Il 25 ottobre 2011, nel pieno della crisi finanziaria dell’euro con le speculazioni finanziarie sui debiti sovrani dei Paesi più indebitati dell’eurozona – tra cui l’Italia – la Commissione Europea presenta una iniziativa dedicata all’imprenditoria sociale: la Social Business Initiative, centrata su 11 azioni chiave per promuovere l’imprenditoria sociale nei Paesi dell’Unione Europea con l’obiettivo, tra gli altri, di attrarre investitori in un settore dell’economia che si stava rivelando particolarmente resiliente, capace di creare occupazione e di esplorare nuovi spazi di mercato in particolare nei settori dell’ambiente, del welfare, del tempo libero con una spiccata propensione all’innovazione sociale.
Alcuni grandi investitori, sostenuti da qualificati think tank molto vicini ai decisori politici – in alcuni casi gli stessi che avevano ispirato l’ubriacatura neoliberista delle politiche europee tra la fine degli anni ‘90 e il primo decennio dei 2000, concentrata su austerità e finanziarizzazione dell’economia – individuano nell’economia sociale un possibile ambito di differenziazione degli investimenti. La crescente preoccupazione dei grandi investitori, derivante dalle incertezze sui debiti sovrani, che fino ad allora rappresentavano una fonte di rendimento sicura sui cui costruire gli asset di base per i grandi fondi d’investimento, unita all’esigenza di tutto il mondo della finanza di recuperare credibilità e consensi, individuano nell’economia sociale un nuovo asset per gli impieghi.
Del resto, il valore economico generato dalle organizzazioni dell’economia sociale era già molto significativo sia per le dimensioni (considerato che rappresentava circa 8 % del PIL europeo),[1] sia per qualità e persistenza in termini di servizi realizzati in favore dei cittadini e di posti di lavoro creati e mantenuti, anche durante gli anni della crisi finanziaria del 2008. Una resilienza che, consolidando oltre 13,6 milioni di posti di lavoro retribuiti in Europa, coinvolgeva circa il 6,3 % della popolazione attiva dell’Unione Europea.
Per noi esponenti dell’economia sociale, questo rappresentava, allora come ora, un patrimonio di impegno sociale e civile, oltre che economico, alimentato da un tessuto di partecipazione diffusa, che nella sua componente più marcatamente imprenditoriale – quella delle cooperative e delle mutue – interessa e coinvolge 232 milioni di soci tra cooperative e mutue in Europa. Per alcuni investitori questo bacino rappresenta una formidabile occasione per aprire nuovi spazi di mercato e di investimento, per altro sostenuti da un’attesa di ulteriore crescita veicolata, da un lato, dalla incomprimibile domanda di sevizi di cura e di welfare, dall’altra, dalla crescente necessità di convertire in una logica di sostenibilità ambientale l’economia europea. In questo contesto nascono anche due fenomeni di grande impatto comunicativo e imprenditoriale: sharing economy e circular economy. Tre economie: sociale, circolare e della condivisione, che trovano una grande risonanza con gli obiettivi dell’agenda 2020 delle Nazioni Unite, centrati sul concetto di sostenibilità, che ritroveremo poi ampiamente ripresi nelle agende politiche europee, fino ad approdare nel Piano d’azione per l’economia sociale presentato dalla Commissione Europea il 9 dicembre del 2021.
Per molti investitori la nuova frontiera dell’economia sociale presenta tre grandi vantaggi: i) si caratterizza per la capacità di resilienza e per la diffusione capillare di organizzazioni che rispondono ad una domanda in continua espansione; ii) può assicurare ritorni economici modesti ma duraturi e a basso rischio per investimenti, per certi versi, più sicuri di alcuni titoli di debito pubblico); iii) coinvolge organizzazioni e settori che godono di ottima reputazione, riguarda ambiti nei quali il consenso dell’opinione pubblica è molto alto.
Insomma, un’occasione da non perdere per un mondo della finanza internazionale in profonda crisi di consensi e con il bisogno di far dimenticare il più in fretta possibile le enormi responsabilità, non solo nella crisi finanziaria scatenata dai mutui sub-prime, ma anche nello strangolamento della Grecia.
Tuttavia anche per l’economia sociale l’interesse crescente da parte di investitori e istituzioni della finanza globale rappresenta una sfida importante ed una grande occasione di innovazione; oltre che un’occasione per provare a “contaminare” una parte dell’economia che non aveva mai manifestato un interesse strategico, che potesse andare oltre le tradizionali attività filantropiche, con le quali, soprattutto gli istituti bancari avevano approcciato le questioni sociali e la solidarietà.
La riaccensione dell’attenzione delle istituzioni europee verso l’economia sociale approda quindi sui tavoli della Commissione Europea (guidata allora da Josè Barroso) principalmente per la spinta mossa dall’interesse, forse anche un poco strumentale, degli investitori e delle istituzioni finanziarie. Del resto, occorre anche riconoscere che con le sole nostre forze, come organizzazioni dell’economia sociale, difficilmente avremmo potuto raggiungere, in quella stagione, i vertici della Commissione Europea, a cui in ogni caso va riconosciuto il merito di avere contribuito ad accendere l’entusiasmo per l’imprenditoria sociale. Non proprio per l’economia sociale nel suo complesso, come richiedevano da tempo le organizzazioni sociali e lo stesso Parlamento Europeo, che nel 2009 aveva adottato una importante risoluzione[2] per promuovere l’economia sociale come una strategia necessaria a compensare le distorsioni del modello di sviluppo dominante. La Commissione preferì però concentrare la sua attenzione per quello che si percepiva essere un fenomeno nuovo, almeno per l’Europa, ovvero l’imprenditoria sociale.
Si arriva così alla Comunicazione sull’imprenditoria sociale (SBI – Social Business Initiative),[3] che certamente rappresenta un momento di grande rilevanza e segna il primo passo per una correzione della politica dell’Unione in direzione di un Europa più sociale, che tuttavia necessiterà ancora di molto tempo prima di prendere forma; tuttavia, anche grazie al fatto che molte organizzazioni di rappresentanza dell’economia sociale europee hanno saputo cavalcare quell’interesse, il rischio che questo provvedimento rimanesse un operazione di facciata, si è trasformato in un’occasione che ha preparato il terreno che ci porterà fino al Piano d’azione per l’economia sociale di cui scriverò nelle prossime pagine.
Che la SBI non fosse ispirata soltanto dalle indicazioni delle organizzazioni dell’economia sociale o dalla rete di docenti di economia – nella quale un ruolo centrale venne svolto dal nostro Carlo Borzaga – lo si coglie osservando come, tra le 11 azioni chiave della Comunicazione dell’ottobre 2011, uno spazio importante era riservato al miglioramento dell’accesso ai finanziamenti per le organizzazioni dell’economia sociale, aumentando la capacità di attrarre investimenti in questo settore. Investimenti che però non sono immediatamente adattabili, in particolare nelle aspettative degli investitori, ad un contesto come quello dell’economia sociale europea.
Infatti, una delle principali caratteristiche distintive del variegato sistema dell’economia sociale europea, soprattutto di quella continentale, è quella di essere formata da organizzazioni che solo in alcuni casi hanno una forma giuridica di natura imprenditoriale, le cooperative e le mutue; moltissime sono invece organizzazioni di natura associativa e non commerciale. Inoltre, una componente rilevante degli occupati nelle organizzazioni e imprese dell’economia sociale si trova in piccole organizzazioni, con una media inferiore ai 10 occupati, dove la differenziazione delle funzioni è su piccola scala, dove raramente si trovano competenze finanziarie e amministrative sufficienti a rassicurare investitori, a loro volta impreparati a trattare “piccoli tagli” e investimenti parcellizzati.
Inoltre, anche tra le organizzazioni più strutturate, dove operano centinaia e a volte migliaia di lavoratrici e lavoratori e sono presenti persone dedicate all’amministrazione finanziaria, prevalgono le imprese (soprattutto cooperative) caratterizzate da una governance partecipativa di tipo democratico, cosa che, se da un lato evidenzia la stretta correlazione fra l’ampia partecipazione dei portatori d’interesse alla governance e la propensione al mantenimento di alti livelli di occupazione così come una migliore capacità di resistere agli shock congiunturali (resilienza), dall’altro lato non sembra essere rassicurante per molti investitori, letteralmente spaventati (anche se non sempre lo dichiarano) dal fatto che i lavoratori possano partecipare direttamente alle scelte strategiche dell’impresa in cui lavorano. Del resto, sono molti i casi in cui la quotazione di borsa di alcune aziende cresce quando queste annunciano grandi piani di ristrutturazione e quindi di licenziamenti.
Constatato che le organizzazioni con una governance partecipativa non suscitano l’entusiasmo degli investitori, l’interesse per la dimensione sociale e ambientale, si concentra quindi sulle imprese sociali con struttura societaria governabile con assetti proprietari determinati dal capitale più che dalle persone: quindi società a responsabilità limitata, società di capitali, oppure anche rami d’impresa di fondazioni o enti con governance più controllabile.
L’impresa sociale, quindi, viene introdotta e sostenuta nel contesto delle istituzioni europee con una narrativa molto efficace, come la forma più innovativa di organizzazione dell’economia sociale, molto più attrattive delle “obsolete” cooperative, dipinte spesso come imprese romantiche ma superate, appartenenti ad un’idealità del secolo scorso. In taluni casi accade che anche le cooperative sociali, che sono la forma più consolidata e diffusa, con le performance imprenditoriali ed economiche più rilevanti e con il più elevato numero di persone occupate, siano raccontate come imprese sociali, prima che come cooperative. Quasi a sottolineare che è soltanto la dimensione sociale e la capacità prestazionale a suscitare interesse, ma non la forma giuridica cooperativa, come se il successo – ultratrentennale nel caso italiano – fosse determinato esclusivamente dall’oggetto sociale, mentre l’essere cooperative viene ridotto ad un fatto incidentale. Per certi aspetti la storia delle cooperative sociali italiane potrebbe anche aver prestato qualche motivo valido a queste letture, ma il valore economico e sociologico delle cooperative e dell’economia sociale non può essere separato dalla forma giuridica cooperativa e dalla dimensione mutualistica; anche quando essa è riconosciuta per via legislativa (la mutualità prevalente di diritto), essa non può essere ridotta a mero requisito formale, altrimenti le narrative che enfatizzano la dimensione innovativa dell’impresa sociale a discapito di una presunta vetustà delle cooperative troverà terreno facile per affermarsi, finendo così per disconoscere il valore delle cooperative sociali che per prime affermarono la possibilità di organizzare la solidarietà in forma d’impresa. E non a caso, il nome di questa stessa Rivista su cui scrivo, Impresa Sociale, trae le sue origini proprio dalle cooperative sociali.
Negli ultimi anni, incalzata dalla crescita dei movimenti antieuropeisti, una parte della classe dirigente dell’Unione Europea ha riconosciuto come l’austerità e il modello di sviluppo centrato su una politica di concorrenza sostanzialmente disegnata a misura delle grandi multinazionali non possa continuare ad essere più la ricetta adeguata. Si fa strada così la necessita di ridisegnare un’Europa più sociale, che prenderà la forma del Pilastro Europeo dei diritti sociali, “proclamato” dai 27 leader degli Stati dell’Unione Europea in un vertice celebrato nella città svedese di Göteborg nel dicembre 2015.[4]
Tuttavia, dopo la proclamazione, il Pilastro dei diritti sociali rimane una dichiarazione d’intenti che non trova una traduzione nitida nei negoziati per il nuovo quadro finanziario pluriennale che occuperà il dibattitto politico europeo a cavallo della legislatura che porterà nel 2019 all’elezione del nuovo Parlamento Europeo. Ci vorranno l’insediamento della nuova Commissione Europea e una devastante pandemia per aprire definitivamente gli occhi e mettere finalmente nell’agenda delle priorità l’attenzione ad un modello di sviluppo più sostenibile basato sul Green Deal Europeo – guidato da transizione energetica e contrasto al cambiamento climatico – e su Next Generation EU – il grande piano di ripresa e resilienza, fatto di grandi investimenti infrastrutturali, ma finalmente attento anche alla dimensione sociale per troppo tempo trascurata dalla politiche europee. Si arriva così al vertice di Porto che nel maggio 2021 approva il Piano d’azione per l’attuazione del Pilastro Europeo dei diritti sociali e al dicembre 2021 per la presentazione del Piano d’azione per l’economia sociale europea.
Sei anni di lavoro per arrivare ad un piano d’azione concreto per un’Europa più sociale non possono essere considerate un esempio di tempismo e mettono in evidenza le difficoltà che permangono nella struttura decisionale dell’Unione Europea. Ma è altrettanto vero che i provvedimenti adottati dall’Unione Europea nel corso del 2021 hanno raccolto in moti casi idee e progetti che per molti anni le organizzazioni della società civile e dell’economia sociale europee avevano promosso, elaborando proposte per rispondere alle crisi sociali. E quindi possiamo dire che i sei anni trascorsi dalla proclamazione del Pilastro europeo dei diritti sociali all’adozione dei Piano d’azione – così come i dieci anni tra la Comunicazione sull’imprenditoria sociale e il piano d’azione per l’economia sociale – non sono trascorsi invano.
Il Piano d’azione per l’attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali si presenta come un piano molto ambizioso per costruire un Europa più sociale e più inclusiva; con i suoi 20 principi e oltre 60 azioni programmate sarà un banco di prova per valutare concretamente il passaggio dalla proclamazione dei principi al perseguimento di risultati. Senza soffermarsi sulla complessità del piano, ci si limiterà ad alcune considerazioni su due temi centrali e di grande interesse per le imprese sociali, come il contrasto alla povertà e la salute.
Tra i tre principali obiettivi del Piano d’azione, uno spazio molto rilevante è riservato alla lotta alla povertà. Si tratta di un obiettivo – già previsto dal Trattato di Lisbona del 2009 – rispetto al quale le politiche europee sin qui adottate hanno manifestato una evidente insufficienza, tanto è vero che povertà e diseguaglianze, contrariamente a quanto ci si propone da molti anni, hanno continuato a crescere e si sono o ulteriormente aggravate per effetto della pandemia.
Il Piano d’azione di propone di diminuire di almeno 15 milioni il numero di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale entro il 2030; obiettivo che pare ambizioso, ma che rappresenta una riduzione rispetto a quanto previsto inizialmente. Per perseguire questo obiettivo la Commissione ritiene necessario un approccio integrato, che presti attenzione alle cause che nelle diverse fasi della vita e nelle diverse fasce d’età determinano cause di esclusione sociale e quindi indirizzano le persone sulle traiettorie che portano alla povertà. Per questo il Piano d’azione ha dedicato molta attenzione agli investimenti che gli Stati membri dovranno realizzare in ambito educativo e formativo, a cominciare dalla prevenzione della povertà educativa, per promuovere pari opportunità a tutti i bambini nell’UE ed evitare che i bambini delle famiglie povere diventino a loro volta adulti a rischio di povertà.
Anche in questo caso, tuttavia, le politiche europee sono sostanzialmente caratterizzate da esortazioni e, solo in parte, da incentivi economici sostenuti dai Fondi Strutturali al fine di indirizzare gli Stati membri a potenziare gli investimenti nazionali mirati per affrontare la povertà, le disuguaglianze e l’esclusione sociale tra i minori.
In questa direzione le risorse straordinarie assegnate per la realizzazione dei PNRR rappresentano un’occasione irripetibile, ma servirà una mobilitazione importante poiché al momento, negli obiettivi di missione del PNRR Italiano, il contrasto alla povertà e gli investimenti per l’istruzione sono richiamati, ma non trovano poi una sostanziale corrispondenza nel dibattito politico o nella definizione delle prime ipotesi di piani attuativi. Basterebbe a questo proposito osservare come nel nostro Paese vi sia stato un animato dibattito sul reddito di cittadinanza, tutto incentrato sulla critica o sulla difesa dello strumento, ma poche attenzioni alle finalità, alle esigenze e alle motivazioni per le quali in Italia vi sia bisogno di uno strumento per la riduzione della povertà, in molti casi della povertà di lavoratori occupati a bassissimo reddito. Ben vengano quindi gli investimenti per housing sociale o per i servizi sull’emarginazione grave a cui fa riferimento il PNRR, ma senza una migliore qualificazione del lavoro e dei redditi da lavoro il PNRR rischia di essere uno strumento per la redistribuzione della ricchezza verso l’alto, cioè dalle fasce più povere e marginali del mondo del lavoro verso quelle più ricche e meglio posizionate, o meglio tutelate da contratti forti.
Per questo appare importante che il Piano d’azione richiami la necessità che si introducano in Europa dei regimi di reddito minimo, destinati a garantire che nessuno sia lasciato indietro, con l’auspicio che si riducano le ampie divergenze oggi riscontrate tra gli Stati o anche all’interno di ciascuno Stato fra diverse aree territoriali.
La diffusione della pandemia nel mondo e in Europa ha messo in evidenza in modo drammatico la necessità di coordinare le politiche sanitare e sociosanitarie nel continente Europeo, a maggior ragione se osserviamo gli andamenti delle diverse ondate, in cui i comportamenti dei diversi Stati e Regioni hanno determinato andamenti disomogenei e complessivamente una grande difficoltà nell’assumere misure che consentissero una risposta sistemica capace di fermare la diffusione dei contagi. Se l’azione coordinata da parte dell’Unione Europea ha assicurato un accesso rapido e diffuso ai vaccini, le strategie e i comportamenti affidati alle decisioni dei singoli Stati o di singole autonomie locali hanno messo in evidenza la debolezza delle azioni attuative e degli indirizzi che si legano più strettamente ai comportamenti sociali di cittadini e autorità locali.
In questa direzione il Piano d’azione impegna la Commissione Europea a presentare nel 2022 una relazione sull’accesso ai servizi essenziali negli stati dell’Unione, con l’obiettivo si indirizzare le autorità pubbliche verso una migliore efficacia delle reti di sicurezza sociale e l’accesso ai servizi abilitanti a tutti i cittadini europei al fine di promuovere la salute e garantire l’assistenza.
Non possiamo certo soffermarci a lungo, in questo testo, sulla descrizione o l’analisi delle misure che l’Unione Europea si propone di attuare in campo sanitario, seppure nei termini degli stretti margini di manovra che sono consentiti dalle attuali norme, ma certamente anche in questo caso il Piano d’azione per il Pilastro europeo dei diritti sociali rappresenta un passo importante nella direzione di una maggiore coordinamento tra i sistemi sanitari, in particolare rispetto a temi quali l’assistenza a lungo termine, la carenza strutturale di personale e le crescenti disuguaglianze sanitarie e sociali. Dalle analisi espresse dalla Commissione Europea servono inoltre maggiori investimenti per rafforzare l’assistenza sanitaria di base e la salute mentale.
Queste considerazioni sono al centro dell’iniziativa della Commissione Europea, che nel 2020 ha proposto un percorso per arrivare all’Unione europea della salute nella quale si propone agli Stati membri un lavoro congiunto per prepararsi e reagire insieme alle future crisi sanitarie – sia per assicurare adeguate forniture mediche, sia misure per una strategia farmaceutica – un piano europeo per la lotta contro il cancro e nuovi strumenti per la raccolta e l’analisi di dati per migliorare la conoscenza delle disuguaglianze sanitarie e l’accesso alla salute per le persone più vulnerabili.
La pressione demografica sulle società europee, sempre più esposte all’invecchiamento e alla riduzione della natalità, provoca una crescita incrementale della domanda di servizi di assistenza. Questo scenario richiede che chi programma e gestisce politiche sociali e sanitarie migliori la capacità di definire standard qualitativi comparabili livello europeo, in particolare per ridurre le diseguaglianze in termini di accesso ai servizi.
La Commissione ha annunciato per l’anno 2022 un’iniziativa specifica dedicata al tema dell’assistenza a lungo termine, con la quale indirizzare le politiche volte a migliorare l’accesso a servizi di qualità, in particolare per le persone non autosufficienti. A sostegno di queste iniziative si proporranno anche nuovi strumenti per misurare e definire le distanze tra i livelli di accesso all’assistenza sanitaria, anche attraverso il potenziamento di quello che viene definito lo “spazio europeo dei dati sanitari” per promuovere l’accesso condiviso ai dati sanitari necessari alla ricerca e all’elaborazione delle politiche sociali e sanitarie europee.
In questo contesto molte cose si potranno e dovranno fare con le risorse assegnate ai PNRR, ed in particolare, nel caso italiano, a quelle assegnate alle missioni 5 e 6. A questo proposito mi soffermo sulle Case della Comunità, definite come strutture sanitarie in cui sviluppare un modello di intervento multidisciplinare, progettando azioni di carattere sociale e di integrazione sociosanitaria, dove il medico di medicina generale e i pediatri, di libera scelta, lavorano in équipe, in collaborazione con gli infermieri di famiglia e gli specialisti ambulatoriali a cui si aggiunge, quasi come appendice, la figura dell’assistente sociale.
In pratica, si pensa ad una Casa della Comunità che nasce priva di figure che operino sulla promozione della comunità, sulle reti relazionali, sull’educazione e la tessitura di legami sociali; che, a ben vedere, sono l’essenza di una comunità. In sostanza sono Case della Comunità professionale sanitaria, una sorta di camera del lavoro sociosanitario, di cui la comunità nel suo complesso è solo il beneficiario passivo. Ma un welfare di comunità o una salute di territorio, andrebbero sviluppati a partire dal coinvolgimento delle persone che formano e costituiscono la comunità, in una logica di corresponsabilità.
Volendo essere sbrigativi si potrebbe dire che si sono individuate, per via legislativa, le case e gli ospedali, ma ci si è scordati di come sostenere le comunità che abitano i territori.
Si sono definiti gli standard strutturali e gestionali, ma non è stata considerata la sostenibilità sociale complessiva del sistema. In particolare, se Case e Ospedali di Comunità si dovranno contendere medici e infermieri sottraendoli a quelle che sono già le componenti deboli del sistema di welfare, strutture residenziali, diurne e domiciliare per persone non autosufficienti (anziani e disabili), appare subito evidente che andremo incontro ad un problema di sostenibilità non del tutto considerato.
Come noto, il Pilastro europeo dei diritti sociali si articola su 20 grandi obiettivi, e in queste pagine mi sono soffermato esclusivamente su riduzione della povertà e salute. Si tratta di obiettivi politici ambiziosi a cui non corrispondono sufficienti poteri delle istituzioni europee e così l’incisività delle misure deve necessariamente passare attraverso gli estenuanti negoziati politici, non solo nel merito degli obiettivi, ma soprattutto sul piano del coordinamento delle politiche economiche e di bilancio degli Stati.
Gli ambiziosi obiettivi del Pilastro europeo dei diritti sociali, per essere conseguiti, richiedono uno sforzo importante e le risorse a cui attingere sono rappresentate, da un lato, dai fondi tradizionali della Programmazione 2021-2027, dall’altro, dalle risorse straordinarie messe a disposizione dal Piano di Ripresa e Resilienza e da Next Generation EU.
Servirà quindi una accurata capacità di programmazione e convergenza a livello locale per utilizzare al meglio i fondi senza precedenti che l’UE ha messo a disposizione per sostenere le riforme e gli investimenti in linea con il Pilastro europeo dei diritti sociali, con il Piano d’azione per l’economia sociale e con l’Unione europea della salute.
Complessivamente, attraverso NextGenerationEU sono messi a disposizione circa 1,8 miliardi di euro in sette anni e nel quadro delle sei missioni prioritarie dei PNRR, attraverso cui gli Stati dovranno indicare come agiranno per la creazione di posti di lavoro, la coesione sociale, la promozione di politiche per l’infanzia e l’adolescenza, la riduzione della povertà, coerentemente a quanto propone il pilastro europeo dei diritti sociali.
Nella speranza che i PNRR rispondano a questa attesa e non si si proiettino solo su transizione digitale ed ecologica, non dobbiamo dimenticare che lo strumento principale attraverso cui sostenere gli obiettivi di un Europa più sociale rimane il ben noto Fondo Sociale Europeo, che nella nuova programmazione assume la denominazione di FSE+.
Il Fondo Sociale Europeo può contare su una dotazione di 88 miliardi di euro per il settennio di programmazione 2021-2027 attraverso il quali gli Stati membri potranno perseguire gli “obiettivi sociali” tenendo conto che, secondo le indicazioni del Pilastro dei diritti sociali, almeno il 25 % delle risorse del FSE+ dovrebbero essere impegnate per combattere la povertà e l’esclusione sociale.
Un secondo canale di finanziamento sui cui si potrà fare affidamento è quello del Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR), destinato a sostenere infrastrutture per l’occupazione, l’istruzione, la formazione e i servizi sociali.
Con una struttura diversa, anche il programma InvestEU costituisce uno strumento importante a qui riferirsi per promuovere investimenti destinati al perseguimento degli obiettivi previsti dal Pilastro dei diritti sociali. InvestEu è l’evoluzione, nell’ambito della programmazione 2021-2027, del Fondo Strategico per gli Investimenti, varato nel 2014 come strumento di reazione alla crisi finanziaria ed è stato qualificato con una specifica dotazione dedicata ad incoraggiare gli investimenti pubblici e privati che abbiano l’obiettivo di rinforzare l’infrastruttura sociale europea. InvestEU funziona attraverso il meccanismo della garanzia al credito e consentirà di mobilitare investimenti coperti da una garanzia – gestita dalla Banca Europea degli Investimenti – proprio con l’intento di determinare un effetto leva che, da un lato, alleggerisca i tassi di interesse per gli attori sociali che realizzeranno nuovi investimenti, dall’altro, attragga investitori privati.
L’infrastruttura sociale europea si potrà ulteriormente rafforzare se gli attori del terzo settore sapranno investire qualitativamente sul rafforzamento delle competenze scientifiche e sull’innovazione, facendosi promotori di progetti su programma Horizon Europe, che con una datazione di 94 miliardi di euro costituisce il più grande e ambizioso programma di ricerca e innovazione a livello europeo. Horizon si propone di sviluppare nuove tecnologie, trasformazioni industriali, economiche e sociali innovative, ma richiede un livello di competenza altissimo e soprattutto solide basi scientifiche e metodologiche per poter competere con i settori più avanzati della ricerca tecnologica ai quali contendere le risorse dedicate all’innovazione.
Il quadro degli strumenti attraverso i quali perseguire il progetto per un Europa più sociale si completa con il nuovo programma EU4Health che per la programmazione 2021-2027 verrà alimentato con una dotazione di 5,1 miliardi di euro destinati al miglioramento dei sistemi sanitari dell’Unione Europea.
Infine, seppure con dotazioni che potremo definire residuali, un richiamo va fatto anche al Fondo Asilo, migrazione e integrazione, che, come appare evidente, non gode di particolare favore o consenso tra gli Stati membri; tuttavia, anche se in modo a nostro parere insufficiente, dovrebbe sostenere l’integrazione e l’inclusione sociale dei migranti.
Arriviamo alla fine di questa rilettura di un decennio di politiche europee, al Piano d’azione per l’economia sociale, presentato dalla Commissione Europea lo scorso 9 dicembre; il Piano arriva dopo un lungo lavoro preparatorio che ha visto le organizzazioni dell’economia sociale europea giocare un ruolo molto attivo di stimolo. Va dato atto al commissario europeo Nicolas Schmit di aver messo a punto una proposta molto interessante, che rappresenta una positiva evoluzione della posizione della Commissione Europea in tema di economia sociale, cui si è giunti con un percorso inclusivo e attento alle distintività che caratterizzano il conteso europeo dell’economia sociale.
Il Piano d’azione propone una prospettiva pluriennale verso il 2030 ed è accompagnato da due documenti di lavoro. Il primo è propriamente l’impianto del piano – Creare un’economia al servizio delle persone: un piano d’azione per l’economia sociale – e trova una forte interconnessione con le strategie per l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali. Il secondo documento – Scenari verso la co-creazione di un percorso di transizione per un ecosistema industriale di prossimità e di economia sociale più resiliente, sostenibile e digitale – si interfaccia, invece, con la nuova strategia industriale europea, al interno della quale troviamo per la prima volta (in un documento di programmazione dedicato al sistema industriale europeo) l’ecosistema Economia sociale e di prossimità, che rappresenta una interessante innovazione proprio perché riconosce l’economia sociale anche come infrastruttura produttiva ed economica legittimata ad inserirsi anche nel sistema industriale europeo.
Il Piano d’azione propone una serie di interventi e azioni in una prospettiva temporale che traguarda il 2030, tuttavia le azioni concrete inserite nel programma operativo della Commissione Europea, al momento non vanno oltre il 2023, ancorché sia molto significativo il fatto che, anche in questo caso per la prima volta, alcune indicazioni per invitare i Governi e i Parlamenti degli Stati membri ad adottare politiche specifiche per sostenere lo sviluppo dell’economia sociale, saranno inserite nelle raccomandazioni del semestre europeo.[5]
La prospettiva pluriennale e l’inserimento nel processo del semestre europeo, se da un lato rappresentano un elemento molto positivo, per altri aspetti denotano una certa debolezza di obiettivi di lungo termine sul piano delle politiche proprie della Commissione Europea. Un po’come se, nella sua attuazione concreta, il Piano d’azione per l’economia sociale sia demandato ancora principalmente alle politiche nazionali e regionali. Forse ci sarebbe voluto un po’ più di coraggio e di prospettiva comune europea, in particolare per quanto riguarda un sostengo più deciso e coordinato al ruolo attivo dell’economia sociale per affrontare grandi questioni che interrogano l’Europa e sulle quali gli Stati membri e le politiche regionali non hanno fin qui dimostrato di sapere o di volere essere innovative: riduzione delle diseguaglianze, tensione demografica, sostengo alle giovani generazioni, questione migratoria, sostenibilità dei sistemi sanitari e del modello di welfare europeo.
Al netto di queste criticità il Piano d’Azione è certamente l’iniziativa più rilevante messa in atto dalle istituzioni europee da molti anni a questa parte ed è importante che sia comunque già programmata una raccomandazione del Consiglio europeo nel 2023 ed un intervento di valutazione sull’attuazione del Piano nel 2025. In questa prospettiva sarebbe interessante se, in vista dell’adozione della raccomandazione del Consiglio, come movimenti di rappresentanza delle organizzazioni dell’economia sociale, riuscissimo ad ottenere misure o indirizzi che vadano a rafforzare quattro ambiti di interesse: i) la collaborazione tra amministrazioni pubbliche e organizzazioni dell’economia sociale; ii) il tema degli aiuti di stato; iii) gli investimenti e strumenti finanziari; iv) la fiscalità. Questi temi sono di seguito sviluppati brevemente.
Uno dei principali pregi del Piano d’azione è il fatto di rappresentare una forma di riconoscimento delle potenzialità dell’economia sociale per il futuro delle politiche sociali e industriali dell’Unione Europea. Tuttavia, proprio per l’importanza delle funzioni di interesse generale a cui l’economia sociale concorre, è importante che si definiscano anche obiettivi di miglioramento delle strategie di collaborazione tra pubblica amministrazione e organizzazioni dell’economia sociale.
Il Piano da questo punto di vista prevede che la Commissione Europea continui a lavorare per il miglioramento dell’accesso al mercato dei contratti pubblici da parte delle organizzazioni dell’economia sociale; sulle direttive[6] sui contratti pubblici del 2014 da parte nostra sono già pronte alcune proposte affinché in sede di revisione della direttiva appalti – ed in particolare dell’art. 77 sul regime alleggerito per i servizi sociali – si introduca una più chiara distinzione tra il perseguimento dell’interesse generale e la realizzazione del Mercato unico, per fornire una migliore base giuridica per la definizione di accordi di collaborazione tra enti pubblici e dell’economia sociale.
Come noto ai lettori di Impresa Sociale, in Italia – anche a seguito della Riforma del terzo settore – si è sviluppato un interessante e approfondito dibattito in materia di amministrazione condivisa, di programmazione partecipata e di co-progettazione, proprio con l’obbiettivo di migliorare la capacità di autorità pubbliche e formazioni sociali di sviluppare forme innovative di collaborazione che, nel rispetto delle specifiche competenze e autonomie, rendano effettivamente percorribile anche il perseguimento degli obiettivi di interesse generale che la legislazione assegna agli ETS.
Questo compito in Italia appare tutt’altro che scontato, anche quando in molti casi si è dimostrato che le forme di collaborazione alternative agli appalti basati prevalentemente sulla valutazione dei prezzi appaiono efficaci quando si tratta di realizzare servizi di assistenza sociale, di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, di lotta alla povertà e di accompagnamento a soggetti svantaggiati, oltre che con riferimento all’accesso alla casa. Anche se in Italia questo approccio appare tutt’altro che scontato, in Europa tutto ciò si prefigura arduo e richiederà una capacità di dimostrare che l’amministrazione condivisa, in un quadro di gestione dei beni comuni, può essere una valida alternativa all’esclusiva legge della concorrenza.
Naturalmente una rivisitazione delle regole dei mercati pubblici, ma anche di altre politiche di sostegno per l’economia sociale, non troveranno adeguati spazi in Europa se non si metterà mano anche alle modalità con cui si è fin qui regolamentato in materia di aiuti di Stato.
Sappiamo bene che alcuni dei settori in cui operano le organizzazioni dell’economia sociale, in particolare quelli dell’assistenza sociale, della salute, dell’educazione e della promozione culturale, hanno necessità di un adeguato sostegno finanziario pubblico. Il controllo degli aiuti di Stato mira a mantenere un equilibrio tra questo sostegno ed una concorrenza leale. Il Piano d’azione evidenzia che, spesso, le autorità pubbliche ed i beneficiari non sfruttano al meglio le possibilità esistenti in termini di flessibilità sugli aiuti di Stato. Questo è certamente vero e suggerirebbe investimenti mirati alla formazione specialistica per le pubbliche amministrazioni con riferimento alle regole europee sugli aiuti di Stato, in particolare quelle relative ai servizi di interesse economico generale (SIEG).
Tuttavia, da tempo, noi cerchiamo di mettere in evidenza che non sempre le regole e le logiche della concorrenza sono adeguate ad affrontare temi come quelli della gestione dei servizi sociali, soprattutto quelli sanitari e di assistenza alla persona, che non rispondono a logiche di mercato, ma solidaristiche. Le norme UE dedicate ai SIEG garantiscono una buona flessibilità con riguardo alle regole sugli aiuti di Stato. Molte organizzazioni dell’economia sociale operano proprio nella realizzazione di SIEG locali volti al perseguimento del bene comune. Tuttavia, molte autorità pubbliche considerano ancora le imprese sociali come imprese tradizionali operative in una logica di mercato, rinunciando alla possibilità di applicare il quadro giuridico sugli aiuti pubblici ai SIEG.
Con il Piano d’azione la Commissione Europea propone di facilitare la conoscenza delle forme di accesso agli aiuti di Stato tramite webinar e workshop dedicati. Francamente questa proposta, della cui utilità non abbiamo dubbi, appare però del tutto insufficiente. Servirebbe infatti un più incisivo intervento regolatorio, che chiarisca i requisiti di accesso e l’entità degli aiuti di Stato a disposizione delle organizzazioni dell’economia sociale. Andrebbero inoltre riconosciute come compatibili con il mercato interno le sovvenzioni erogate alle organizzazioni dell’economia sociale in quanto attuatrici della realizzazione dell’interesse generale e per questo sarebbe utile rivedere anche le soglie de minimis relative agli interventi a sostengo delle imprese dell’economia sociale in quanto realizzano interventi e servizi sociali di intesse generale.
Secondo le stime citate dal Piano d’azione per l’economia sociale, nel corso del periodo di programmazione 2014-2020 sono stati mobilitati almeno 2,5 miliardi del bilancio UE per sostenere l’economia sociale tramite una pluralità di programmi e fondi europei. Il CESE accoglie con favore l’intenzione della Commissione di aumentare ulteriormente il livello di sostegno per il periodo 2021-2027. Tuttavia, vi sono ancora molte barriere di accesso ai fondi europei per le organizzazioni dell’economia sociale. Appare quindi utile l’obiettivo di lanciare, già nel 2022, nuovi prodotti finanziari nell’ambito del programma InvestEU, al fine di mobilitare finanziamenti privati mirati alle esigenze delle imprese dell’economia sociale. Tuttavia, a nostro parere, più che accedere a nuovi strumenti finanziari per investitori interessati all’economia sociale, per molte organizzazioni il semplice accesso al credito bancario continua a rappresentare un compito difficile. Per questo, non andrebbero trascurati, ma anzi incrementati ed estesi in modo sistematico, anche alle organizzazioni dell’economia sociale gli strumenti di garanzia per l’accesso al credito.
Rispetto agli strumenti di investimento, appare invece deludente il fatto che nulla sia previsto, sul piano degli strumenti di sostegno alla capitalizzazione delle cooperative nate dai lavoratori di aziende in crisi, per quanto nel Piano d’azione si faccia più volte riferimento alle esperienze di workers buyout, indicate come esempi positivi circa il ruolo svolto dalle cooperative nelle ristrutturazioni industriali. In più occasioni abbiamo messo in evidenza come il caso italiano della legge Marcora e la nascita di una specifica agenzia cui è affidato il compito di investire in cooperative create dai lavoratori per salvare aziende in crisi, rappresenti una buona pratica che non solo si potrebbe diffondere in altri Paesi, ma che potrebbe ispirare la creazione ad una agenzia europea analoga. Una proposta che però ancora una volta la Commissione decide di non assumere, forse perché l’esperienza della legge Marcora rimane un’esperienza esclusiva del nostro Paese, per quanto il fenomeno del workers buyout veda molti casi realizzati anche in Spagna e Francia.
In ambito europeo, o meglio tra gli Stati membri dell’Unione Europea, il quadro fiscale entro cui operano le organizzazioni dell’economia sociale è frammentato, complesso e incardinato sostanzialmente nella competenza esclusiva degli Stati nazionali. È quindi apprezzabile che il Piano d’azione per l’economia sociale richiami la necessità di una fiscalità specifica per l’economia sociale, rilevando che sono ancora pochi gli Stati che hanno sviluppato uno specifico e coerente quadro fiscale per le imprese sociali. Questo rende complicata quindi la tanto auspicata armonizzazione delle norme fiscali a livello europeo.
Ne sappiamo qualcosa anche noi in Italia e basterebbe citare l’annosa questione della notifica a Bruxelles della parte fiscale della Riforma del terzo settore, rallentata quasi certamente anche dall’incertezza circa la capacità degli uffici della Commissione di cogliere la peculiarità del contesto fiscale delle normative sul terzo settore italiano.
In questi mesi inoltre la Commissione Europea ha varato un importante programma per rivedere complessivamente l’architettura fiscale dell’Unione, lanciando una comunicazione sulla Tassazione delle imprese per il XXI secolo, da cui discenderanno diversi provvedimenti legislativi a cominciare dall’iniziativa BEFIT (Business in Europe: Framework for Income Taxation BEFIT), attesa nei prossimi mesi e alla quale servirà guardare con attenzione per riuscire a definire un impianto per quella parte di organizzazioni dell’economia sociale che hanno una decisa dimensione imprenditoriale: cooperative, mutue, fondazioni, imprese sociali.
Pertanto, se il Piano d’azione per l’economia sociale non vorrà essere un mero provvedimento per una politica di settore, ma uno strumento strategico volto a individuare e implementare azioni concrete in favore delle organizzazioni dell’economia sociale e della loro valorizzazione delle persone e delle comunità locali, anche le politiche fiscali dovrebbero essere sviluppate in coerenza con questo obiettivo.
In queste pagine si è provato a mettere in luce come la cultura e la visione delle organizzazioni dell’economia sociale abbiano contribuito a contaminare una parte importante delle istituzioni europee, evidenziando la necessità di correggere il modello economico europeo. L’economia sociale, in questi dieci anni, è passata dall’essere individuata come un settore funzionale a promuovere la responsabilità sociale e a coltivare nicchie di solidarietà, all’essere finalmente riconosciuta come un attore chiave per riqualificare e rendere sempre più equo e sostenibile il Mercato unico europeo e il suo modello di sviluppo e forse anche per proteggere e qualificare la natura stessa della democrazia politica europea, minacciata da una crescita impressionante delle diseguaglianze.
Le organizzazioni dell’economia sociale sono una forza di trasformazione che propone una visione e un progetto per l’Europa, assumendo su di sé la responsabilità di opporsi al deterioramento di un modello economico fondato sulle diseguaglianze. Con la loro presenza nelle comunità e nel tessuto produttivo europeo, le organizzazioni dell’economia sociale ci ricordano ogni giorno che è possibile ricomporre le divaricazioni tra capitale e lavoro, tra sviluppo e progresso umano, tra innovazione e inclusione per rimettere il benessere delle persone al centro dell’architettura istituzionale e politica dell’Unione Europea.
DOI: 10.7425/IS.2022.01.10
Box 1. Investimenti ad impatto sociale ed economia sociale L’interesse per gli investimenti a impatto sociale è certamente positivo, ma, per quanto sia oggetto di un dibattito decennale, rappresenta ancora per molti aspetti un elemento di cui devono ancora essere ben definiti i contorni e le implicazioni. Fino dal giugno 2013, nell’ambito del Forum sugli investimenti a impatto sociale del G8, è stata creata la Task force sugli investimenti a impatto sociale, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo di un mercato per questo tipo di investimenti; da questo percorso ha preso vita in Italia l’associazione SIA (Social Impact Agenda per l’Italia) a cui va riconosciuto il merito di perseguire un lavoro costante per accrescere nel nostro Paese la cultura dell’impatto sociale, sia tra gli investitori privati sia nel settore della pubblica amministrazione, individuando proprio nella cultura del dato e nella misurazione dei risultati un importante vettore di innovazione sociale. Tra gli elementi che caratterizzano questo filone, particolare rilievo è assunto dal tema della misurazione dell’impatto sociale determinato dalla realizzazione di un intervento, un progetto o un programma; tuttavia, le misurazioni d’impatto sociale non trovano ancora indicatori e criteri omogenei e anche se passi avanti sono stati compiuti, appare evidente che vi sia ancora molto da fare per delineare un quadro riconosciuto ed efficace per la valutazione degli impatti sociali, probabilmente anche in relazione ad una ancora insufficiente dotazione di strumenti e dispositivi di raccolta e analisi dei dati. Del resto, la valutazione dell’impatto sociale, per quanto debba contenere elementi importanti di misurazione, deve poter interrogare e ottenere dai dati molte più informazioni che riguardano aspetti come l’identità, i valori di riferimento, la visione dei cambiamenti sociali che l’investimento intende raggiungere. In questo contesto anche la Commissione Europea da molti anni riconosce il ruolo e l’importanza delle organizzazioni dell’economia sociale, in particolare per la loro capacità di promuovere innovazione sociale e di creare occasioni di lavoro sempre più significative, a cui si è aggiunto più recentemente l’interesse per il potenziale ruolo che in particolare le imprese dell’economia sociale possono svolgere per favorire investimenti ad impatto ambientale e sociale positivo per creare uno sviluppo economico sostenibile ed inclusivo, tanto che è stato istituito un regolamento per favorire la nascita di fondi di investimento (EuSEF) rivolti al sostegno dell’imprenditoria sociale. L’ambizione della Commissione anche in questo caso è quella di creare le condizioni per attrarre investimenti privati nell’economia sociale, ma occorre ricordare che dal 2013 (anno di adozione del regolamento EuSEF) la creazione e lo sviluppo di fondi di investimento privati dedicati all’economia sociale non ha risposto alle aspettative. Il Piano d’azione per l’economia sociale dovrebbe essere quindi un’occasione per migliorare effettivamente l’accesso al complesso mondo degli investimenti ad impatto sociale, per le organizzazioni dell’Economia sociale. |
Box 2. Economia sociale tra riconoscimenti delle istituzioni internazionali e disomogeneità dei quadri legislativi L’economia sociale è sempre più riconosciuta a livello internazionale come attore economico decisivo e rilevante capace di esprimere la capacità trasformativa della società civile organizzata ed è sempre più consolidata la dimensione imprenditoriale e la propensione alla generazione di valori economici e alla produzione di servizi di queste organizzazioni. Sono molti gli Stati che hanno adottato provvedimenti legislativi che ne riconoscono le finalità e le funzioni di interesse generale, delineando il profilo e la forma giuridica delle organizzazioni riconosciute come espressioni dell’economia sociale. A questo proposito una interessante e analisi comparativa è disponibile in un testo pubblicato da CECOP (Confederazione Europea delle Cooperative di Produzione e Servizi) [https://cecop.coop/works/cecop-report-on-social-enterprises-laws-in-europe-a-worker-and-social-coops-perspective] e curato da Antonio Fici, già autore nel 2017 di una ricerca, per conto del Parlamento Europeo nel quale si approfondiva la nozione giuridica di imprese dell’economia sociale. Il Consiglio dell’Unione Europea già nel 2015 riconosceva le imprese dell’economia sociale come un vettore chiave dello sviluppo e della crescita in Europa, manca ancora una definizione univoca e condivisa che identifichi formalmente le imprese dell’economia sociale e pertanto le istituzioni finanziarie, gli investitori e le banche adottano ancora atteggiamenti tradizionali. Tra gli organismi europei che molto hanno elaborato in materia di economia sociale certamente il CESE è uno dei più attivi, se consideriamo gli oltre 15 parerei approvati nel corso degli ultimi 10 anni, dai quali emerge come filo conduttore sempre confermato quello che identifica l’economia sociale come sistema di organizzazioni e imprese che antepongano gli obiettivi sociali al ruolo del capitale, promuovendo il protagonismo e la partecipazione attiva di persone e comunità locali, grazie ad una governance democratica capace di includere diversi portatori di interesse. In queste definizioni è andata via via chiarendosi anche la questione molto discussa relativa all’assenza di finalità lucrative, che in troppe situazioni viene confusa come obbligo di una gestione anti-economica e che in taluni casi viene interpretata come divieto a conseguire bilanci con un avanzo di gestione, così come mancano indicazioni legislative chiare su come misurare e valutare la specificità dei valori economici e della remunerazione degli investimenti in organizzazioni che non hanno finalità di lucro privato. A questo proposito è importante invece evidenziare che, proprio per conseguire obiettivi importanti per l’innovazione sociale, così come per creare buona occupazione è necessario avere anche una efficiente ed efficacie gestione economica, che sappia generare le risorse necessarie per perseguire gli scopi sociali. L’elemento distintivo, quindi, non deve essere individuato esclusivamente nell’assenza di lucro, ma bensì nella destinazione imprescindibile delle risorse economiche generate, che devono essere destinate al perseguimento degli obiettivi sociali istituitivi o fondativi dell’organizzazione. Un ulteriore filo comune che ritroviamo nei diversi pronunciamenti che definiscono un sostanziale riconoscimento dell’economia sociale, per istituzioni e organismi internazionali come l’OCSE, le Nazioni Unite, l’OIL e da diverse istituzioni dell’Unione europea, si trova nell’identificazione dell’economia sociale di 4 grandi famiglie organizzative: le cooperative, le associazioni, le mutue e le fondazioni, a cui si sono aggiunte in tempi più recenti le imprese sociali. Tuttavia, non si è potuto ancora raggiungere un accordo per una definizione giuridica omogenea a livello europeo che consenta alle organizzazioni dell’economia sociale con una vocazione produttiva ed imprenditoriale orientata all’interesse generale e alla realizzazione o gestione di beni comuni, di avere una piena e chiara agibilità e riconoscibilità giuridica. |
Box 3. Dimensione economica e nuove sfide. Il valore economico generato dalle organizzazioni dell’economia sociale è molto significativo sia per dimensione, considerato che rappresenta 8 % del PIL europeo [i dati sono estratti dal rapporto CESE], sia per qualità e persistenza in termini di servizi realizzati in favore dei cittadini e di posti di lavoro creati e mantenuti, anche durante gli anni della crisi finanziaria fra il 2008 e il 2014 e proprio in questi ultimi mesi di pandemia, con esempi straordinari di impegno e solidarietà. Ancora più rilevante il ruolo nella creazione e nel mantenimento di posti di lavoro, con oltre 13,6 milioni di posti di lavoro retribuiti in Europa, pari a circa il 6,3 % della popolazione attiva dell’Unione Europea. Fra questi lavoratori, circa 2,6 milioni sono lavoratori di imprese sociali rispondenti ai requisiti descritti dalla Social Business Initiative del 2011. Un patrimonio di impegno sociale e civile, oltre che economico, che alimenta anche un tessuto di partecipazione diffusa con i 232 milioni di soci di cooperative e mutue. Particolarmente interessante è il ruolo che le imprese dell’economia sociale, specie le cooperative di lavoro, possono svolgere per rendere più inclusive le nuove forme di imprenditorialità realizzate mediante le piattaforme digitali al fine di rendere più sostenibile e condivisa la partecipazione di lavoratori e utilizzatori, per sviluppare nuove forme di mutualità e di solidarietà, mediante tecnologie digitali, capaci di favorire una partecipazione diffusa oppure per dare maggiore protezione a lavoratori autonomi in settori come quelli della produzione culturale e artistica o delle attività legate all’indotto delle filiere dell’economia digitale, come nel caso dell’interessante fenomeno delle piattaforme cooperative, che ha dato vita anche ad un consorzio internazionale e ad un istituto di ricerca presso la NYC University. |
Impresa Sociale è una risorsa totalmente gratuita a disposizione di studiosi e imprenditori sociali. Tutti gli articoli sono pubblicati con licenza Creative Commons e sono quindi liberamente riproducibili e riutilizzabili. Impresa Sociale vive grazie all’impegno degli autori e di chi a vario titolo collabora con la rivista e sostiene i costi di redazione grazie ai contributi che riesce a raccogliere.
Se credi in questo progetto, se leggere i contenuti di questo sito ti è stato utile per il tuo lavoro o per la tua formazione, puoi contribuire all’esistenza di Impresa Sociale con una donazione.