Per chi in questi anni si è impegnato per far riconoscere l’importanza del contributo effettivo e potenziale delle organizzazioni dell’economia sociale al benessere delle persone e alla sostenibilità economica, sociale e ambientale e non la loro indispensabilità in diversi settori, l’Action Plan proposto dalla Commissione Europea rappresenta al contempo sia un importante punto di arrivo, perché chiude la “fase del riconoscimento” dell’economia sociale, sia di partenza, stimolando la riflessione su come dare forza a tale riconoscimento e come di conseguenza innovare non solo le politiche di sostegno, ma anche diverse politiche sociali e regolamentative. Per anni aveva imperato l’ideologia neoliberista, fondata sulla convinzione che i mercati siano sempre in grado di autoregolarsi e che la ricerca della massimizzazione da parte delle imprese comporti al contempo il massimo benessere sia individuale – riconoscendo e remunerando il merito – che collettivo; in tale clima culturale le organizzazioni dell’economia sociale e in particolare le cooperative erano considerate attori destinati a scomparire e sono state di conseguenza spesso incentivate a trasformarsi in imprese for profit.
Negli ultimi due decenni si è assistito a un progressivo cambio di atteggiamento. L’economia sociale, sia nel suo insieme, sia in alcune sue specifiche componenti, ha infatti guadagnato attenzione e riconoscimenti sotto molti punti di vista, in particolare per il contributo economico e occupazionale che è stata in grado di realizzare. La consapevolezza della sua rilevanza e la sua reputazione si sono decisamente rafforzate a seguito della funzione anticiclica dimostrata durante le due grandi crisi che hanno interessato questo secolo e per la rapidità con cui hanno contrastato l’epidemia da Covid-19, come è apparso evidente nel momento in cui si è iniziato a disaggregare i dati non solo per settori, ma anche per tipologie di impresa. Scoprendo così che, in molti Paesi, settori di grande rilevanza – come l’agroalimentare, quello dei servizi sociali e delle assicurazioni sanitarie – cooperative, mutue e associazioni garantiscono una parte rilevante se non maggioritaria dell’offerta.
Finora si era però trattato di riconoscimenti parziali o di singole forme dell’economia sociale – come nel caso della Social Business Initiative che riconosceva solo la parte “più sociale” (le imprese sociali) – o di particolari funzioni, come appunto la capacità di resistere nelle fasi di crisi o – secondo una affermazione che si trova in molti documenti – si relegava implicitamente l’economia sociale in un’area residuale delimitata dai fallimenti o dal disinteresse degli altri attori, sostenendo appunto che essa “arriva dove Stato e mercato non riescono ad operare”, come nelle esperienze assai diffuse dell’inserimento lavorativo di persone con difficoltà occupazionali. E, accanto a tali riconoscimenti parziali, venivano spesso riproposti – senza adeguati riscontri empirici, che, anzi, quando effettuati hanno portato evidenze in senso contrario – luoghi comuni relativi ad una serie di limiti che caratterizzerebbero il settore e che lo renderebbero comunque meno efficiente delle imprese pubbliche e convenzionali: in particolare la debolezza in presenza di comportamenti opportunistici, la cronica sottocapitalizzazione, i costi di governance elevati a causa dei processi decisionali inevitabilmente lenti e la bassa capacità di attrarre talenti.
Quindi: riconoscimenti sì, ma con cautela, senza esagerare e senza spingere troppo avanti la riflessione. Magari tentando di combinare riconoscimenti e limiti e di suggerire, per superarli, di ricorrere all’aiuto di attori che operano con finalità non solo diverse, ma inconciliabili: questo avviene ad esempio nei tentativi di usare la presunta sottocapitalizzazione delle imprese dell’economia sociale per giustificare la necessità di eliminare o allentare i vincoli alla distribuzione di utili per rendere appetibile il loro finanziamento alla cosiddetta “finanza a impatto”.
Il Social Economy Action Plan chiude questa fase di riconoscimenti parziali e di generiche perplessità con un riconoscimento pieno dell’economia sociale, della sua presenza più o meno marcata in tutti i settori – la “trasversalità” dell’economia sociale –, della sua rilevanza economica e sociale e del potenziale ancora inesplorato. Con ciò riconoscendo, in altri termini, l’economia sociale come un diverso modo di organizzare non singole attività più o meno di nicchia, ma qualsiasi attività economica, senza al contempo negare che esistono ambiti di specializzazione, inclusi quelli caratterizzati dai fallimenti (o più spesso dal disinteresse) di Stato e mercato; e riconoscendo come l’economia sociale sia in grado non solo di garantire livelli di efficienza pari o superiori alle altre forme d’impresa, ma anche di favorire uno sviluppo più sostenibile e inclusivo e di promuovere l’attiva partecipazione sociale dei cittadini.
E lo fa in due modi. Innanzitutto, richiamando le caratteristiche condivise dalle organizzazioni e dalle imprese dell’economia sociale: la predominanza della persona e degli obiettivi sociali e ambientali sul profitto che assume natura strumentale, il reinvestimento degli avanzi di gestione nel consolidamento e nello sviluppo dell’impresa per meglio soddisfare l’interesse dei soci o della società in generale e la governance partecipata e democratica. In secondo luogo, tracciando, senza dimenticare le specificità nazionali, i confini del settore attraverso l’individuazione delle forme giuridiche che ad oggi condividono queste caratteristiche: cooperative, mutue, associazioni, fondazioni e imprese sociali. A proposito di queste ultime l’Action Plan fa chiarezza anche nel confuso dibattito che ha caratterizzato gli ultimi anni: per rientrare nei confini dell’economia sociale, queste, se costituite in forme diverse da quelle sopraindicate – in genere come società di capitali – devono però condividere le stesse caratteristiche delle altre forme: superiorità dell’obiettivo sociale sul profitto, reinvestimento degli avanzi di gestione nel perseguimento dell’obiettivo sociale e quindi non distribuibilità degli utili tra i soci, governance democratica e partecipata. Non rientrano quindi nel settore le varie forme di imprese responsabili, imprese ad impatto, società benefit, B-Corp e low profit company. Tutte iniziative importanti, ma che continuano a far parte del secondo settore, quello del mercato.
Raggiunto il risultato del pieno riconoscimento e della definizione dei confini, restano ora da capire i fondamenti su cui il settore si basa e cosa va fatto e da chi affinché esso possa dare il massimo contributo in un contesto economico e sociale complicato come l’attuale; ciò appare oltremodo importante, anche per aiutare gli stessi operatori e dirigenti di imprese e organizzazioni del settore che sempre più spesso, a seguito del clima culturale prima descritto, si percepiscono come operanti in contesti e organizzazioni residuali e, come sta succedendo ad alcune cooperative sociali, vanno alla ricerca di uno status maggiormente legittimato, ad esempio trasformando o aggiungendo al loro status di impresa sociale quello ben più “socialmente diluito” di società benefit o simili.
Il primo passo in questa direzione è di carattere teorico, perché, se l’economia sociale è un settore che non va confuso con gli altri due, non può essere interpretata usando ipotesi e teorie proposte e sviluppate per altri scopi. Infatti, è a tutti chiaro che il meccanismo di coordinamento dei diversi attori che concorrono alla realizzazione di un bene o di un servizio è quello dell’autorità se il coordinamento è affidato allo Stato o quello dello “scambio per il guadagno”, se il meccanismo di coordinamento è affidato al mercato, dove infatti lo scambio – tra produttore e consumatore come tra lavoratore e impresa – avviene solo se tutte le parti sono convinte di guadagnarci; ma, invece, ci si chiede, qual è il meccanismo utilizzato dai soggetti dell’economia sociale? La risposta sta nelle caratteristiche del settore che, considerate nel loro insieme indicano che il meccanismo di coordinamento principale delle organizzazioni dell’economia sociale è quello cooperativo. Indipendentemente dalla forma giuridica adottata, questo è il meccanismo – non certo nuovo, ma a cui l’analisi economica non ha mai dato importanza se non nel primo Ottocento e recentemente con l’attribuzione del premio Nobel a E. Ostrom – che opera quando un gruppo di persone (o istituzioni) che condividono un bisogno o un obiettivo scelgono insieme e liberamente come organizzarsi per soddisfarlo, decidendo direttamente il modo di affrontarlo che a loro risulta più idoneo e conveniente e come suddividere tra i partecipanti (presenti o che si aggregheranno in futuro) responsabilità, costi e benefici. Senza necessariamente garantire che a maggiori costi corrispondano anche maggiori benefici. Il meccanismo di coordinamento cooperativo si distingue da quello del mercato perché non basato sullo scambio per il guadagno e perché costruito in modo consapevole e non come reazione automatica alla comparazione tra bisogno da soddisfare e prezzo, mentre si distingue dal meccanismo dell’autorità perché chi vi aderisce lo fa per libera scelta.
Un meccanismo che non ripudia lo scambio e non nega né la proprietà privata né l’importanza degli altri meccanismi, ma si propone come principio per gestire transazioni economiche in base al principio di reciprocità e spesso di solidarietà. Un meccanismo che gode di vantaggi importanti: la flessibilità, che lo pone in posizione di vantaggio nell’affrontare situazioni di incertezza informativa, perché l’accordo cooperativo è, almeno in teoria, sempre rinegoziabile, oppure la capacità di mettere a frutto motivazioni diverse e più complesse dell’autointeresse o dell’obbedienza, intrinseche e non solo estrinseche e monetarie. Motivazioni che sono in grado, a parità di condizioni, sia di ridurre i costi di transazione, sia di contribuire in modo originale alla creazione di valore economico e sociale. E che se non utilizzate sono semplicemente sprecate.
Questa interpretazione – da approfondire anche attraverso un vasto dibattito – oltre che favorire la comprensione delle specificità del settore, aiuta anche ad analizzare criticamente le forme giuridiche disponibili, l’adeguatezza della regolamentazione, l’applicabilità del meccanismo della concorrenza, le modalità di governance e di gestione e, last but not least, le politiche di sostegno. Tutti temi che occuperanno il dibattito nel corso del prossimo anno in attesa dell’adozione definitiva da parte del Parlamento Europeo dell’Action Plan.
DOI: 10.7425/IS.2022.01.16
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