione sia economica che politica. E a determinate definizioni teoriche del fenomeno e dei relativi confini, corrispondono diverse traduzioni giuridiche, sia dal punto di vista del riconoscimento o meno dei soggetti appartenenti, sia delle misure per sostenerli.

Nella prospettiva comune nel nostro Paese – accolta in primo luogo dalla Rivista che ospita questo articolo sin dalla sua denominazione – è stata posta particolare attenzione a una specifica dinamica evolutiva: l’impresa sociale. Ed è questo approccio sicuramente uno dei tentativi più fecondi dal punto di vista della ricerca e delle policy che ne sono derivate; ma non l’unico.

Obiettivo di questo articolo è quindi, in primo luogo, quello di mettere a confronto i vari concetti utilizzati per inquadrare diversi aspetti del fenomeno in questione: impresa sociale, economia sociale, economia solidale, economia sociale e solidale, terzo settore; si rifletterà inoltre sul termine innovazione sociale, che è pesantemente entrata nel dibattito su questi temi e nelle policy conseguenti, sebbene non riguardi precipuamente alcune forme organizzative in particolare.

Rispetto a ciascuno di questi concetti, nella prima parte dell’articolo si approfondisce, in prima battuta, la definizione teorica sottostante e, quindi, quali organizzazioni sono da essa incluse e quali escluse; sono quindi richiamati i principali contributi di ricerca sviluppati nell’ambito di ciascuna definizione e gli esiti in termini di ricadute giuridiche, approfondendo, per ciascuno dei concetti analizzati, almeno un caso nazionale. Si tratta di un’analisi talvolta resa più complicata dal fatto che uno stesso concetto può essere declinato dagli studiosi e dalle normative in termini diversi, così che – accade ad esempio al termine “Terzo settore” o al termine “Economia sociale” – taluni tipi di organizzazioni incluse nel perimetro concettuale dagli studiosi siano invece escluse in sede di traduzione normativa.

Nella seconda parte dell’articolo si sviluppano alcuni ragionamenti trasversali che riguardano in particolare la relazione tra concetti teorici e loro traduzione applicativa nei diversi ordinamenti nazionali. Alla fine di questo percorso si propongono alcuni suggerimenti per un’agenda di ricerca che possa essere di maggiore supporto allo sviluppo di policy di riconoscimento e di sostegno.

L’impresa sociale

Il concetto teorico

Ad oggi non esiste una definizione condivisa di impresa sociale a livello internazionale. Tuttavia nei Paesi europei è stata raggiunta un’ampia convergenza definitoria, in particolar modo negli ultimi dieci anni, anche grazie al contributo della Commissione europea, che ha preso le mosse dal concetto di impresa sociale promosso dalla rete internazionale di ricerca EMES[1] già negli anni Novanta. Nella sua versione più recente, il concetto di impresa sociale si articola lungo tre dimensioni: economico-imprenditoriale, sociale e proprietaria/governance. La prima dimensione si riferisce alle caratteristiche che connotano tipicamente qualsiasi iniziativa imprenditoriale: la produzione di beni e/o servizi in forma continuativa e professionale; un elevato grado di autonomia sia nella costituzione che nella gestione; la remunerazione di almeno una parte dei fattori di produzione (capitale e lavoro); e l’utilizzo di risorse non derivanti esclusivamente da donazioni. La dimensione sociale si riferisce alla produzione di un bene o alla realizzazione di un servizio riconosciuto come di interesse generale dalla comunità di riferimento. La terza dimensione, quella che definisce le forme proprietarie e le modalità di governance, presuppone invece che l’impresa sociale sia un’iniziativa collettiva, promossa da un gruppo di cittadini e che gli organi di governo siano aperti alla partecipazione dei diversi portatori di interesse. Infine, per garantire che l’impresa non assuma a proprio obiettivo la ricerca del profitto per i proprietari e l’interesse generale sopravviva nel tempo, quest’ultima dimensione prevede che l’impresa sociale osservi il vincolo della non distribuibilità degli utili o, al più, una distribuibilità limitata e quindi la loro assegnazione ad un fondo indivisibile tra i proprietari sia durante la vita dell’impresa, sia in caso di suo scioglimento (Borzaga, Defourny, 2001; Borzaga, 2009).

In parte in continuità e in parte differenziandosi con i lavori della Rete EMES, sono state elaborate definizioni alternative, più flessibili e aperte. A giustificare questo diverso approccio sarebbe la necessità di cogliere le diverse dinamiche evolutive e la varietà istituzionale delle organizzazioni di natura imprenditoriale che, a seconda dei casi, perseguono in via prioritaria o aggiuntiva finalità sociali.

Le ricerche sull’impresa sociale

A livello di ricerca possiamo individuare almeno due macro-filoni, che analizzeremo nei paragrafi seguenti. Mentre l’assunto di partenza del primo è l’adesione a una definizione comune di impresa sociale, il secondo non prende le mosse da un concetto condiviso.


Le ricerche che prendono le mosse da una definizione condivisa di impresa sociale

A livello europeo, il primo e ancora principale filone di ricerche sul tema dell’impresa sociale è quello promosso da EMES. Prendendo le mosse dal lavoro di ricerca riportato nel volume del 2001 a cura di Borzaga e Defourny (2001), sono stati condotti molti altri studi su temi correlati, che spaziano dalla co-produzione dei servizi di welfare da parte delle imprese sociali (Pestoff, 2006; Pestoff, 2009; Pestoff et al., 2012) fino alla governance multistakeholder e inclusiva che connota queste imprese (Borzaga, Mittone, 1997; Borzaga, Sacchetti, 2015; Birchall, Sacchetti, 2017), così come una serie di ricerche empiriche sugli ambiti specifici di intervento delle imprese sociali, tra cui l’inserimento lavorativo (ad esempio il progetto PERSE – The socio-economic performance of social enterprises in the field of work-integration, 2001-2004) e i servizi all’infanzia (ad esempio il progetto TSFEPS – Changing Family Structures and Social Policy: Childcare Services as Sources of Social Cohesion, 2001-2004). Non essendoci qui spazio per soffermarsi su questi lavori di ricerca, ci limitiamo a sottolineare come gli studi promossi da questo filone riconoscano all’impresa sociale il ruolo di produttrice di un’ampia gamma di servizi di welfare o di interesse generale, grazie ad una serie di caratteristiche precipue, che spiegano il suo valore aggiunto nel disegnare risposte efficaci a una pluralità di bisogni.

Partendo da una definizione comune, le ricerche riconducibili a questo approccio hanno innanzitutto permesso di riconoscere la ricca varietà istituzionale attraverso cui l’impresa sociale si esprime nei diversi Paesi, a seconda delle tradizioni, dei sistemi giuridici e dei contesti istituzionali. Tra i meriti di questo filone di ricerche vi è inoltre l’aver chiaramente tracciato un confine tra le imprese sociali e le imprese di capitali, distinzione che ha facilitato l’adozione di politiche di supporto coerenti a livello europeo e di singoli Paesi membri.


Le ricerche sui modelli di impresa sociale che non assumono una definizione precisa o teorica

Il secondo filone ricomprende numerosi lavori di ricerca realizzati da diversi studiosi o gruppi di ricercatori. Tra questi, rientrano le analisi realizzate da alcuni studiosi americani, tra cui Janelle Kerlin e Dennis Young. La prima va richiamata per aver insistito sul ruolo ricoperto dalle istituzioni, presenti (o assenti) in uno specifico contesto, e nel determinare i modelli di impresa sociale sviluppatisi nelle diverse aree geografiche (vedi il Macro-Institutional Social Enterprise (MISE) framework delineato in Kerlin, 2017); il secondo per aver messo in luce la varietà delle organizzazioni di natura imprenditoriale che combinano la generazione d’impatto sociale con quella del profitto, da cui la metafora dello “zoo” (Social Enterprise Zoo) utilizzata da Young e i colleghi Searing e Brewer (2016) per descrivere le diverse applicazioni del concetto di impresa sociale. Rientrano in questo filone anche diverse ricerche a livello europeo come SELUSI (Social Entrepreneurs as ‘Lead Users’ for Service Innovation, 2008-2013)[2] e SEFORIS (Social Enterprise as Force for more Inclusive and Innovative Societies, 2014-2017), che fanno riferimento a definizioni di impresa sociale “a maglie larghe”, maggiormente aperte e flessibili rispetto alla definizione di EMES.

Un ulteriore esempio di questo filone è il progetto internazionale ICSEM (International Comparative Social Enterprise Models, 2013-2019),[3] coordinato da due dei fondatori della rete EMES, Jacques Defourny e Marthe Nyssens, sui modelli di impresa sociale e i loro processi di istituzionalizzazione, contraddistintosi per l’ampia copertura geografica, che include l’Europa, gli Stati Uniti, ma anche l’America Latina, l’Asia, l’Australia e alcuni paesi del Medio Oriente. ICSEM, che ha coinvolto 230 ricercatori (inclusi quelli della rete medesima), non si riferisce ad una definizione vincolante di impresa sociale, bensì ad un “ideal-tipo” al fine di mettere in luce le profonde differenze di natura istituzionale e socioeconomica sussistenti tra Paesi e regioni del mondo. L’ideal-tipo proposto, che coincide con la definizione EMES (Borzaga, Defourny, 2001), non è utilizzato per includere o escludere, bensì per individuare la pluralità di istituzioni che nei diversi contesti combinano lo svolgimento di attività di natura imprenditoriale con il perseguimento di finalità sociali, non importa se in via prioritaria e strumentale, ovvero a latere del perseguimento del profitto (Defourny, Nyssens, 2021).

Ciò che accomuna queste analisi è, quindi, la scelta di non tracciare a priori i confini tra le organizzazioni che possono essere definite imprese sociali e le organizzazioni che non lo sono, lasciando ai singoli ricercatori coinvolti la libertà di decidere quali organizzazioni includere nel novero dell’impresa sociale, a seconda del contesto analizzato e dello scopo specifico della ricerca. Mentre, da un lato, questo approccio tende per sua natura a catturare una pluralità di dinamiche imprenditoriali innovative, dall’altro, l’adozione di una definizione aperta o flessibile porta a ricomprendere tra i modelli di impresa sociale anche imprese che nell’esercizio delle loro attività economiche perseguono l’obiettivo prioritario del profitto, oltre ad una o più finalità di interesse generale, come ad esempio le imprese a vocazione sociale.[4] È tuttavia importante sottolineare come, pur partendo da presupposti metodologici differenti, l’approccio promosso da ICSEM abbia portato a risultati simili al primo filone di ricerca quanto a individuazione di caratteristiche condivise dalle organizzazioni denominate imprese sociali e a dinamiche evolutive. Questo in quei Paesi europei dove l’impresa sociale è stata riconosciuta attraverso interventi normativi e di policy finalizzati a sostenerne lo sviluppo, come l’Italia e la Francia (Fraisse et al., 2016; Borzaga et al., 2017).

Nel complesso, i lavori di ricerca afferenti a questo filone presentano potenzialmente un forte limite: ricomprendendo insieme organizzazioni con caratteristiche molto diverse tra loro, stentano ad avere un impatto di policy rilevante, in particolar modo laddove le differenze tra i modelli delle organizzazioni definite imprese sociali sono molto accentuate. La mancanza di una chiara definizione di impresa sociale condivisa ostacola inoltre la comparazione tra Paesi, al di là della valutazione degli aspetti che accomunano e differenziano i contesti analizzati.

L’applicazione del concetto di impresa sociale

L’approccio promosso dalla rete EMES è stato fatto proprio dall’OECD già negli anni ‘90 (OECD, 1999), dalla Commissione Europea attraverso la Social Business Initiative (SBI) lanciata nel 2011 e, quindi, dallo studio della Commissione europea sull’impresa sociale e i suoi ecosistemi in Europa (nel 2014, 2016 e 2020[5]), da cui hanno preso le mosse anche nove policy review finora realizzate dall’OECD per sostenere lo sviluppo dell’impresa sociale.[6]

A livello applicativo, questo primo filone ha quindi avuto un impatto importante in termini di policy a partire soprattutto dal 2001, avendo incoraggiato molti paesi europei a introdurre politiche e legislazioni ispirate alla definizione SBI, che riconoscono e sostengono lo sviluppo dell’impresa sociale. Ripercorrendo l’evoluzione normativa, se la decade 1991-2001[7] è stata segnata dall’introduzione di nuove leggi che hanno adattato la forma cooperativa per permetterle di servire i non soci e/o consentire l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, dal 2001,[8] un numero crescente di Paesi ha optato per l’introduzione dello status di impresa sociale per quella varietà di organizzazioni impegnate in un ampio spettro di ambiti di interesse generale, mentre più recentemente, si registra la tendenza a riconoscere l’impresa sociale attraverso leggi quadro rivolte a un fenomeno più ampio. Per quanto concerne le iniziative di policy, se prima del lancio dell’SBI si contavano solo due iniziative di policy a livello nazionale, volte a sostenere l’impresa sociale e fenomeni correlati nel Regno Unito e in Croazia,[9] a partire dal 2011 si assiste ad un’accelerazione con più di 20 iniziative di supporto adottate fino ad oggi dai Paesi membri dell’UE.

Tuttavia, focalizzandosi specificamente sull’impresa sociale, questo approccio si è rivelato alquanto restrittivo in quei contesti contraddistinti da uno scarso sviluppo, riconoscimento e valorizzazione della società civile organizzata. Questo è il caso, ad esempio, di alcuni Paesi dell’Europa orientale e centrale, dove il focus sull’impresa sociale – e non su un più ampio e diversificato insieme di organizzazioni come l’economia sociale o il terzo settore – ha portato a riconoscere la qualifica di impresa sociale ex lege solo con riferimento ad alcune tipologie organizzative tipicamente utilizzate dalle imprese tradizionali, a scapito di quelle forme che affondano le radici nella cooperazione o nelle imprese finalizzate a inserire persone disabili.[10]

L’analisi dell’ecosistema delle imprese sociali in Europa (European Commission, 2020a) mette in luce le difficoltà che i policy maker incontrano sistematicamente quando si trovano ad applicare il concetto di impresa sociale promosso dall’SBI. Emerge in particolar modo la difficoltà a individuare sul campo le diverse tipologie di organizzazioni riconducibili alla definizione di impresa sociale; tra queste, sia le organizzazioni di recente costituzione, sia le iniziative tradizionali che affondano le radici nella storia dei diversi Paesi.

Diversamente dal primo filone, che si è affermato diffusamente nei Paesi europei, l’approccio favorevole a definizioni di impresa sociale più flessibili e aperte ha trovato maggiore applicazione negli Stati Uniti, dove sono state adottate ben 35 leggi sulle benefit corporation, che regolamentano una tipologia di impresa a vocazione sociale. Le leggi introdotte prevedono che allo scopo lucrativo sia affiancato quello di generare un’utilità sociale; a differenza delle imprese sociali, così come definite dal primo filone, le benefit corporation si fanno carico di problemi di carattere ambientale o, più raramente, sociale, senza sottostare tuttavia a vincoli stringenti, che le porterebbero a modificare radicalmente la propria struttura proprietaria e gli obiettivi perseguiti.

Sulla scia dell’esperienza statunitense, la società benefit ha trovato applicazione anche in Italia con la legge sulle società benefit (n.208/2015) che è stata incorporata nella legge di stabilità del 2016. Chiarendo la natura delle società benefit,[11] questa legge ha il merito di aver contribuito a tracciare un confine chiaro in Italia tra le imprese sociali e le imprese ad impatto sociale.

La legge italiana sull’impresa sociale

Prendendo le mosse dalla legge 381/1991 sulle cooperative sociali, che ha pionieristicamente riconosciuto la prima forma d’impresa sociale in Italia attraverso un adattamento della forma cooperativa, il decreto legislativo 155/2006 sull’impresa sociale allarga sia i soggetti intitolati a svolgere attività di impresa sociale, sia i settori di intervento. La logica sottesa al decreto legislativo 155/2006 è in sostanza consentire a soggetti diversi dalle cooperative sociali di svolgere un’attività imprenditoriale finalizzata al perseguimento di un’esplicita finalità sociale, adottando quindi per l’impresa sociale una definizione di fatto coincidente con quella di EMES. Il legislatore ha quindi optato per una qualifica che può essere assunta da una pluralità di enti che esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività. Tra questi soggetti rientrano le diverse forme cooperative (cooperative di consumo, cooperative agricole, cooperative di produzione lavoro), così come gli enti associativi, fondazionali e le società di capitali. Non possono invece acquisire la qualifica di impresa sociale le società costituite da un unico socio persona fisica, le amministrazioni pubbliche e gli enti i cui atti costitutivi limitino l’erogazione di beni e servizi ai soli soci o associati.

Malgrado le attese, la legge del 2006 non ebbe significativi effetti pratici: un regime vincolistico molto stringente e l’assenza di favor normativa hanno determinato il sostanziale disinteresse verso l’assunzione di questa qualifica. Nel 2017, nell’ambito dell’approvazione degli atti applicativi della Riforma del Terzo settore, sono pertanto state introdotte significative modifiche.

Rispetto agli ambiti di intervento, il legislatore ha ampliato il perimetro: gli 11 settori di interesse generale elencati dalla legge 155/2006 sono stati estesi ulteriormente dal d.lgs. 112/2017, che ha altresì superato alcune disposizioni eccessivamente restrittive, consentendo, sul modello di quanto previsto per le società cooperative, una limitata distribuzione degli utili e allo stesso tempo la non tassabilità degli utili girati a riserva. La nuova legge offre inoltre nuove opportunità di sviluppo dell’impresa sociale (Fici, 2017), aumentandone l’attrattività: come per le start up innovative è prevista la detrazione d’imposta (per le persone fisiche) o la deduzione dal reddito (per le società e gli altri enti giuridici) del trenta per cento delle somme investite nel capitale sociale di un’impresa sociale in forma societaria (anche cooperativa). Purtroppo tale misura fiscale non è ancora (ad oggi) operativa e non è detto che lo diventi mai.

L’economia sociale

Il concetto teorico

Come concetto, l’economia sociale ha origine nel XIX secolo[12] ed è utilizzato fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando il termine inizia invece a cadere in disuso. Ritorna in auge in Francia negli anni ‘70, nel momento in cui le cooperative, le mutue e le associazioni decidono di creare la National Liaison Committee for Mutual, Cooperative and Associative Activities (CNLAMCA). Da allora in poi il concetto inizia a essere utilizzato in diversi contesti nazionali e internazionali, acquisendo tuttavia rilevante visibilità solo negli ultimi 20 anni, non appena inizia a crescere la consapevolezza dei limiti del duopolio stato-mercato.

Tradizionalmente l’economia sociale ricomprende le organizzazioni non a scopo di lucro che sono mosse nel loro agire da principi quali la preminenza delle persone sul capitale, l’adesione volontaria e aperta, la governance democratica, la solidarietà e l’autonomia e indipendenza dalle autorità pubbliche. Come concetto, l’economia sociale è stata sviluppata per avvicinare le associazioni al vasto universo delle cooperative e delle mutue, per includervi solo successivamente le fondazioni.[13] Ricomprende, quindi, un ampio e diversificato spettro di organizzazioni che abbraccia, da un lato, iniziative di natura imprenditoriale e non; dall’altro, organizzazioni nate per promuovere gli interessi dei propri soci e organizzazioni che perseguono finalità di interesse generale.

La ricerca sull’economia sociale

Il concetto di economia sociale è stato analizzato in primis dai ricercatori che fanno capo alla rete CIRIEC (International Centre of Research and Information on the Public, Social and Cooperative Economy), che da oltre 55 anni svolge un’attività di ricerca e d’informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa,[14] ed è stato veicolato dalla rivista Revue des Etudes Cooperatives, Mutualistes et Associatives (RECMA).

Inizialmente focalizzati su cooperative e mutue, i lavori di ricerca di CIRIEC International hanno ben presto allargato l’oggetto di studio fino a ricomprendere altre importanti componenti dell’economia sociale: le associazioni e le fondazioni (Monzon et al., 2007). È però soprattutto grazie al supporto del CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo) e relativi report tematici[15] (2008, 2012 e 2017) che l’economia sociale acquisisce ampia visibilità a livello europeo.

Rispetto all’impresa sociale, l’approccio dell’economia sociale è maggiormente inclusivo; tra i suoi meriti vi è sicuramente l’aver messo in luce i principi che accomunano le organizzazioni appartenenti. La definizione di un perimetro condiviso è stato un presupposto utile a misurarne alcuni aspetti quantitativi come la numerosità, il fatturato e l’impatto occupazionale. E la quantificazione dell’economia sociale ha certamente permesso di accrescerne la visibilità a livello europeo, in particolare negli Stati Membri dell’Unione Europea (si veda nota 17).

Un aspetto di debolezza è la tendenza di questo approccio a non riconoscere, o comunque a trascurare almeno fino a tempi recenti, la specificità dell’impresa sociale, aspetto che ha favorito il riconoscimento dell’economia sociale come settore, ma non ha incoraggiato il disegno di politiche differenziate in funzione del grado di responsabilità sociale assunto dalle diverse tipologie organizzative che vi appartengono.

L’applicazione del concetto di economia sociale

Il concetto di economia sociale ha assunto rilevanza soprattutto in quei Paesi, dove l’economia sociale vanta una tradizione di proficua interazione tra le sue diverse componenti (associazioni, cooperative e mutue), come la Francia il Belgio, il Québec e anche la Spagna (European Commission, 2013). Come vedremo, ha invece attecchito meno nei Paesi contraddistinti da una maggiore divisione tra le diverse tipologie di organizzazioni non a scopo di lucro, tra cui ad esempio l’Italia.

A livello nazionale, l’economia sociale ha accresciuto visibilità innanzitutto grazie all’adozione di leggi quadro di riconoscimento “simbolico”: nel 2011 in Spagna, come approfondito nel paragrafo successivo, e nel 2013 in Portogallo. Entrambe le leggi rimandano tuttavia ad altre normative specialistiche la disciplina delle caratteristiche organizzative delle entità ricomprese, incluso il trattamento fiscale. Diverso, invece, è il caso della Romania (2015) e della Slovacchia (2018) che hanno più recentemente introdotto leggi quadro sull’economia sociale che disciplinano anche il funzionamento delle imprese sociali.

A livello europeo il concetto è stato fatto proprio dal Comitato Economico e Sociale Europeo che, già a partire dagli anni ‘70, si è fatto promotore di una serie di conferenze per riunire associazioni insieme a cooperative e mutue, e che più di recente ha pubblicato numerosi relazioni e pareri sul contributo dell’economia sociale al raggiungimento di diversi obiettivi di politica pubblica. In seno al Parlamento Europeo, un intergruppo sull’economia sociale è operativo dal 1990. Nel 2009, sotto la sua guida il Parlamento Europeo ha adottato un report che riconosce l’economia sociale come partner sociale per la realizzazione degli obiettivi della strategia di Lisbona (conosciuto come Rapporto Toia). Nel 2017, invece, l’intergruppo ha richiesto alla Commissione Europea di implementare un Action Plan per l’economia sociale, il cui lancio è avvenuto lo scorso dicembre (2021).

La legge spagnola sull’economia sociale del 2011

In Spagna, il processo di istituzionalizzazione dell’economia sociale è iniziato negli anni Novanta ed è culminato con l’adozione della legge 5 del 2011 sull’economia sociale, introdotta con l’obiettivo di dare un riconoscimento giuridico e una maggiore visibilità a tutte quelle attività economiche e commerciali svolte da entità che perseguono l’interesse dei loro membri o l’interesse generale, o entrambi. La legge non si sostituisce alle regolamentazioni organizzative specifiche ma, per l’appunto, raggruppa queste diverse entità sotto un unico concetto. In linea con il concetto teorico, i principi a cui le entità dell’economia sociale si ispirano includono: il primato delle persone e dello scopo sociale sul capitale; una gestione autonoma e trasparente, democratica e partecipativa; una distribuzione degli utili in funzione del lavoro e dei servizi svolti dai soci e dell’obiettivo sociale dell’ente; l’impegno per la solidarietà interna ed esterna, lo sviluppo locale, la coesione sociale e la sostenibilità; l’indipendenza dalle autorità pubbliche.

All’articolo 5 la legge individua le entità della economia sociale, tra cui ricomprende quelle “tradizionali” – le cooperative, le mutue, le fondazioni e le associazioni che svolgono attività economiche – a cui aggiunge quelle create da specifici regolamenti – le società di lavoro, le società di inserimento, i centri speciali di occupazione – e quelle risultanti da specifiche circostanze storiche – come le corporazioni di pescatori e le società di trasformazione agricola. L’impresa sociale non viene espressamente menzionata tra le entità dell’economia sociale; tuttavia, viene tra queste ricompresa dal momento in cui la legge apre anche a “tutte quelle imprese la cui attività economica si basa sui principi precedentemente esposti”. Questo trova conferma in una risoluzione del Parlamento spagnolo che stabilisce come la legge 5/2011 rappresenti il riferimento giuridico per le imprese sociali, in assenza di una legge quadro specificamente dedicata a loro (European Commission, 2020b). Sotto la definizione di economia sociale rientrano quindi sia le organizzazioni che perseguono un obiettivo mutualistico, sia quelle volte a promuovere l’interesse generale.

La legge spagnola riconosce l’importanza di sostenere lo sviluppo e la diffusione degli enti dell’economia sociale e delle loro organizzazioni di rappresentanza e incoraggia le autorità pubbliche a promuoverne la crescita attraverso una serie di azioni, che non vengono però specificate. Il suo fondamento logico rimane quindi esclusivamente quello del riconoscimento formale e simbolico di questo settore.

Rispetto al perimetro di delimitazione dell’economia sociale, la definizione spagnola è più restrittiva, essendo la natura imprenditoriale considerata conditio sine qua non di appartenenza al settore.

L’economia solidale

Il concetto teorico

Il concetto teorico di economia solidale ricomprende sotto il suo cappello diverse iniziative di solidarietà, sia formali che informali. Di origine latinoamericana, il termine economia solidale si riferisce a quelle organizzazioni liberamente fondate da gruppi di persone che decidono di sviluppare insieme nuove attività economiche e creare opportunità di lavoro, facendo assegnamento sulla cooperazione, la solidarietà e la reciprocità (Gaiger, 1999; Giovannini, 2020). Il concetto nasce sia in contrapposizione alle moderne forme di filantropia solidale (Yunus, 2007; Laville et al., 2015,) e ai tentativi di “moralizzazione” del capitalismo incentrati sull’imprenditore individuale (Laville et al., 2017), sia in alternativa all’approccio istituzionalizzato dell’economia sociale e alla sua assunzione di logiche tipiche delle imprese capitalistiche. Include tutte quelle iniziative militanti, anche non istituzionalizzate, che sono ancorate al territorio e strutturate per favorire l’empowerment di gruppi svantaggiati attraverso l’autogestione; esclude invece i grandi gruppi cooperativi che hanno perso i contatti con la propria base sociale e hanno abbracciato modelli e strumenti di management tipici delle imprese tradizionali. Oltre alla gestione democratica e partecipata – insita anche nei concetti di economia sociale e impresa sociale – l’economia solidale presuppone esplicitamente la piena autonomia (da cui l’autogestione) e l’assunzione di una funzione politica volta a risollevare comunità e gruppi sociali normalmente esclusi dalla vita pubblica, oppure a sostenere modelli di sviluppo, consumo e produzione etici, alternativi e locali. Di qui l’attenzione ad attività come il recupero di produzioni marginali e tradizionali e la ricomprensione nel novero dell’economia solidale anche di organizzazioni e gruppi che si occupano di coltivazioni biologiche, di valorizzazione di colture tradizionali o di turismo di comunità.

La ricerca sull’economia solidale

In questo filone sono stati soprattutto gli studiosi latinoamericani e alcuni colleghi francesi ad aver fatto scuola; il concetto ha quindi assunto maggiore visibilità grazie all’ascesa di numerose organizzazioni anti-neoliberiste, consolidatesi sulla scia del primo World Social Forum del 2001 (Ruiz-Rivera, Lemaitre, 2021). Diversamente dagli altri approcci di ricerca richiamati in questa sede, il merito dell’economia solidale è quello di aver messo in luce il carattere trasformativo delle organizzazioni appartenenti, riconducibile alla duplice dimensione economica e politica. Gli studiosi di economia solidale mettono sostanzialmente in discussione le fondamenta del sistema neoliberista e guardano alle pratiche innovative emergenti – come i Social Impact Bonds e le B-Corp, alla stregua di strumenti funzionali al modello predominante neoliberista (Laville, 2010; Ruggeri, 2014).

Tra gli aspetti di debolezza vi è a tutt’oggi la forte regionalizzazione del concetto, che continua a essere utilizzato nella sua accezione originaria per lo più in America Latina e la sua difficile applicazione nel contesto europeo. Rileva infine, come nel caso dell’economia sociale, la tendenza a non distinguere chiaramente le organizzazioni con finalità solidaristiche dalle organizzazioni mutualistiche, che rende quindi difficile la traduzione del concetto in misure di policy.

L’applicazione del concetto di economia solidale

Il concetto ha trovato applicazione in America Latina e in alcuni territori circoscritti.[16] Due esempi di Paesi latinoamericani, dove il concetto ha trovato applicazione a livello istituzionale sono l’Ecuador e la Bolivia. Nel caso boliviano, l’economia solidale (denominata economia comunitaria) è addirittura riconosciuta a livello costituzionale. La Costituzione del 2009 introduce il concetto di “economia plurale”, comprensiva di quattro tipologie di organizzazioni: le organizzazioni pubbliche; le imprese private; le imprese cooperative e l’economia comunitaria, che ricomprende le forme di produzione tipiche dei popoli indigeni e in generale delle comunità rurali. Nel caso ecuadoregno, che sarà trattato più approfonditamente nel paragrafo seguente, è la Legge organica dell’economia popolare e solidale e del settore finanziario popolare e solidale del 2011 a definire il concetto di economia popolare e solidale e a introdurre una serie di misure di supporto.

La legge sull’economia solidale e popolare in Ecuador 

La legge ecuadoregna del 2011 (LOEPS 2011[17] – Legge organica dell’economia popolare e solidale e del settore finanziario popolare e solidale) definisce l’economia popolare e solidale come il variegato insieme di organizzazioni di natura economica i cui soci organizzano e sviluppano, individualmente o collettivamente, processi di produzione, scambio, commercializzazione, finanziamento e consumo di beni e servizi finalizzati a soddisfare i propri bisogni e generare reddito, sulla base di relazioni di solidarietà, cooperazione e reciprocità, privilegiando il lavoro e il rispetto dell’essere umano, nonché il “Buon vivir” in armonia con la natura, rispetto al profitto e all’accumulazione del capitale (LOEPS, 2011, art. 1). A questo riguardo, è importante sottolineare come la costituzione dell’Ecuador del 2008 sia la prima al mondo a riconoscere i diritti della natura e il suo ruolo non più strumentale al raggiungimento del benessere umano (Becker, 2011; Ruiz-Rivera, Lemaitre, 2021).

La filosofia della LOEPS conferma l’abbandono della logica liberista a favore di una solidale nell’azione dei pubblici poteri (Oleas, 2016); questo cambio di prospettiva si è tradotto nell’avvio di un processo di costruzione istituzionale che riconosca l’economia solidale da un punto di vista normativo, e ne sostenga lo sviluppo attraverso politiche mirate. Sono state a questo scopo istituite specifiche agenzie statali per il coordinamento, la promozione, il controllo e il finanziamento delle iniziative di economia solidale. Nell’intento di ridurre i livelli di povertà, gli attuali programmi governativi favoriscono l’istituzionalizzazione e il rafforzamento della dimensione economica delle organizzazioni dell’economia solidale. A questo scopo, i programmi attuati dall’LOEPS sono pensati per agevolare l’accesso ai mercati e ai mezzi di produzione (ad esempio, asset e capitale circolante) delle varie iniziative di economia solidale (Ruiz-Rivera, 2021).

La legge ecuadoregna fa, pertanto, proprio il concetto di economia solidale proposto dalla letteratura, prevedendo interventi mirati di institutional building a favore delle organizzazioni informali, che sono finalizzati a rafforzarne le capacità di intervento. Questa misura, che riconosce quindi la capacità insita nella società civile di intercettare nuove sfide e auto-organizzarsi per affrontarle, si rivolge tuttavia solo alle organizzazioni di natura economica, che realizzano attività di produzione di beni o servizi.

L’economia sociale e solidale

Il concetto teorico

A differenza dei concetti analizzati in questa sede, quello di economia sociale e solidale non è di origine accademica. È stato introdotto più recentemente nel tentativo di abbracciare una diversità di approcci e integrare le pratiche dell’economia sociale con quelle dell’economia solidale e con le iniziative di impresa sociale.

Questo approccio, per sua natura maggiormente inclusivo, è stato fatto proprio da numerose organizzazioni internazionali governative e non governative, tra cui RIPESS (Intercontinental network for the promotion of social solidarity economy), ILO, UNRISD (United Nations Research Institute for Social Development), UNTFSSE (Inter-Agency Task Force on Social and Solidarity Economy) e OECD. Quanto a caratteristiche costitutive, il concetto di economia sociale e solidale si sovrappone sostanzialmente a quello di economia sociale. La definizione abbraccia sia le organizzazioni che perseguono espressamente finalità di interesse generale, sia quelle volte a promuovere gli interessi dei propri soci, così come le iniziative di natura imprenditoriale e quelle non produttive.

Tuttavia, ad eccezione di UNTFSSE, le definizioni elaborate dagli organismi internazionali tendono a escludere le iniziative informali, che rappresentano invece una componente imprescindibile dell’economia solidale.

La ricerca sull’economia sociale e solidale

Il concetto di economia sociale e solidale è stato recentemente analizzato da numerosi studiosi in varie parti del mondo. Diversamente dalla definizione fatta propria dagli organismi internazionali, nella maggior parte dei lavori di ricerca sul tema prevale un’accezione tendenzialmente inclusiva non solo delle tradizionali famiglie dell’economia sociale (cooperative, mutue, associazioni e fondazioni), ma anche delle più recenti iniziative di natura imprenditoriale a finalità sociali, delle esperienze di volontariato e dei gruppi informali (Utting, 2015).[18]

È utile sottolineare come numerosi studi sull’economia sociale e solidale contestino, a livello sia concettuale che empirico, l’uso delle classiche categorie economiche (Laville, 2015). Si sono inoltre moltiplicate negli ultimi anni le iniziative di ricerca sul contributo dell’economia sociale e solidale nell’affrontare le sfide globali, come la trasformazione del lavoro, la crisi economica, l’aumento delle disuguaglianze, i cambiamenti climatici e più recentemente la crisi pandemica. Tra i lavori di ricerca sull’economia sociale e solidale si ricordano quelli promossi dall’Istituto delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sociale UNRISD, in particolar modo a partire dal 2012, nell’intento sia di comprendere quali caratteristiche debba presentare un ambiente istituzionale favorevole allo sviluppo dell’economia sociale e solidale, sia di accrescere la visibilità dell’economia sociale e solidale in seno ai dibattiti all’interno del sistema delle Nazioni Unite.

Al tema del futuro del lavoro si è dedicato anche lo studio pubblicato dall’ILO (Borzaga et al., 2017) che ha messo in luce come le organizzazioni dell’economia sociale e solidale possano contribuire a creare e preservare l’occupazione nei settori tradizionali e a regolamentare l’occupazione nei settori emergenti, garantendo maggiore sicurezza. Lo studio ha inoltre sottolineato come queste organizzazioni possano promuovere lavoro dignitoso, offrendo impieghi stabili e di qualità, facilitando l’occupazione femminile, integrando lavoratori svantaggiati e favorendo la transizione dall’occupazione informale a quella formale.

L’applicazione del concetto di economia sociale e solidale 

Il concetto di economia sociale e solidale è stato fatto proprio da alcune recenti normative quadro, che riconoscono espressamente l’impresa sociale all’interno di un più ampio fenomeno – denominato appunto economia sociale e solidale – senza tuttavia includere, anche in questi casi, le iniziative informali, che sono invece ricomprese nel concetto di economia solidale affermatosi a livello accademico.

In Bulgaria il concetto è stato riconosciuto dall’Atto 240/2018 sulle imprese dell’economia sociale e solidale che disciplina il funzionamento di due diverse tipologie di imprese sociali, mentre in Grecia è la legge 4430/2016 ad aver riconosciuto l’economia sociale e solidale e, al suo interno, l’impresa sociale.

Il concetto di economia sociale e solidale sta affermandosi sempre più a livello internazionale anche grazie ad una più proficua collaborazione tra organizzazioni di rappresentanza delle diverse “famiglie” dell’economia sociale e solidale. Su iniziativa di International Cooperative Alliance (ICA), Global Social Economy Forum (GSEF), SSE International Forum (SSEIF), Association Internationale de la Mutualité (AIM) e International Cooperative and Mutual Insurance Federation (ICMIF), lo scorso autunno si è costituita la International Coalition of the Social Solidarity Economy (ICSSE).[19] L’ICSSE riunisce associazioni, cooperative, fondazioni, imprese sociali, mutue e autorità locali e territoriali con l’obiettivo di promuovere l’economia sociale e solidale e aumentare il suo profilo a livello internazionale, insistendo sul suo potenziale per il raggiungimento dei Sustainable Development Goals.[20]

La legge francese sull’economia sociale e solidale del 2014 

A partire dagli anni 2000, la Francia ha iniziato a riferirsi al concetto di economia sociale e solidale a seguito di un compromesso tra due differenti tradizioni: quella dell’economia sociale e quella dell’economia solidale. La prima affonda le radici nella storia del Paese, dove è emersa nel corso del XIX secolo ed è stata riconosciuta nominalmente nel 1980 dalla Carta dell’Economia Sociale e l’anno successivo ufficialmente attraverso la creazione di una delegazione interministeriale per l’economia sociale, collocata all’interno della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La seconda si è fatta strada verso la fine degli anni ‘80 come reazione critica, specialmente a livello locale, all’istituzionalizzazione dell’economia sociale e alla sua tendenza all’isomorfismo di mercato: questa seconda tradizione è stata abbracciata da quegli attori che volevano riappropriarsi della capacità trasformativa, che ha storicamente connotato le iniziative di economia sociale all’inizio del loro percorso di sviluppo (European Commission, 2020c).

Il perimetro dell’economia sociale e solidale è ben delineato dalla legge del 2014, che dà una base giuridica al concetto. L’economia sociale ricomprende quindi sia gli enti tradizionali dell’economia sociale – associazioni, cooperative, mutue e fondazioni – sia le imprese commerciali che perseguono un obiettivo di utilità sociale e che soddisfano le condizioni dell’articolo 1 della legge (Bidet, Richez-Battesti, 2021). Il legislatore francese ha quindi posizionato l’impresa sociale dentro i confini dell’economia sociale e solidale, riconoscendola come una specifica dinamica interna. A questo proposito, la legge del 2014 ha introdotto la qualifica di impresa solidale di utilità sociale (entreprise solidaire d’utilité sociale – ESUS), che può essere acquisita da tutte quelle organizzazioni che, indipendentemente dalla loro forma giuridica, svolgono un’attività economica con l’obiettivo di generare utilità sociale[21] e rispettano una serie di requisiti, tra cui una governance democratica, una distribuzione parziale degli utili, un asset lock, una politica salariale equa. È interessante notare come la definizione di ESUS rispecchi in larga misura quella di impresa sociale adottata dalla Commissione Europea a partire dalla Social Business Initiative del 2011.

Questa legge però non si limita a riconoscere l’economia sociale e solidale alla stregua di una modalità innovativa di rispondere a una serie di bisogni. Introduce, infatti, anche alcuni strumenti specifici volti a promuoverne lo sviluppo. Tra questi, alcune misure di supporto volte a consolidare le reti degli attori dell’economia sociale e solidale così da rafforzarne la legittimità nel dibattito pubblico; strumenti per facilitare l’accesso ai finanziamenti e agli appalti pubblici, così come incentivi per agevolare l’acquisizione della proprietà delle imprese da parte dei lavoratori al fine di preservare i posti di lavoro, e misure per introdurre alcune modifiche a due forme cooperative, la coopérative d’activité et d’emploi (CAE) e la société coopérative d’intérêt collectif (SCIC).

Il concetto di economia sociale e solidale fatto proprio dal legislatore francese è sovrapponibile a quello sviluppato da alcune organizzazioni internazionali (tra cui RIPESS e ILO). Definendo l’economia sociale e solidale precipuamente come un modo di fare impresa (mode d’entreprendre), non necessariamente in senso commerciale, il legislatore francese ricomprende entro il suo perimetro tutte quelle organizzazioni che svolgono attività strumentali al raggiungimento del proprio scopo sociale.[22] A questo proposito, da un punto di vista statistico, l’universo dell’economia sociale e solidale è fatto coincidere con l’insieme delle organizzazioni (associazioni, cooperative, mutue, ESUS, ecc.) che hanno almeno un dipendente remunerato. Sono invece escluse dal perimetro dell’economia sociale e solidale le iniziative informali.

Il terzo settore

Il concetto teorico 

Come concetto quello di terzo settore ha origine nei paesi anglosassoni; rispetto alle altre nozioni analizzate si distingue per la neutralità e per l’intento dei ricercatori che si sono avvalsi di questo approccio di superare le differenze e specificità nazionali e favorire la comparazione tra Paesi. Il concetto di terzo settore è solitamente legato all’osservazione del vincolo totale o parziale nella distribuzione degli utili, che contraddistingue le organizzazioni appartenenti. Sebbene agli esordi la sua sfera di riferimento riguardasse principalmente gli enti con finalità non imprenditoriali, ovvero le associazioni, le associazioni di volontariato e le fondazioni, negli anni il concetto ha ricompreso la società civile in tutte le sue forme, incluse quindi le cooperative, le organizzazioni comunitarie, le organizzazioni di auto-aiuto e di mutuo supporto, così come altre manifestazioni della società civile a livello globale e locale. Tra questi, i movimenti sociali, le reti formali e informali e i forum sociali, i sindacati, le organizzazioni religiose, le cooperative, le pratiche di filantropia e il volontariato. Ricomprende quindi organizzazioni strutturate come imprese e non, che perseguono l’interesse dei soci o della collettività e che operano in una pluralità di settori.

Tra le caratteristiche condivise dalle organizzazioni di terzo settore vi è l’autonomia e il coinvolgimento di volontari sia a livello di governo che nella gestione delle attività.

Le ricerche sul terzo settore 

La principale e più strutturata rete di ricerca sul terzo settore è l’International Society for Third-Sector Research (ISTR),[23] un’associazione internazionale fondata nel 1992 per promuovere lo sviluppo della ricerca e dell’educazione sul terzo settore a livello internazionale. Dalla sua costituzione, l’ISTR si è adoperata per avanzare la conoscenza del terzo settore e di aspetti correlati, inclusi quelli di policy. Particolare attenzione viene riservata alla rete dei suoi ricercatori, che mira a diventare il più estesa possibile.

Da un punto di vista concettuale, a livello internazionale prevale una certa convergenza nella definizione del perimetro del terzo settore. La definizione elaborata dall’ISTR è infatti sovrapponibile a quella adottata dal Third Sector Research Centre (TSRC),[24] un centro di ricerca presso l’università di Birmingham, nato grazie ad un finanziamento dell’Ufficio del Terzo Settore del governo inglese. Negli anni, questo centro di ricerca è diventato un punto di riferimento importante nella ricerca sul terzo settore nel Regno Unito e al di fuori dei suoi confini, conducendo studi in ambiti diversi, tra cui il ruolo dei gruppi informali, le determinanti del terzo settore, la quantificazione delle organizzazioni appartenenti al terzo settore e i rapporti con gli enti pubblici.

Numerosi sono inoltre i progetti di ricerca a livello europeo che si focalizzano sul terzo settore; tra questi ricordiamo il progetto di ricerca Third Sector Impact (TSI),[25] realizzato nel periodo 2014-2016. Oltre ad analizzare la dimensione, l’impatto e le barriere del settore, propone una definizione europea di terzo settore che abbraccia le organizzazioni private autonome e indipendenti, formali e informali, che nello svolgimento delle loro funzioni sono vincolate alla distribuzione degli utili, totalmente o parzialmente. In base a questa definizione, rientrano quindi nel terzo settore le associazioni e le fondazioni private, le cooperative con un marcato scopo solidaristico e strutturate come organizzazioni nonprofit, le mutue e le imprese sociali, e le attività di volontariato a beneficio della collettività, ma sono escluse le cooperative che sono libere di distribuire i propri utili (Salamon, Sokolowski, 2016).

Sebbene l’approccio di ricerca del terzo settore sia stato originariamente sviluppato per essere adottato in maniera estesa, esso ha trovato applicazione soprattutto in alcuni contesti geografici. È attualmente utilizzato diffusamente nel Regno Unito e in Italia.

L’applicazione del concetto di terzo settore

Il concetto di terzo settore è stato fatto proprio dal legislatore italiano ed è ampiamente utilizzato dai policy maker nel Regno Unito e in Galles. La sua diffusione nel Regno Unito è legata all’esistenza fino dal 2010 dell’Ufficio governativo del Terzo settore. Dopo un periodo infelice, nel 2020 il concetto di terzo settore riacquisisce influenza grazie ad un’iniziativa di legge, ancora nelle fasi iniziali di dibattito, volta ad istituire un organismo che valuti i benefici e l’efficacia delle organizzazioni del terzo settore e le sostenga.

È inoltre utile ricordare che nel 2014 il governo gallese ha introdotto un’ampia misura di supporto per il terzo settore,[26] volta a rafforzare le relazioni tra i suoi attori e il governo gallese, e sostenere le comunità, i volontari e le varie infrastrutture impegnate a favore del settore. A tal fine, le caratteristiche che le organizzazioni di terzo settore devono ricoprire includono: l’indipendenza e il carattere non-governativo; l’istituzione volontaria da parte di gruppi di persone che si auto-organizzano; un obiettivo di natura sociale, culturale o ambientale, piuttosto che il profitto; il reinvestimento delle proprie eccedenze per perseguire gli obiettivi sociali e a beneficio delle persone e delle comunità del Galles.

La riforma italiana del terzo settore

In Italia il terzo settore è stato riconosciuto giuridicamente nel 2016 con l’approvazione della Legge 106/2016, che ne ha definito i confini e le regole di funzionamento. Avvalendosi di questo concetto, il legislatore italiano ha aggregato e regolamentato le organizzazioni (denominate Enti del Terzo Settore – ETS) che, senza fini di profitto, “perseguono l’interesse generale”, escludendo quindi quelle organizzazioni, come le cooperative e le mutue, che perseguono finalità prettamente mutualistiche, salvo che esse assumano la qualifica di impresa sociale adottando quindi finalità, vincoli sulla distribuzione degli utili e modelli di governance coerenti con la definizione di terzo settore (cfr. Decreto Legislativo 117/2017 – Codice del Terzo settore, e d.lgs. 112/2017 sull’impresa sociale).

Si tratta di un ampio spettro di tipologie di organizzazioni, che vanno dalle piccole organizzazioni, alle reti nazionali, dalle cooperative sociali agli enti filantropici, cui viene data un’identità comune. La riforma si rivolge più precisamente ad associazioni, fondazioni o altri enti di carattere privato, che svolgono una o più attività di interesse generale (un elenco di 26 aree di intervento centrali per la vita delle comunità) in forma di azione volontaria, di mutuo sostegno, o di produzione o scambio di beni o servizi, accomunati dall’iscrizione al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS) e che perseguono finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale senza scopo di lucro. Tra gli enti ricompresi vi è quindi anche l’impresa sociale.

La definizione adottata dal legislatore italiano esclude le organizzazioni imprenditoriali non a scopo di lucro che perseguono finalità mutualistiche, come appunto le cooperative tradizionali, oltre alle associazioni professionali e di categoria. Sono viceversa ricomprese dal 117/2017 le associazioni mutualistiche di natura “non economica”; di fatto le associazioni APS sono numericamente la parte più rilevante del terzo settore e molte di queste (pensiamo ai circoli ARCI o ACLI, per fare un esempio) sono associazioni di persone che si aggregano per un interesse condiviso nei settori di interesse generale.[27]

Rispetto alla definizione originaria di terzo settore, quella fatta propria dal legislatore italiano è più restrittiva, sebbene in linea con la letteratura più recente che esclude dalla definizione le cooperative non strutturate come organizzazioni nonprofit (Salamon, Sokolowski, 2016; e il progetto Third Sector Impact).

L’innovazione sociale

Il concetto teorico 

Nonostante il crescente interesse da parte della ricerca, non esiste una definizione condivisa di innovazione sociale e il termine finisce spesso per essere usato “come una sorta di metafora nell’ambito dei mutamenti sociali e tecnologici” (Howaldt, Schwarz, 2010; Busacca, 2013). Se l’impresa sociale, così come definita a livello europeo dalle legislazioni nazionali e dalla SBI, si riferisce ad una istituzione con alcune caratteristiche specifiche, l’innovazione sociale abbraccia invece un ampio spettro di pratiche, che non richiedono necessariamente la presenza di un’impresa. Possono ricomprendere processi produttivi, modelli di servizio, prodotti, fino alla creazione di nuove istituzioni o leggi. L’innovazione sociale può, quindi, essere notoriamente promossa da una pluralità di attori: istituzioni pubbliche o private, organizzate o meno in forma di impresa, con o senza finalità di profitto, così come da gruppi informali, come è stato per la cooperazione sociale all’inizio del suo sviluppo (Borzaga, 2013).

La ricerca sull’innovazione sociale 

Il tema dell’innovazione sociale è stato in questi anni molto dibattuto dal punto di vista scientifico (Gallouj, Djellal, 2010; Nicholls, Murdock, 2012; Moulaert et al., 2013; Ayob et al., 2016; Pinto et al., 2021, solo per citare alcuni dei tanti esempi); l’enfasi su questo tema ha portato tra l’altro in taluni casi a identificare il concetto di impresa sociale con quello di innovazione sociale, come emerge ad esempio dal progetto europeo BENISI (Building a European Network of Incubators for Social innovation, 2013-2016).[28] E quest’idea è presente anche nella stessa definizione dell’SBI che, nell’interpretare il concetto di impresa sociale, richiama ripetutamente il concetto di innovazione sociale.

Quella dell’impresa sociale che è per antonomasia innovativa è una semplificazione che va spesso a braccetto con le narrazioni personalistiche incentrate sulla dimensione dell’eccellenza e sul mito dell’imprenditore individuale innovatore (Austin et al., 2006; Bornstein, 2007; Martin, Osberg, 2007; Short et al., 2009; Zahra et al., 2009; Dacin et al., 2011; Waldron et al., 2016), che distolgono l’attenzione dal contesto istituzionale e ambientale (Petrella, Richez-Battesti, 2014; Barbera, 2021; Galera, Baglioni, 2021).

Se è innegabile che molte imprese sociali siano in pima linea nel disegnare innovativi modelli di servizio, prodotti e strategie, è altrettanto evidente che non tutte le imprese sociali possano essere, né sia auspicabile che siano, innovative. Allo stesso tempo, come ben evidenziato dagli studiosi del tema, l’innovazione sociale può abbracciare pratiche molto diverse. Si tratta, in altre parole, di concetti che si pongono su piani distinti: l’impresa sociale (e le altre categorie qui richiamate come economia sociale e economia solidale) individua un certo tipo di organizzazioni; l’innovazione sociale si riferisce al risultato di un’azione di cui più soggetti possono farsi portatori. Ciò che è stato a oggi trascurato dalla letteratura, intenta a riflettere su come dare risposta ad un ampio spettro di bisogni, è la relazione sussistente tra i due concetti: impresa sociale e innovazione sociale.

Come emerso da alcune riflessioni, a generare impatto sociale a livello di sistema è infatti soprattutto la capacità di replicare modelli di servizio, prodotti e strategie rivelatisi innovativi (Mulgan, 2013). E a questo riguardo, l’impresa sociale può nascere, prosperare e svolgere pienamente la propria funzione sociale anche semplicemente riproponendo servizi e modelli produttivi e organizzativi già collaudati da altre imprese, se in questo modo risponde ad una domanda insoddisfatta (Borzaga, 2013).

Di qui l’importanza di creare un contesto istituzionale favorevole allo sviluppo e replicazione di modelli e strategie innovative su ampia scala, di cui le imprese sociali si sono dimostrate essere efficaci promotrici. A prescindere dai risultati – più o meno rilevanti e originali dal punto di vista delle diverse discipline (che spaziano dal management, geografia economica, sociologia, antropologia) – molte ricerche sul tema dell’innovazione sociale, sovrapponendo senza ragione i due concetti, non hanno aiutato a chiarire i confini e il ruolo dell’impresa sociale con conseguenze spesso controverse in termini di policy.

L’applicazione del concetto di innovazione sociale

A livello di policy il concetto ha trovato applicazione negli Stati Uniti, Inghilterra, Nuova Zelanda, Canada e Europa dove sono state avviate politiche di sostegno e incentivazione di iniziative di innovazione sociale (Busacca, 2013) e riveste un ruolo centrale in numerosi documenti strategici delle istituzioni europee, quale dimensione fondamentale per sostenere lo sviluppo sociale ed economico. Ci si sofferma qui sul caso del Portogallo, dove il governo ha promosso un’iniziativa ad hoc volta a sostenere lo sviluppo dell’innovazione sociale e a stimolare la diffusione di investimenti ad impatto sociale, che a detta di alcuni osservatori hanno accresciuto la labilità dei confini tra innovazione sociale e impresa sociale (Haarich et al., 2020), contribuendo ad aumentare la confusione concettuale.

L’iniziativa pilota Portugal-Social Innovation 

L’iniziativa pilota Portugal-Social Innovation, promossa dal governo portoghese grazie a fondi europei e coordinata dal Portugal Social Innovation Mission Unit,[29] ha creato 16 incubatori per l’innovazione sociale in diverse parti del Paese. L’obiettivo è sostenere lo sviluppo di iniziative di innovazione sociale e di imprenditorialità sociale e creare un mercato degli investimenti sociali finalizzati a risolvere un ampio spettro di problemi sociali. A questo scopo, il progetto mira a mobilizzare fondi privati di fondazioni e grandi multinazionali. All’interno di questa prospettiva, se da un lato l’iniziativa pilota è considerata una leva fondamentale nello sviluppo del mercato portoghese degli investimenti sociali, dall’altra è criticata per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, perché, spostando l’attenzione dall’economia sociale e dall’impresa sociale verso l’innovazione sociale, ha contribuito ad accrescere la confusione concettuale (Haarich et al., 2020). Dall’altra, perché in mancanza di altri programmi di supporto, ha alimentato la competizione tra soggetti in prima linea nello sviluppo di innovazioni sociali e ha altresì aumentato la dipendenza delle organizzazioni dell’economia sociale dalle linee di finanziamento sull’innovazione sociale, trasformando l’innovazione sociale non in un approccio inedito, ma piuttosto “nell’approccio di riferimento” per eccellenza e nella conditio sine qua non per poter ottenere risorse finanziare (Pinto et al., 2021). Questa circostanza ha, in altre parole, forzato l’applicazione di un concetto riferito per antonomasia a pratiche originali e ha, di conseguenza, fortemente condizionato l’evoluzione dell’ecosistema dell’economia sociale in Portogallo.

Per concludere, sebbene una valutazione sull’efficacia dell’iniziativa portoghese sia al momento prematura, in linea con quanto elaborato da una parte della letteratura, il concetto di innovazione sociale sembra aver avuto un impatto controverso sullo sviluppo dell’impresa sociale in Portogallo; il che rende quanto mai fondamentale valutarne l’impatto nel medio periodo e analizzare la relazione tra impresa sociale e innovazione sociale in maniera approfondita.

Dalla concettualizzazione all’applicazione

Gli elementi costitutivi dei diversi concetti

Il concetto che ha radici storiche più profonde è certamente quello di economia sociale; ricomprende storicamente un universo variegato di organizzazioni di natura imprenditoriale e non, a scopo mutualistico e con finalità di interesse generale, operanti in diversi settori economici, secondo logiche differenti da quelle dell’impresa di capitali. Tra le sue caratteristiche, vi sono in primis l’assenza di uno scopo di lucro e la strumentalità dell’attività economica eventualmente realizzata, la reciprocità, la gestione democratica e il vincolo della distribuzione parziale di utili.

Tra tutti i concetti analizzati, l’economia sociale e solidale, sovrapponibile quanto a caratteristiche costitutive all’economia sociale, è il concetto maggiormente inclusivo, perché ricomprende oltre all’economia sociale, l’impresa sociale, espressamente riconosciuta quale dinamica evolutiva trasversale alle diverse organizzazioni appartenenti, e le iniziative dell’economia solidale.

Affondando le sue radici nell’economia popolare, nelle iniziative comunitarie e nei movimenti sociali, l’economia solidale include uno spettro ampissimo di organizzazioni – istituzionalizzate e non – che spaziano dalle cooperative, mutue, associazioni, altri enti nonprofit, imprese sociali, fino a includere gruppi informali, GAS e imprese che operano in aree marginali. Le organizzazioni ricomprese nell’economia solidale svolgono una funzione economica, che può a seconda dei casi essere orientata alla promozione di finalità di interesse generale, oppure essere finalizzata a promuovere gli interessi dei propri soci. La mancata attenzione da parte di questo approccio teorico alla distribuzione degli utili, sia durante la vita delle organizzazioni che in caso di scioglimento, è contemperata dalla forte dimensione inclusiva, che si sostanzia nel coinvolgimento dei diversi portatori di interesse e in una gestione rigorosamente democratica dei processi decisionali. La dimensione partecipativa insita nell’economia solidale è rafforzata infatti dalla sua funzione politica; un elemento costitutivo non considerato dagli altri concetti, che si traduce nell’impegno a sovvertire i paradigmi dominanti quando sono lesivi dei diritti delle persone più fragili.

Quello più ristretto è il concetto di impresa sociale; oltre al già richiamato prerequisito della natura imprenditoriale, prevede che le organizzazioni ricomprese sotto il suo cappello perseguano un obiettivo esplicitamente sociale, operino solo in particolari settori e siano contraddistinte da una governance inclusiva. La dimensione solidaristica – intesa sia come attività, sia come perseguimento dell’interesse generale – che connota le imprese sociali, esclude giocoforza una componente importante dell’economia sociale: le cooperative tradizionali, tra cui quelle di utenza e di consumo che nascono per minimizzare i costi di intermediazione, ridurre i prezzi di vendita al dettaglio e garantire la qualità dei prodotti, e quelle di lavoro, che sono invece create per procurare lavoro alle migliori condizioni possibili per i propri soci-lavoratori.

L’ultimo concetto analizzato, riferibile al vasto insieme di organizzazioni collocate tra il settore pubblico e le imprese a scopo di lucro, è quello di terzo settore, sviluppato originariamente per superare le differenze nazionali, che nella sua più ampia accezione ricomprende un ampio spettro di organizzazioni non a scopo di lucro, di natura imprenditoriale e non, orientate a promuovere gli interessi dei propri soci ovvero della comunità, che possono essere contraddistinte da un diverso grado di inclusività.

Spostando l’attenzione dalle organizzazioni non a scopo di lucro a quello dell’innovazione sociale, l’elemento caratterizzante è l’impatto sociale generato e, quindi, la sua misurazione. Si tratta infatti di un concetto entrato con grande enfasi nel discorso e nelle politiche pubbliche del mondo occidentale, senza tuttavia che vi sia ancora chiarezza su quali siano le pratiche ricomprese e i soggetti attivatori.

La Tabella 1 declina i diversi concetti in funzione di alcune caratteristiche costitutive, ne definisce il perimetro di delimitazione e fornisce alcune informazioni circa l’origine dei diversi concetti e i gruppi di ricerca che di quel particolare approccio si sono fatti portatori.

Tabella 1. Elementi costitutivi dei diversi concetti. Fonte: Elaborazione delle autrici.
* Ci si riferisce ad attività di impresa che devono essere strumentali al perseguimento dello scopo sociale.

L’applicazione dei diversi concetti

Passando dalla teoria alla traduzione dei concetti a livello di policy, emerge la forte specificità dei contesti nazionali, che riflette le già richiamate diverse culture giuridiche, tradizioni organizzative, scelte strategiche e preferenze concettuali dei decisori politici nazionali.

Se il concetto di economia sociale si è affermato soprattutto nei Paesi francofoni (Francia, Belgio, Québec), per poi attecchire in Spagna ed evolvere, a seguito dell’integrazione con il concetto di economia solidale di origine latinoamericana, in quello di economia sociale e solidale, il termine terzo settore si è diffuso per lo più nel mondo anglofono, in particolar modo nel Regno Unito e in Italia.

Rileva tuttavia come i singoli Paesi abbiano interpretato i concetti teorici in maniera diversa e come gli obiettivi perseguiti dagli atti normativi spazino dal riconoscimento simbolico (Spagna), fino alla disciplina del funzionamento delle organizzazioni appartenenti, all’attribuzione di trattamenti fiscali particolari, o ad altre misure di supporto (Ecuador, Francia e Italia). Venendo ai perimetri delle diverse normative nazionali, in linea con il concetto teorico, la Francia adotta una definizione molto ampia di economia sociale e solidale, comprensiva sia delle famiglie tradizionali dell’economia sociale, così come delle nuove tipologie di impresa sociale che si riconoscono nella qualifica di ESUS.

Similmente, l’Italia colloca l’impresa sociale entro un fenomeno più ampio: quello del terzo settore, che include tutte le organizzazioni che perseguono finalità di interesse generale. Il concetto di terzo settore fatto proprio dal legislatore italiano, in linea con gli sviluppi più recenti della letteratura, esclude le cooperative tradizionali, salvo che esse scelgano di acquisire la qualifica di impresa sociale.

Alla stessa stregua, la Spagna restringe il perimetro delle organizzazioni appartenenti all’economia sociale, che raggruppa sotto il suo cappello solamente le “imprese dell’economia sociale”, ovvero quelle organizzazioni che sono contraddistinte da una natura imprenditoriale, escludendo quindi tutte le organizzazioni non produttive.

Anche nel caso ecuadoregno, la legge ricomprende entro l’economia solidale e popolare esclusivamente le iniziative di natura economica, che realizzano attività di produzione di beni e/o servizi. Tuttavia, prendendo le mosse dall’esigenza di sostenere lo sviluppo delle piccole iniziative imprenditoriali e dei gruppi informali, che sono incoraggiati a formalizzarsi per ottenere i benefici di legge, la legge ecuadoregna ricomprende anche le così dette “unità economiche popolari”, ovvero le unità familiari o individuali, come gli artigiani e le persone dedite al lavoro di cura.

Infine, coerentemente con il concetto teorico di innovazione sociale, l’iniziativa portoghese si rivolge ad un ampio spettro di forme organizzative, incluse le imprese sociali e le organizzazioni appartenenti all’economia sociale, così come le imprese commerciali private, le istituzioni pubbliche e i partenariati tra enti pubblici, privati for profit e dell’economia sociale.

È importante sottolineare come la traduzione giuridica dei concetti adottati nei diversi Paesi sia sovente un compromesso tra due tendenze contrapposte: da un lato, l’inclinazione dei ricercatori a favorire un approccio inclusivo, perché in grado di cogliere le connessioni tra fenomeni distanti, e dall’altro, quella dei giuristi, chiamati invece a delimitare i perimetri per giustificare il favor legis. Se il disegno delle politiche “di settore” (es. a sostegno delle energie rinnovabili) appare un’operazione “neutra”, fare politiche basate sulle specificità dei soggetti normati (ad esempio a favore dell’impresa sociale o del terzo settore) è molto più delicato, perché i fondamenti del favor devono essere argomentati in modo solido, soprattutto in Europa dati i vicoli al finanziamento pubblico e alle modalità di concessione.

La tensione tra concetti teorici e atti normativi cresce in intensità con l’aumentare in particolar modo della complessità del fenomeno che si intende disciplinare e in funzione della finalità della misura in oggetto. Più l’insieme di organizzazioni da sostenere o normare è variegato, nel senso che ricomprende organizzazioni con caratteristiche costitutive diverse, più è complicato elaborare politiche diverse da quelle settoriali, ad eccezione delle iniziative di riconoscimento simbolico volte a rafforzare l’identità delle organizzazioni ricomprese, come il caso della Spagna ci mostra. La tensione aumenta inevitabilmente quando l’iniziativa ambisce ad andare al di là di un’azione simbolica, prevedendo l’attribuzione di benefici fiscali, come la detassazione degli utili ed avanzi di gestione, oppure l’assegnazione di misure di sostegno mirate. Onde evitare che la misura sia considerata alla stregua di un favor ingiustificato, l’unica strada percorribile è l’individuazione dei soggetti beneficiari in virtù di connotati specifici. Quindi, ben venga il posizionamento dell’impresa sociale all’interno di concetti più ampi (come l’economia sociale e solidale o il terzo settore), in grado di rafforzare l’identità e la visibilità delle organizzazioni collocate tra il settore pubblico e quello privato a scopo di lucro, ma solo a patto che si individuino gli elementi distintivi delle diverse componenti. Questo al fine di incoraggiare il disegno di politiche differenziate, coerenti con il grado di responsabilità sociale assunto dalle diverse tipologie organizzative. A questo riguardo, alla luce delle importanti sfide di natura ambientale che ci troviamo di fronte, sarebbe opportuno che la dimensione sociale venisse scorporata da quella ambientale: l’impegno a preservare l’ambiente dovrebbe in altre parole diventare una dimensione imprescindibile, trasversale a tutte le organizzazioni.

Tabella 2. Applicazione dei concetti in una selezione di Paesi. Fonte: Elaborazione delle autrici.

Per un’agenda di ricerca più incisiva da un punto di vista di policy

Nonostante l’attrattività come tema di ricerca, l’impresa sociale non ha acquisito la dovuta visibilità nelle politiche, ad eccezione delle iniziative di policy dedicate, che si sono invece moltiplicate in maniera esponenziale negli ultimi anni, sia a livello europeo, che nazionale.

L’impresa sociale e l’economia sociale sono, quando va bene, menzionate come parte del settore privato, ma le loro specificità stentano ancora ad essere riconosciute appieno. Tra gli esempi di azioni e misure europee che confermano il debole allineamento e la scarsa coerenza delle politiche europee con l’impresa sociale vi è lo European Green Deal che sottostima fortemente il contributo dell’impresa sociale alla transizione ecologica, nonostante l’impegno crescente a favore dell’ambiente, del paesaggio e a supporto di un modello di produzione e consumo a basso impatto ambientale (Haarich et al, 2020).

Stessa cosa può dirsi per molti Paesi membri dell’UE, dove l’impresa sociale, così come i fenomeni affini brevemente analizzati in questo articolo, continuano a essere poco considerati anche a causa della difficoltà dei policy maker di comprenderne la specificità, il ruolo e il potenziale.

La confusione e la polarizzazione è più marcata nei Paesi dove i confini dell’impresa sociale non sono stati ben delineati, come ad esempio il già discusso Portogallo, mentre è meno rilevante in quelli dove è stato fatto uno sforzo definitorio anche grazie alla ricerca (Haarich et al, 2020) e ad interventi normativi. È questo il caso ad esempio della Francia, dove l’impresa sociale – nelle sue diverse forme – è “collocata” all’interno dell’economia sociale e solidale ed è ben distinta dalle cosiddette imprese a vocazione sociale, denominate entreprises à mission, che sono state regolamentate dalla “Pact Loi” del 2019 sullo sviluppo e la trasformazione delle imprese.[30]

A livello europeo, a partire dal 2019/2020 si osserva un lieve aumento del grado di coerenza nei nuovi documenti promossi, cresciuto recentemente grazie all’Action Plan europeo licenziato a dicembre 2021,[31] che fa ben sperare per il futuro. Il Social Economy Action Plan descrive, infatti, l’economia sociale come un laboratorio sociale, il cui potenziale è ancora lontano dall’essere pienamente valorizzato.

Ai fini della nostra analisi, è inoltre importante sottolineare come l’Action Plan consideri l’impresa sociale alla stregua di una dinamica importante – se non la più innovativa – in seno all’economia sociale, favorendo quindi una sorta di “conciliazione” tra i concetti di economia sociale, le cui radici sono ricondotte all’azione delle associazioni di credito, delle società di mutuo soccorso e di enti di beneficenza, e di impresa sociale. A livello di singoli Paesi permangono invece situazioni non solo molto differenziate, ma anche fortemente altalenanti,[32] a conferma della persistente confusione concettuale.

Per aumentare in maniera significativa la visibilità e l’impatto della ricerca sulle politiche a favore dell’impresa sociale e dell’economia sociale sarebbe a nostro avviso importante adoperarsi per sostenere un più proficuo confronto tra reti di ricerca con diversi orientamenti, basato sugli aspetti di forza dei diversi concetti all’interno di un approccio integrato. Oltre a migliorare la visibilità dei fenomeni oggetto di studio, il confronto potrebbe contribuire ad allentare la tensione che sussiste non solo tra i diversi concetti teorici elaborati dagli scienziati sociali, ma anche tra questi concetti e la loro traduzione in concrete iniziative di policy e atti normativi.

Per migliorare la comprensione del fenomeno, sarebbe inoltre importante approfondire lo studio delle caratteristiche peculiari delle imprese sociali, sia da un punto di vista teorico che empirico. Tra queste la dimensione sociale e l’interesse generale, e la governance inclusiva, che a tutt’oggi non è chiaro in quali forme e attraverso quali dispositivi possa essere realizzata per garantire l’efficace coinvolgimento dei diversi portatori di interesse[33]. Si tratta di riflessioni che, prendendo le mosse dal pluralismo istituzionale (Borzaga et al., 2009), vanno nella direzione di valorizzare le peculiarità delle diverse forme di impresa, contrastando l’inclinazione – che va per la maggiore nelle imprese sociali – a omologare i modelli di governance a quelli delle imprese tradizionali e ad introiettare le logiche comportamentali e le retoriche tipiche del mondo for profit (Galera, Baglioni, 2021). Ai fini di policy è pertanto fondamentale che venga tracciato un confine chiaro tra le diverse forme d’impresa tra cui in primis le imprese sociali e le imprese che non sono strutturate per perseguire finalità di interesse generale, né per modificare i modelli di produzione e consumo dominanti.

Ciò detto, per affrontare efficacemente le molteplici crisi che ci troviamo di fronte, è essenziale che anche le imprese sociali e le rispettive organizzazioni di rappresentanza acquistino piena consapevolezza della propria specificità e si riapproprino di quella capacità trasformativa insita nella cooperazione sociale italiana degli albori, che si fece portatrice di un’intensa stagione di lotte in grado di rivoluzionare alcuni dei tradizionali modelli di intervento a sostegno delle persone più fragili.

Quindi, se è indubbio che la creazione di un ecosistema abilitante da un punto di vista normativo e istituzionale è la conditio sine qua non per un’adeguata valorizzazione del contributo dell’imprese sociali, solo il recupero della propria autonomia e di una rinnovata dimensione politica – ben rimarcata dagli studiosi dell’economia solidale – consentirà alle imprese sociali di elaborare risposte efficaci a bisogni destinati ad essere sempre più trasversali e fluidi.

DOI: 10.7425/IS.2022.01.02

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Note

  1. ^ EMES (The Emergence of Social Enterprise in Europe) è una rete internazionale cui oggi aderiscono 329 ricercatori individuali e 15 centri di ricerca e università. Si è costituita a metà degli anni ‘90 grazie ad un progetto di ricerca europeo che ha consentito di definire l’impresa sociale partendo dall’osservazione di questo fenomeno in 15 paesi membri (Borzaga, Defourny, 2001; Defourny, Nyssens, 2008; Galera, Borzaga, 2009).
  2. ^ A questo riguardo, il progetto SELUSI descrive l’impresa sociale un “business che genera valore sociale grazie allo sviluppo di attività imprenditoriali orientate al mercato, che consentono di generare entrate proprie volte a garantire la sostenibilità dell’iniziativa”.
  3. ^ ICSEM Project.
  4. ^ Tra queste le imprese B Corp e le Benefit Corporation. La B Corp è una certificazione privata disponibile a livello internazionale che può essere ottenuta da qualsiasi impresa privata; la Benefit Corporation è una forma giuridica riconosciuta negli Stati Uniti e anche in Italia con la denominazione società benefit. Le attività economiche di queste imprese non sono strumentali al perseguimento di esplicite finalità sociali e non sono strutturate per perseguire attività di interesse generale in via prioritaria, né tantomeno per favorire l’emancipazione di gruppi svantaggiati o per confutare le fondamenta del sistema economico dominante (Laville et al., 2017).
  5. ^ Quest’ultima fase ha aggiornato i country reports realizzati nelle precedenti fasi per 28 Paesi (Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria) e prodotto country fiches per ulteriori sette (Albania, Islanda, Montenegro, Nord Macedonia, Norvegia, Serbia, Turchia). Si veda: https://bit.ly/3t0qyG2
  6. ^ Le policy review dell’OECD sono state ad oggi realizzate per: Francia, Serbia, Croazia, Repubblica Ceca, Lituania, Olanda, Estonia, Brandeburgo-Germania, Slovenia. Si veda: Social Entrepreneurship & Social Enterprise
  7. ^ La legge italiana n.381/1991 sulle cooperative sociali è stata pioneristica. Ad essa si sono ispirati altri Paesi tra cui Francia, Spagna, Portogallo.
  8. ^ Esempi di questa tendenza sono l’Italia (con il decreto legislativo n.155 del 2006), ma anche Regno Unito, Lettonia Lituania, Finlandia, Danimarca, Albania.
  9. ^ Le due strategie sono: la Social Enterprise Strategy del 2002 nel Regno Unito e la Strategy for Civil Society Development in Croazia del 2006-2011 a cui è seguita la Strategy for Social Entrepreneurship Development del 2015.
  10. ^ È questo il caso ad esempio di alcuni paesi dell’Europa centro-orientale. In Lettonia solo le società a responsabilità limitata possono ottenere la qualifica di impresa sociale in base a quanto stabilito dalla legge sull’impresa sociale adottata nel 2017 (European Commission, 2018). Alla stessa stregua, la legge slovena sull’imprenditorialità sociale del 2011 – successivamente riformata nel 2018 – escludeva inizialmente che le imprese di inserimento delle persone con disabilità e i centri di occupazione potessero registrarsi come impresa sociale ex lege, qualifica acquisibile invece da tutte le organizzazioni nonprofit, dalle cooperative o dalle imprese tradizionali che soddisfano una serie di requisiti (European Commission, 2019). Questa barriera è stata rimossa dalla legge del 2018. Le così dette imprese per persone con disabilità possono oggi registrarsi come impresa sociale. Rimane tuttavia il problema dello scarso interesse a farlo, beneficiando le imprese per persone disabili di una disciplina fiscale e di un sistema di supporto più favorevole. Di qui, il basso numero di imprese sociali registrate e la forte divisione all’interno dell’arcipelago sloveno delle imprese sociali tra imprese sociali ex lege e altre imprese sociali di fatto (OECD, 2022).
  11. ^ La legge 208/2015 sulle società benefit riconosce la possibilità che tutte le imprese tradizionali possano volontariamente perseguire, nell’esercizio della propria attività d’impresa, oltre allo scopo di lucro, anche una o più finalità di beneficio comune. Nelle società benefit lo scopo di lucro rimane l’obiettivo principale, ma questo deve coesistere con un obiettivo sociale secondario, che deve tradursi concretamente nella creazione di un impatto positivo sulla società e la biosfera. A differenza delle imprese sociali, le società benefit non sono tenute a presentare alcun connotato specifico, come ad esempio osservare il vincolo della non distribuibilità degli utili o prevedere il coinvolgimento dei diversi portatori di interesse, e non devono operare in settori specifici. Le società benefit possono svolgere qualsiasi tipo di attività, a condizione che dimostrino di aver posto in essere azioni (effetti positivi) o omissioni (riduzione degli effetti negativi).
  12. ^ Le radici storiche dell’economia sociale sono più comunemente associate ai socialisti utopisti: Owen, Fourier, Saint-Simon e Proudhon. I loro scritti rimasero ai margini del pensiero socialista e non rappresentarono una sfida per l’economia tradizionale.
  13. ^ Si veda la Carta dei Principi dell’Economia Sociale varata nel 2002 dalla Conferenza Europea delle Cooperative, Mutue, Associazioni e Fondazioni (CEP-CEMAF), poi trasformatasi nella associazione europea dell’economia sociale Social Economy Europe.
  14. ^ CIRIEC ha sezioni nazionali, oltre che in Italia, in Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Colombia, Francia, Germania, Giappone, Portogallo, Spagna, Svezia, Turchia e Venezuela.
  15. ^ CIRIEC Studies and Reports.
  16. ^ Un interessante tentativo di applicazione del concetto di economia solidale (sebbene denominato economia sociale e solidale) è stato fatto dal Comune di Barcellona, che ha adottato alcune politiche dedicate (si veda il Piano d’Impulso all’Economia Sociale e Solidale (PIESS) 2021-2023 che prevede 12 obiettivi e 65 azioni specifiche di sostegno. Una caratteristica significativa del PIESS sta nel fatto che, per la prima volta, un’amministrazione pubblica catalana ha promosso una politica trasversale, rivolta ad un insieme variegato di iniziative, comprensivo di esperienze imprenditorialità sociale come di imprenditorialità comunitaria; iniziative di finanza etica, commercio equo e solidale e gruppi di consumo responsabile; organizzazioni che gestiscono monete locali. In Italia, un tentativo di applicazione del concetto di economia solidale è stato fatto dai distretti di economia solidale (DES), che in base a quanto elaborato dalla Rete Italiana per l’Economia Solidale (RIES) raggruppano una pluralità di iniziative, tra cui i gruppi d’acquisto solidale (GAS), produttori e fornitori, associazioni. Ricomprendendo organizzazioni di natura molto diversa, la definizione di DES è molto più flessibile rispetto a quella elaborata dagli scienziati sociali a altresì a quella che ha trovato applicazione a Barcellona. Essa include infatti tutte quelle iniziative che sono accomunate dall’obiettivo di aiutarsi a vicenda per soddisfare quanto più possibile le proprie necessità di acquisto, vendita, scambio e dono di beni, servizi e informazioni, secondo principi ispirati da un’economia locale, equa, solidale e sostenibile. Tra queste anche piccoli produttori individuali.
  17. ^ Ley Orgánica de Economía Popular y Solidaria y del Sector Financiero Popular y Solidario.
  18. ^ Si veda anche Mendell, Alain (2015).
  19. ^ International Coalition of the Social Solidarity Economy.
  20. ^ Nella “Carta per una coalizione internazionale di reti intercontinentali dell’economia sociale e solidale” si individuano come caratteristiche comuni delle organizzazioni dell’economia sociale e solidale: 1) il primato della persona e della missione sociale sul capitale; 2) l’adesione volontaria e aperta; 3) il controllo democratico; 4) la protezione della proprietà comune o congiunta; 5) la convergenza tra interessi dei soci, interesse comune delle comunità e interesse generale; 6) la difesa e attuazione dei valori di solidarietà e responsabilità; 7) l’autonomia di gestione e indipendenza dai poteri pubblici; 8) la distribuzione limitata degli utili, destinati principalmente a rafforzare la sostenibilità e lo sviluppo di un progetto imprenditoriale.
  21. ^ L’utilità sociale, così come definita dalla legge, si ha quando la principale missione sociale è sostenere le persone in situazione di fragilità, promuovere lo sviluppo dei legami sociali e della coesione territoriale, contribuire all’educazione alla cittadinanza, combattere l’esclusione e le disuguaglianze, promuovere lo sviluppo sostenibile, la transizione energetica, la solidarietà internazionale (si veda Articolo. 2).
  22. ^ Riprendendo il testo della legge francese”L’économie sociale et solidaire est composée des activités de production, de transformation, de distribution, d’échange et de consommation de biens ou de services mises en œuvre par des structures de l’ESS”.
  23. ^ ISTR. International Society for Third-Sector Research.
  24. ^ TSRC. The Thrird Sector Research Center.
  25. ^ Third Sector Impact.
  26. ^ Third (voluntary) Sector.
  27. ^ Riprendendo il testo della legge italiana “Le associazioni di promozione sociale sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre associazioni di promozione sociale per lo svolgimento in favore dei propri associati, di loro familiari o di terzi di una o più attività di cui all’articolo 5, avvalendosi in modo prevalente dell’attività di volontariato dei propri associati.”
  28. ^ Building ad European Network of Incubator for Social Innovation.
  29. ^ L’iniziativa prevede la mobilizzazione di 150 milioni di euro del Fondo Sociale Europeo, in quanto componente del Portugal 2020 Partnership Agreement.
  30. ^ Si veda: La loi PACTE, pour la croissance et la trasformation des enterprises. 
  31. ^ Si veda: Social Economy Action Plan.
  32. ^ Ne sono una testimonianza i dibattiti in corso in alcuni paesi (esempio Francia e anche Italia) dove, nonostante i concetti di impresa sociale e di economia sociale siano ben definiti a livello normativo, la scarsa comprensione porti a metterne puntualmente in discussione i rispettivi confini, in base alle tendenze maggiormente in voga.
  33. ^ Come rilevato da Bidet e Richez-Battesti, in Francia la dimensione inclusiva, riferita allo sviluppo di modelli di “governance democratica” (cfr. legge 2014 sull’economia sociale e solidale), viene fatta coincidere esclusivamente con l’implementazione di meccanismi che garantiscano la partecipazione dei lavoratori (Bidet, Richez-Battesti, 2021). Un’applicazione, quindi riduttiva dell’inclusività che dovrebbe contemplare la partecipazione nei processi decisionali di i portatori di interesse, che si relazionano con l’impresa (volontari, rappresentanti della comunità, ecc).
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